c'è un confine piuttosto labile tra ciò che uno si aspetta e ciò che invece poi alla fine avviene. e per conquistare questo pezzo di terra instabile che si perde spesso nello stesso tempo durante il quale di notte ci si accorge di iniziare a dormire, l'essere ancora svegli ma cominciare lo stesso a sognare, non puoi immaginare quante guerre vengano combattute, quanto sangue venga versato, a volte inutilmente, per spostare la lancetta di ciò che accade da uno a dall'altra parte.
generali di varia natura passano ore e ore seduti dentro le proprie tende nell'accampamento sopra colline al riparo dalla battaglia vera e proprio, lontano da tutti gli spari e dalla confusione del fronte, per poter partorire in santa pace una strategia di attacco che sia degna della vittoria. spostano mentalmente i propri uomini, le proprie intenzioni, muovendo tutto quanto come pedine di un gioco a tratti più grande pure di loro, del loro mondo, delle terre da prendere. sparano all'impazzata quando sono presi dalla paura, perché a volte avviene, si, di sentirsi con le spalle al muro e di non avere più una via di uscita, di vedere la fine inevitabile distesa nell'erba fredda e priva di vita; e in questi momenti qualsiasi uomo si lascia prendere dal panico, una sensazione talmente incontrollabile da offuscare pure i pensieri, capace di far calare la nebbia non nelle valli dei teatri dei combattimenti quanto piuttosto nella testa di coloro che invece dovrebbero riuscire a vedere tutto quanto con nitidezza. invece: le figure si fanno sempre più indistinguibili, i loro contorni si perdono tra il paesaggio, ogni cosa diventa secondaria, non si riesce a mettere a fuoco niente, se non il terrore, quello si, che galoppa a grandi falcate verso il centro della tua testa, andandosi a tuffare alla base del naso, tra occhio destro e occhio sinistro, dove idealmente si incontrale le tue sopracciglia, e graffiando e ruggendo e sbranando la pelle per cercare di entrarti in testa; vedi questa belva feroce che ha come unico obbiettivo il tuo cervello, ed in questo preciso momento istante che il panico ti afferra per le spalle, ti volta per guardarti in faccia e ti bacia di un bacio bagnato cercando con la lingua quel tasto magico perso in bocca capace di bloccare del tutto la ragione. e quando ci riesce, quando ci riesce è il caos sparso in tutto il tuo corpo che fuoriesce in onde dirompenti: è una diga che rompe gli argini e devasta tutti i paesi ai suoi piedi; è il diluvio, è l'alluvione, è il cataclisma finale di confusione totale.
si inizia a sparare alla rinfusa, senza un minimo di criterio, come a voler trivellare il cielo con le pallottole; si dà ordine di aprire il fuoco con i cannoni per poter devastare, sconfiggere; si ordinerebbe all'aviazione di sorvolare il campo di battaglia e sganciare bombe h a ripetizione, se solo si potesse disporre di aerei e bombe h e possibilità di viaggiare nel tempo per rubare progressi tecnologici e portarli dove più ci servono.
ma così facendo si va ad ammazzare una massa indistinguibile di corpi che cadono via via al suolo. il conto dei nemici uccisi si confonde con il numero degli amici o alleati perduti per sempre e non è possibile dividere, fare una statistica o un censimento dettagliato; ordinare corone di fiori per le vedove, mandare cartoline di commiato, spargere lacrime a volti che il fuoco ha reso così irriconoscibili. il tutto per conquistare un confine che è in continuo movimento, e un giorno è qui, un giorno è là, e ogni giorno che passa ci sarebbe da conquistare una nuova collina, o un nuovo campo, o una nuova città: una nuova ragione, e non regione.
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