Ci eravamo arrampicati su per gli stretti tornanti fino ad arrivare a quella che alcuni secoli prima era una rocca a difesa della città sottostante. Il tempo aveva lasciato ben poco, solo qualche masso impilato uno sopra l’altro a vago ricordo di un muro di cinta. In un angolo, il più remoto e lontano dalla vista, si poteva immaginare ergersi una torre quadrata, la base era appena accennata. Da lì alcuni uomini di vedetta facevano la guardia per controllare che all’orizzonte non arrivassero i nemici.
Pochi anni prima la circospezione comunale aveva deciso di adibire l’intera zona a una specie di area protetta, un luogo di interesse culturale, o spazio archeologico, non ricordo bene. Il risultato fu una festa celebrativa durante la quale tutti quanti si divertirono a vestirsi con abiti medioevali e a favellare come era uso fare all’epoca. Era stata anche fatta una passeggiata panoramica, lungo la quale ci si poteva mettere a sedere su una delle panchine in legno e restarsene in coppia a parlare, oppure semplicemente a guardare di fronte a sé.
Noi eravamo seduti proprio su una di quelle panchine. Fin da subito la zona non aveva attirato nessun tipo di turismo, né tantomeno era diventata il nucleo principale di ritrovo della gioventù cittadina. Era sempre per lo più deserta, se si escludono alcuni tossici che di tanto in tanto vi trovavano rifugio per spacciare e comprare e. L’erba, quella ai bordi delle strade, compresa la passeggiata che doveva essere il fiore all’occhiello dell’intera area, cresceva incontrollata senza che nessuno si prendesse il fastidio di tagliarla regolarmente. Nelle sere d’estate più fortunate potevi sentire il lieve alito di vento soffiare tra i ciuffi più alti, muoverli in un danza ondulata, e startene a occhi chiusi a goderti quella leggera brezza rinfrescare le giornate sempre più calde.
Noi andavamo là a prescindere dal tempo. Non aspettavamo l’estate per salire lassù. Ci andavamo quando più ci tornava comodo, anche d’inverno se ne sentivamo il bisogno. Era un buon posto dove starsene in pace a parlare. Quella volta per esempio era abbastanza freddo ed entrambi indossavamo una giacca di pelle. Tenevamo il bavero rialzato per ripararci il collo mentre un sorso dopo l’altro ci passavamo una bottiglia di vino rosso che avevamo portato da giù.
Lei parlava, poi si fermava. Aspettava qualcosa che pareva non arrivare mai, un segno o un indizio, dopodiché riprendeva a parlare. Si tuffava in discorsi così appassionati che le parole sembravano prendere forma davanti a noi. Sentiva fortemente quello che diceva. I suoi discorsi erano individui, li partoriva quasi.
Lo spettacolo era fantastico. Eravamo abbastanza in alto e abbastanza dispersi nel nulla da essere illuminati solo dalla luce della luna, piena quella sera. Allo stesso tempo di fronte a noi si srotolava il paesaggio della valle, fatto di strade collegate le une alle altre, con i lampioni ad accendere la notte e i fari delle auto percorrerle lente. Era come vedere il fluire di un sangue irradiato da chissà quale sostanza radioattiva.
Fino a quando io a un tratto mi decisi a dire: lui non capisce quale persona speciale tu sia. E fu lì che rovinai tutto. Non in quel preciso istante, non in quel momento, ma furono quelle parole che diedero il via a un processo di erosione che portò a smussare il terreno sul quale si appoggiava tutta quella stupenda sensazione di tranquillità e bellezza.
A volte lo capisce. Rispose lei. Capisce che sono speciale.
Aveva sentito nella mia frase un certo grado di critica negativa ed era subito corsa a cercare un riparo, un modo per giustificarsi giustificando lui.
Era calato un silenzio così denso da prendere quasi forma attorno a noi. Era un muro spesso e solido, non a difesa ma a separazione.
Non dovrebbe capirlo sempre, di continuo, dissi io, che sei speciale?
Nessun commento:
Posta un commento