La telefonata è emozionante, stuzzicante come un primo appuntamento, come l’inizio di qualcosa. C’è un impeto di curiosità, il desiderio di sapere tutto subito. Com’è la tua vita, come iniziano e come finiscono le tue giornate? Che cosa fai per divertirti? Perché sei venuta a cercarmi? Che cosa vuoi?
La mancanza di purezza mi è diventata chiara: non sono la figlia di mia madre adottiva ma non sono neanche la figlia di Ellen. Sono un amalgama. Sarò sempre una cosa appiccicata insieme, qualcosa di leggermente rotto. È uno stato da cui non posso riprendermi ma che posso solo accettare, con cui devo convivere, con compassione.
È più facile guardare qualcuno in foto che nella vita vera: non si prova nessun imbarazzo a guardarlo negli occhi, nessun timore di essere colti a fissarlo.
“E che cosa facevate per divertirvi?” gli domando, e lui semplicemente mi guarda. La risposta è evidente. Sesso. La loro relazione non era che sesso, almeno per lui. Io sono il prodotto di una vita sessuale, non di una relazione.
Essere adottata significa essere adattata, essere amputata e poi ricucita. Che ti ripigli o no, la cicatrice resterà sempre.
Anche se mi fa piacere sapere che non sono mai stata dimenticata, è ancora più strano che non vengo mai capita.
Persino quelli che sembrano onesti, o forse addirittura eroici, in realtà non lo sono; invece sono umani, profondamente imperfetti.
Nel corridoio fuori dall’Oyster Bar lei indossa una vaporosa pelliccia bianca, una camicetta di seta stampata e un paio di pantaloni, ha i capelli raccolti sulla testa in una specie di chignon post anni cinquanta. Sembra uscita da un altro decennio: una donna che crede nel glamour, che per tirarsi su di morale ascolta Burt Bacharach e Dinah Shore. Ho il sospetto che fosse così che si vestiva quando di vedeva con mio padre – probabilmente anche allora negli alberghi – adesso però ha cinquantacinque anni e il tempo le ha portato via molto.
È lui il bambino che usciva con Norman ed Ellen. È lui l’unico testimone di tutta questa storia. aveva dieci anni quando è successo il patatrac. È convinto che abbiamo qualcosa in comune – il fatto che condividiamo il segreto di nostro padre – se non fosse che io il segreto non lo condivido, io sono il segreto.
Le propongo di scriverci, ma basta telefonate.
“E se vado dal medico e mi dice che mi restano ventiquattr’ore da vivere, devo chiamarti?” chiede.
“Aspettane venticinque, poi telefonami.”
Si tende a idealizzare le persona che non ci sono più.
Sono passati sette anni ed è ancora tutto vivido come quando è accaduto. A quanto pare funzionano così i traumi: non cambiano, non si addolciscono, non si attenuano, non mutano in qualcosa di meno tagliente né di meno pericoloso.
È nella natura umana fuggire il pericolo; ma perché dovevo essere così umana?
Provo a ricordarmi che il tentativo di rispondere alla domanda Chi sono io? non è una prerogativa degli adottati.
Da bambini siamo tutti creduloni per natura. Non ci viene in mente che potremmo dubitare della storia di famiglia; la accettiamo come un dato di fatto, senza riconoscere che è una storia appunto, un’opera di fantasia, stratificata e frutto di una collaborazione.
Penso a denunciare mio padre per dimostrare che è mio padre, e già solo dirlo – denunciare mio padre per dimostrare che è mio padre – ha la stessa eco surreale di quando mia madre mi ha detto che mia madre era morta. Denunciare mio padre.
A. M. Homes
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