il padre putativo pudore sputatore su lava fiamme e melma disse: alzati, figlio mio. Pinocchio risposte con scricchiolii legnifughi alzandosi in piedi e balzando sotto il tavolo, dove il gatto ammiccava felino agli stivali neri lucidi, da moschettiere. voglio vivere, disse. voglio parlare. voglio parole, frasi, periodi. voglio inverni, primavere estati. Autunni del nostro scontento. voglio l'aria. voglio i polmoni. disse: voglio i desideri. voglio le paure. i peccati. voglio la cresta dell'aria quando si infiamma di saliva amorosa. voglio l'atmosfera arancione celeste delle candele. voglio il sapere, la conoscenza, l'ignoranza. voglio la libertà e le catene. voglio il sole e i suoi colori. voglio la pioggia, le nubi le tempeste gli uragani dei pensieri. voglio la sete, la seta, la fame, la fama. voglio la pelle, disse. voglio un naso e la strada dove poggiarlo. voglio le bugie. voglio le bugie. le bugie. le bugie. voglio solo le bugie. su bugie. voglio le bugie. le bugie. le bugie. le bugie. voglio scopare le bugie fino a sanguinare tutto l'inguine in spruzzi di rosso sulle lenzuola livide di tatto forzato, botte schifose in abbracci strinti in amplessi volgari. voglio sputar via lo sperma dell'innocenza passata sprecata rotta e venduta svenduta come imene liso teso fino all'inverosimile: lasciamo passare le truppe nemiche, o voi che entrate nella landa desolata di questa pianura desertica. voglio i capelli sudati appiccicati sulla fronte attorno alla guance, mangiarne a ciocche bagnate finite dentro la bocca con lo sporco del giorno, della notte, delle sere ubriache, utilizzarli per sfondi sudici, fili interdentali con cui pulirsi lo sporco per aggiungerne altro di altra natura. voglio.
la mannaia dell'accetta del machete di Geppetto si abbassò con un'ombra gravida di tristezza. c'era ancora da lavorare, revisionare le attuali scoperte invertendo alcuni concetti per raggiungere l'illuminazione. aprì il torace mentre il gatto faceva le fusa attorcigliandosi sui suoi stinchi, la coda ritta a captare dettagli sismici di gravità emozionale. dentro pinocchio non c'erano vene, sangue, neppure onde concentriche di vita a segnarne gli anni, lo stratificarsi delle stagioni, linfa verde e vitale, clorofilla cristallizzata. non c'era niente di tutto questo, ma un albero di natale lampeggiante in lucine sempre più piccole e dettagliate che stava andando via via spegnendosi nel buio, microchip saldati su schede madri attorcigliate legate una sulle altre, un parquet di verde aperto come un libro sul tavolo da lavoro di Geppetto, un souvenir di viaggi interstellari fatti nella fantasia di millenni addormentati su cuscini consumati, appoggiato sul piano regolare insieme ad altri prototipi neppure mai messi in test o provati a far camminare con le loro stesse gambe: tronchi, alberi, ceppi di legno inanimato da cui erano stati tolti tutti gli arbusti per renderne liscia la prospettiva di visuale; e pialle, coltelli infradiciati di scorza secca, corteccia sempre più inanimata con residui ambrati di colate estemporanee.
"Il futuro non è la natura." Disse Geppetto al gatto addormentato dentro gli stivali.
"Il futuro è la natura, perchè la natura è puttana." Disse Pinocchio in un ultimo spasimo di essere. il braccio gli ricadde verso il vuoto, perso nella gravità che dal tavolo di lavoro pendeva verso il pavimento.
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