mi manca tornare a casa e trovare tutte le stanze piene fino all'orlo dell'odore dell'acetone. le tue unghie cambiavano colore vestendo sempre la stessa tonalità. e quella volta che uscimmo lasciando il gas aperto e quando tornammo accendemmo un fiammifero per vedere meglio la serratura dove infilare la chiave ed esplodemmo tutti per aria in brandelli di braccia di gambe di petti e teste e cuori? l'intero quartiere scoppiò in una nuvola di fumo color cenere, e noi in mezzo a tutte quelle lacrime eravamo contenti perché almeno avremmo colto l'occasione per rimontarci meglio, prendendo le parti che più ci piacevano per collezionarle e scartare via quelle che invece proprio non sopportavamo. di cuori, dicevi, di cuori è sempre meglio averne due tre quattro cinque, uno per ogni occasione, perché non si sa mai quando ti si può rompere, o quando lo lasci da qualche parte, magari solo dieci minuti su una panchina, oppure quando lo presti a qualcuno e questo qualcuno lo fa suo come se niente fosse e non te lo rende più. gli stomaci, gli stomaci, dicevo io: quanti più stomaci ti porti dietro e quante più farfalle potrai catturare. vorrei avere una voliera di stomaci, desideravo a volte. ma te dicevi che di stomaci ne volevi solo uno, uno basta e avanza, perché quando ti si stringe e non riesci a mangiare, quando sei così eccitata da non avere più appetito, proprio per niente, allora in quel momento tutti gli altri stomaci diventano inutili, e alla fine, se ci pensi bene, dicevi, non fanno che occupare spazio, spazio prezioso. strane cose sono gli stomaci, mi facevo serio allora io.
gli intestini, ad esempio. gli intestini, sia i crassi che i tenui, nessuno dei due li voleva. erano tutto un attorcigliarsi confuso, pieno di merda poi alla fine, che non faceva altro che confonderti ancora di più, come se non lo fossimo già di nostro, confusi.
quando arrivarono i pompieri quella volta dell’esplosione noi eravamo seduti a gambe incrociate, ne avevamo trovate tre paia che ci piacevano davvero molto, poco lontano dalla porta di casa. c'era tutta questa fuliggine, che ci pioveva addosso, e le autopompe arrivarono a sirene spiegate, facendosi largo tra la nebbia di cenere, mentre noi non facevamo altro che chiedere ai pompieri dove fosse grisù. dov'è grisù, urlavamo. ma loro non ci prendevano in considerazione, tutti intenti a giocare lì con l'acqua, quando ormai il fuoco non si era spento del tutto ma sembrava ormai innocuo, quando non poteva più fare male a nessuno.
mi mancano poi le sere che passavamo seduti una sull'altro sul divano in salotto, con la televisione accesa solo per fare da sottofondo al nostro parlare. tu mi dicevi: raccontami, ed io iniziavo a raccontare; ma non una storia, una storia qualsiasi, bensì cominciavo a raccontare te, mescolando i ricordi, rimodellandoli con le immagini più strane, spostandoli da un posto all'altro senza stare troppo a filosofeggiare sulla congruenza o sull'esattezza di ciò che dicevo. d'altronde, tu insistevi sempre nel dire che io rendevo meglio quando ero sotto sforzo, che quando ero in affanno non stavo troppo a pensare e le parole, le frasi, i periodi, tutto quanto mi scendeva veloce così spontaneo dalla testa fino alla bocca per poi straripare senza filtro oltre le labbra.
per questo a volte mi domando se mai passando da queste parti, anche solo per caso non certo per cercarmi, ti accorgerai che io non faccio altro, altro se non continuare a raccontarti, raccontarti di continuo, quasi ti stessi respirando. ogni giorno una storia, ogni giorno una parte di te: uno ad uno ogni singolo cuore. e tutte sera vado a correre, convinto magari che una volta o l'altra riuscirò pure a raggiungerti, prima o poi.
Nessun commento:
Posta un commento