È la sera prima di quella che verrà ricordata come la giornata della neve prevista 2013. Fuori dal teatro, e dalla relativa caffetteria nella quale si terrà l’evento, l’aria è fredda ma in cielo non ci sono ancora nuvole capaci di far credere reale quanto predetto dai meteorologi. Le persone nel cortile a fumare parlano di altro, e quando la conversazione si imbatte inevitabilmente sul tempo atmosferico tutti quanti paiono abbastanza scettici: le previsioni non si avvereranno, non qui almeno, non a Pistoia e provincia, sembrano pensare.
Dentro l’aria è ben più calda e l’ambiente ristretto della caffetteria viene illuminato da poche luci soffuse poste qua e là a illuminare la porzione di spazio adibita a palco e il bancone del bar sul quale rimangono gli avanzi dell’aperitivo appena terminato. Sono le dieci di sera, orario annunciato per l’inizio di un concerto che non sarà solo concerto, e Alessandro Fiori sorseggia un cocktail chiacchierando con alcuni degli intervenuti. Tipico, per due motivi.
Uno: Fiori, barba folta e capelli grigi per l’occasione nascosti sotto una parrucca nera (per festeggiare il carnevale) ha un attaccamento particolare con gli alcolici, così come la grande maggioranza dei suoi colleghi musicisti/cantanti (e non è una critica negativa, non proprio, almeno quando la cosa non tracima in una sottospecie di sbornia storta, triste e alquanto incomprensibile per chi ne è testimone).
Due: Fiori, sempre barba folta e capelli grigi per l’occasione nascosti sotto una parrucca nera (sempre per festeggiare il carnevale) ha anche un’aria sorniona, distaccata, come se l’impulso dato alle labbra per allargarsi in un sorriso si trovasse molto in profondità, dentro di sé; un’aria che in un primo momento può apparirti asettica ma al tempo stesso è capace di ammaliarti quando ti avvicini a lui e ti perdi nelle sue sabbie mobili nel tentativo di individuare con precisione la natura di quel sorriso.
Fiori è fatto così, ed è il suo bello. Anche le sue canzoni, sverniciandone via il suono, restano affascinanti soprattutto per i testi a volte strampalati, bizzarri, tenuti su con un equilibrio degno di un equilibrista dilettante, ma pur sempre intrisi di un romanticismo e di un senso tutto proprio fuori dall’ordinario, e proprio per questo, al di là di essere unici per definizione, assai più belli di quanto altro possa esserci nel panorama italico della canzone (e non parlo di Sanremo, ormai alle porte, quanto piuttosto della canzone italiana che si aggira nel sottobosco delle provincie e dei locali). Le puoi ascoltare in modo distratto e non renderti conto di cosa siano in realtà, ma quando le affronti con un’attenzione meno superficiale ti ritrovi a dovere fare i conti con i versi e i ritornelli che ormai ti sono entrati dentro la testa e non riesci a fare uscire. Non tanto perché sono orecchiabili (a volte pure quello), quanto soprattutto perché li hai capiti e ti sono entrati appunto dentro con quella particolare abilità di farti sentire a tuo agio e di parlare di cose delle quali vorresti sentire parlare fino all’eternità.
Questo è un aspetto che Fiori riesce a trasportare nelle proprie canzoni ma che traspare anche nel parlarci insieme o nell’assistere a un suo spettacolo. Riesce ogni volta a creare un’atmosfera molto intima, al di là del numero di spettatori, e rendere lo spettacolo una specie di esibizione privata, quasi casalinga, come se avesse invitato tutti quanti a casa sua e si fosse messo sotto le luci dei riflettori non perché è l’artista che tutti sono venuti a vedere quanto piuttosto perché è la sua natura, perché non è lui a cercare la luce, è la luce a volerlo illuminare a tutti i costi.
Anche questa serata non è da meno, nonostante lo stesso Fiori, dopo un paio di canzoni, avverta gli intervenuti che non si tratti di un vero e proprio concerto, come anticipato poco sopra, bensì di una specie di reading inquinato dalla musica. L’occasione è data dall’imminente pubblicazione di un libro nel quale vengono raccolti alcuni scritti dell’autore aretino trapiantato nel Mugello. Il passo era inevitabile e non coglie nessuno di sorpresa, caso mai ci si domanda come mai sia dovuto passare così tanto tempo prima che una casa editrice si sia decisa a pubblicare il lavoro letterario di Fiori.
I pezzi, slegati gli uni dagli altri e letti con la collaborazione di un componente degli Amore (gruppo secondario di Fiori che avrebbe meritato maggior fortuna), sono chiaramente frutto di un’attività continua e mai interrotta, magari annotati ogni sera da qualche al termine di lavori vari e arrangiamenti su pezzi provati e riprovati. Mancano magari di un po’ di omogeneità, almeno da quanto lasciato trasparire dalla lettura, ma ancora è troppo presto per dire se questa piccola pecca sia insita nella loro natura a essere tale o se sia la decisione di recitarli uno dietro l’altro a renderli tali. Quel che si può dire dopo un’ora scarsa di lettura è che Fiori come sempre sa giostrarsi tra fatti e cultura con un’ironia non cialtronesca ma studiata, non facile ma assai spassosa quando la capisci, come nel caso della rivisitazione della vita di San Francesco e gli Ufo, o come quando racconta in modo asincrono lo sbarco dell’uomo sulla luna.
Quello che ha avuto luogo alla caffetteria de Il Moderno può non essere un concerto in senso stretto, né un vero e proprio reading classico, ma è stato pur sempre un evento durante il quale Fiori ha aperto virtualmente le porte di casa sua, lasciandoci entrare a sentire la sua musica, le sue parole; a vedere la piccola Carla passeggiare tra il pubblico nel tentativo di rubare la scena al babbo. La caffetteria si è trasformata senza alcun trauma nel salotto della famiglia Fiori e tutti quanti si sono riuniti attorno al buon caro Alessandro per ascoltarlo (suonare, leggere, raccontare) per il semplice motivo che è bello, e interessante, sentirlo in tutte le sue possibili versioni.
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