L’orario di inizio spettacolo desta qualche perplessità. Sembra che il concerto inizi alle 21.00 (strano) con l’esibizione del gruppo spalla. Non è una stranezza semplice da spiegare, in quanto tale stranezza si suddivide in due stranezze minori: una è l’ora piuttosto anticipata, in un locale dove mediamente fino alle 22.00 non si ascolta altro che musica registrata; l’altra è la definizione di gruppo spalla, che a sua volta si potrebbe suddividere in ulteriori due facce: il gruppo spalla non è un gruppo spalla, in quanto si tratta di una solista; la solista, o gruppo spalla che dir si voglia, non è una cantante qualunque, quanto piuttosto Lisa Hannigan.
Quando sale sul palco in perfetto orario, le nove spaccate, si ha subito la sensazione di avere davanti agli occhi un’artista di grande talento ma con un’altrettanta grande, se non smisurata, modestia. Nel corso della serata si capirà perfettamente che la bella e brava Lisa soffre in modo cronico di un disturbo da gregario che le impedisce di presentarsi al pubblico come vera e propria star se non accompagnata da un altro cantante. È stato il caso degli esordi, con Damien Rice, e lo è in qualche modo anche ora, nonostante aver pubblicato due bellissimi album in perfetta solitudine, con Glenn Hansard, con il quale è venuta in tour fino a Firenze (per l’occasione tinta di un immaginario verde irlandese) e che non smette di ringraziare in ogni circostanza.
Lisa entra in scena con una semplicità così profonda che la contraddistinguerà per il resto della serata. È sintomatico che le prime canzoni le canti da sola, accompagnata solo dalla sua chitarra o varianti di, quasi voglia definirsi più piccola di Hansard che invece si avvarrà di un numero smisurato di strumentisti, tanto che il piccolo palco del Viper avrà qualche problema ad accoglierli tutti. Vestita di un abito nero con piccoli pois bianchi e calze scure, appare nell’ombra del locale come una pallida madonna con una cascata di capelli lisci sulla testa. Canta con quella sua voce dal timbro tutto particolare che una persona normale potrebbe avere solo dopo avere corso per un’ora ed essersi lasciato asciugare il sudore addosso in una fredda notte d’inverno; con la sola differenza che la suddetta persona stonerebbe a ogni parola, a suon di starnuti e colpi di tosse, mentre lei riesce a esibirsi in maniere impeccabile, anzi, catturando lo spettatore con solo la sua voce e ricoprendo di magia tutte le strofe, tutti i ritornelli, e tutti i “grazie” con i quali si rivolge al pubblico tra una canzone e l’altra, e pure tutte le persone che si trovano di fronte a lei. È fantastica: immobile davanti al microfono, con gli occhi chiusi e la testa leggermente reclinata all’indietro per modulare al meglio la voce. Così come è fantastica quando accoglie sul palco alcuni componenti del gruppo di Hansard e si esibisce in canzoni più articolate, dai ritmi più allegri e giocosi, tanto che tra la gente accorsa c’è chi inizia a ballare timidamente, accompagnando ogni performance con applausi e ringraziamenti. È bello ed è bella, perché si capisce non solo ascoltando la sua musica ma anche guardandola esibirsi insieme ad altri musicisti, quanto sia felice nel suonare, nel cantare. Sorride di un sorriso che le invade gli occhi e le rotondeggia le guance verso l’altro, in un’espressione beata che lascia capire quanta allegria e piacere lei stessa respiri nel suonare e nel cantare.
Quando lascia il palco è passata solo mezz’ora. Non concede bis e si ritira dietro le quinte lasciando una vaga sensazione di insoddisfazione nelle ancora poche persone che si trovano nel locale. Sono le 21.30 e molto probabilmente chi è intenzionato a vedere Glenn Hansard è ancora a casa e comincia solo ora a prendere vagamente in considerazione l’idea di iniziare a prepararsi per venire al Viper. Non sanno cosa si sono persi, e la speranza è che una frase regalata da Lisa al pubblico risulti vera quanto la convinzione con cui è stata detta: sono felice di essere a Firenze e spero di tornarci preso. Lo speriamo tutti, Lisa. Davvero. Lo spettacolo è stato troppo breve per riuscirne a goderne appieno. È stato una specie di sogno che finisce non appena inizi ad abituarti all’ambientazione; uno di quei sogni dai quali non ti vorresti mai svegliare e che invece devi abbandonare troppo presto.
Quando ti svegli, almeno virtualmente, al Viper alle 21.30 di un venerdì di fine febbraio, è come se però ti fossi svegliato alle 4.30 del mattino di un qualsiasi giorno lavorativo. Non puoi alzarti del tutto, è ancora troppo presto, devi solo prendere quel breve momento di veglia per quel che è, ovvero un intervallo, e cercare di rimetterti a dormire il prima possibile, sperando magari di riacciuffare per i capelli quel sogno che tanto bene sognavi. Non è facile, ma neppure impossibile. Il più delle volte finisce però che cadi in un altro sogno, diverso, ugualmente bello e ugualmente emozionante.
Il nuovo sogno, al Viper, si chiama Glenn Hansard, irlandese dai capelli rossi con tanta vogli di fare musica e di divertire, che sale sul palco anche lui con una puntualità inedita da queste parti, alle 22 spaccate, e suonerà fino all’una di notte con solo un breve intervallo di neppure dieci minuti. In tutto questo tempo il nostro avrà modo di dimostrare tutto il suo valore come musicista, cantante, e intrattenitore. Le trascinanti canzoni con cui si scatenerà alla chitarra e alla voce faranno temere il peggio per la sua integrità fisica, quando spingendosi sempre più verso il limite della propria ugola raggiungerà un colorito rosso pompeiano acceso, tanto da ingrigire a confronto pure il colore del cuoio capelluto; così come risulterà esilarante negli intermezzi esplicativi, raccontando aneddoti vari in un inglese comprensibilissimo e accompagnato da una mimica eccezionale (fantastico e divertente il resoconto di una gita in barca con un suo amico durante la quale si dimenticheranno entrambi di cosa stiano a significare i fari luminosi in mare).
Nell’impeto dell’esibizione Hansard si infortunerà pure a un dito, anche relativamente a inizio show, tagliandosi con la corda della propria chitarra, ma laddove con altri artisti questo evento avrebbe potuto essere visto come un punto critico, una situazione che in qualche modo poteva suggerire all’infortunato di turno di tagliare corto e farsi medicare, con l’irlandese in oggetto funziona esattamente al contrario, spingendolo a picchiare ancora di più e più forte sulle chitarre consumate fisicamente, e l’evento, invece di risultare come il punto di chiusura dello spettacolo, offre al nostro l’opportunità di esibirsi in una cover caricaturale (e buffa) di Enter Sandman dei Metallica, prima ovviamente di ringraziare il pubblico, ciucciarsi un poco il dito, e riprendere a suonare come se niente fosse.
Ciò di cui ti accorgi a un certo punto, un punto imprecisato del concerto e che varia da persona a persona, è che la natura di Hansard è la stessa condivisa dal primo Bruce Springsteen, e anche se per alcuni tale affermazione può risultare come una specie di bestemmia, è altresì innegabile come ad oggi ci siano pochi cantanti capaci di far trasparire nei propri spettacoli il grande potere di aggregazione della musica. Sul palco del Viper guardi questo ragazzo dai capelli rossi, vestito tranquillo in jeans e camicia, contornato da un gruppo piuttosto affollato di amici, aiutato solo dagli strumenti musicali, senza l’ausilio di nessun effetto speciale, e quando si lancia in trascinanti progressioni di ritmo, da tranquillo a forsennato, da forsennato a indiavolato, ti rendi conto di come tutti quanti, musicisti e pubblico, siano attratti quasi gravitazionalmente verso il centro della musica, dentro il quale perdersi e ubriacarsi, e hai la sensazione di fare parte di un qualcosa di grande, di sensazionale, anche solo ascoltandolo.
Questo è Glenn Hansard, e questa è la sua personale versione di condividere la propria musica: non solo suonarla ma darla al pubblico come se questa fosse un mare, magari privo di fari a indicare scogli pericolosi, e immergendo in questo mare chiunque voglia ascoltarlo. La sua musica ti accerchia, ti sovrasta, ti abbraccia. Una sensazione che difficilmente riuscirai a staccarti di dosso, anche a causa del desiderio inesauribile di Hansard stesso di darsi, di offrirsi, che lo spingerà a non smettere mai, a iniziare sempre una nuova canzone, alternando pezzi carichi a pezzi lenti, elettricità a note acustiche, richiamando sul palco Lisa Hannigan per alcuni duetti, il tecnico del suono per suonare la chitarra in un pezzo, e che porterà l’intera truppa irlandese a esibirsi privi di alcun tipo di amplificazione in una personale rivisitazione di Passing Through di Leonard Cohen, prima sul palco e poi in mezzo al pubblico, immergendosi nelle persone mentre le persone si immergono nella musica che si immerge a sua volta nei musicisti, e poi nelle persone: come un’onda che si attorciglia tutta attorno a se stessa e si confonde nel mare facendo perdere le tracce dell’inizio dell’onda e della sua fine, l’inizio del mare e la fine del mare.
Sono le una di notte quando ti svegli, definitivamente, fuori dal Viper. I sogni sono finiti e difficilmente riuscirai a riaddormentarti presto.
Quando sale sul palco in perfetto orario, le nove spaccate, si ha subito la sensazione di avere davanti agli occhi un’artista di grande talento ma con un’altrettanta grande, se non smisurata, modestia. Nel corso della serata si capirà perfettamente che la bella e brava Lisa soffre in modo cronico di un disturbo da gregario che le impedisce di presentarsi al pubblico come vera e propria star se non accompagnata da un altro cantante. È stato il caso degli esordi, con Damien Rice, e lo è in qualche modo anche ora, nonostante aver pubblicato due bellissimi album in perfetta solitudine, con Glenn Hansard, con il quale è venuta in tour fino a Firenze (per l’occasione tinta di un immaginario verde irlandese) e che non smette di ringraziare in ogni circostanza.
Lisa entra in scena con una semplicità così profonda che la contraddistinguerà per il resto della serata. È sintomatico che le prime canzoni le canti da sola, accompagnata solo dalla sua chitarra o varianti di, quasi voglia definirsi più piccola di Hansard che invece si avvarrà di un numero smisurato di strumentisti, tanto che il piccolo palco del Viper avrà qualche problema ad accoglierli tutti. Vestita di un abito nero con piccoli pois bianchi e calze scure, appare nell’ombra del locale come una pallida madonna con una cascata di capelli lisci sulla testa. Canta con quella sua voce dal timbro tutto particolare che una persona normale potrebbe avere solo dopo avere corso per un’ora ed essersi lasciato asciugare il sudore addosso in una fredda notte d’inverno; con la sola differenza che la suddetta persona stonerebbe a ogni parola, a suon di starnuti e colpi di tosse, mentre lei riesce a esibirsi in maniere impeccabile, anzi, catturando lo spettatore con solo la sua voce e ricoprendo di magia tutte le strofe, tutti i ritornelli, e tutti i “grazie” con i quali si rivolge al pubblico tra una canzone e l’altra, e pure tutte le persone che si trovano di fronte a lei. È fantastica: immobile davanti al microfono, con gli occhi chiusi e la testa leggermente reclinata all’indietro per modulare al meglio la voce. Così come è fantastica quando accoglie sul palco alcuni componenti del gruppo di Hansard e si esibisce in canzoni più articolate, dai ritmi più allegri e giocosi, tanto che tra la gente accorsa c’è chi inizia a ballare timidamente, accompagnando ogni performance con applausi e ringraziamenti. È bello ed è bella, perché si capisce non solo ascoltando la sua musica ma anche guardandola esibirsi insieme ad altri musicisti, quanto sia felice nel suonare, nel cantare. Sorride di un sorriso che le invade gli occhi e le rotondeggia le guance verso l’altro, in un’espressione beata che lascia capire quanta allegria e piacere lei stessa respiri nel suonare e nel cantare.
Quando lascia il palco è passata solo mezz’ora. Non concede bis e si ritira dietro le quinte lasciando una vaga sensazione di insoddisfazione nelle ancora poche persone che si trovano nel locale. Sono le 21.30 e molto probabilmente chi è intenzionato a vedere Glenn Hansard è ancora a casa e comincia solo ora a prendere vagamente in considerazione l’idea di iniziare a prepararsi per venire al Viper. Non sanno cosa si sono persi, e la speranza è che una frase regalata da Lisa al pubblico risulti vera quanto la convinzione con cui è stata detta: sono felice di essere a Firenze e spero di tornarci preso. Lo speriamo tutti, Lisa. Davvero. Lo spettacolo è stato troppo breve per riuscirne a goderne appieno. È stato una specie di sogno che finisce non appena inizi ad abituarti all’ambientazione; uno di quei sogni dai quali non ti vorresti mai svegliare e che invece devi abbandonare troppo presto.
Quando ti svegli, almeno virtualmente, al Viper alle 21.30 di un venerdì di fine febbraio, è come se però ti fossi svegliato alle 4.30 del mattino di un qualsiasi giorno lavorativo. Non puoi alzarti del tutto, è ancora troppo presto, devi solo prendere quel breve momento di veglia per quel che è, ovvero un intervallo, e cercare di rimetterti a dormire il prima possibile, sperando magari di riacciuffare per i capelli quel sogno che tanto bene sognavi. Non è facile, ma neppure impossibile. Il più delle volte finisce però che cadi in un altro sogno, diverso, ugualmente bello e ugualmente emozionante.
Il nuovo sogno, al Viper, si chiama Glenn Hansard, irlandese dai capelli rossi con tanta vogli di fare musica e di divertire, che sale sul palco anche lui con una puntualità inedita da queste parti, alle 22 spaccate, e suonerà fino all’una di notte con solo un breve intervallo di neppure dieci minuti. In tutto questo tempo il nostro avrà modo di dimostrare tutto il suo valore come musicista, cantante, e intrattenitore. Le trascinanti canzoni con cui si scatenerà alla chitarra e alla voce faranno temere il peggio per la sua integrità fisica, quando spingendosi sempre più verso il limite della propria ugola raggiungerà un colorito rosso pompeiano acceso, tanto da ingrigire a confronto pure il colore del cuoio capelluto; così come risulterà esilarante negli intermezzi esplicativi, raccontando aneddoti vari in un inglese comprensibilissimo e accompagnato da una mimica eccezionale (fantastico e divertente il resoconto di una gita in barca con un suo amico durante la quale si dimenticheranno entrambi di cosa stiano a significare i fari luminosi in mare).
Nell’impeto dell’esibizione Hansard si infortunerà pure a un dito, anche relativamente a inizio show, tagliandosi con la corda della propria chitarra, ma laddove con altri artisti questo evento avrebbe potuto essere visto come un punto critico, una situazione che in qualche modo poteva suggerire all’infortunato di turno di tagliare corto e farsi medicare, con l’irlandese in oggetto funziona esattamente al contrario, spingendolo a picchiare ancora di più e più forte sulle chitarre consumate fisicamente, e l’evento, invece di risultare come il punto di chiusura dello spettacolo, offre al nostro l’opportunità di esibirsi in una cover caricaturale (e buffa) di Enter Sandman dei Metallica, prima ovviamente di ringraziare il pubblico, ciucciarsi un poco il dito, e riprendere a suonare come se niente fosse.
Ciò di cui ti accorgi a un certo punto, un punto imprecisato del concerto e che varia da persona a persona, è che la natura di Hansard è la stessa condivisa dal primo Bruce Springsteen, e anche se per alcuni tale affermazione può risultare come una specie di bestemmia, è altresì innegabile come ad oggi ci siano pochi cantanti capaci di far trasparire nei propri spettacoli il grande potere di aggregazione della musica. Sul palco del Viper guardi questo ragazzo dai capelli rossi, vestito tranquillo in jeans e camicia, contornato da un gruppo piuttosto affollato di amici, aiutato solo dagli strumenti musicali, senza l’ausilio di nessun effetto speciale, e quando si lancia in trascinanti progressioni di ritmo, da tranquillo a forsennato, da forsennato a indiavolato, ti rendi conto di come tutti quanti, musicisti e pubblico, siano attratti quasi gravitazionalmente verso il centro della musica, dentro il quale perdersi e ubriacarsi, e hai la sensazione di fare parte di un qualcosa di grande, di sensazionale, anche solo ascoltandolo.
Questo è Glenn Hansard, e questa è la sua personale versione di condividere la propria musica: non solo suonarla ma darla al pubblico come se questa fosse un mare, magari privo di fari a indicare scogli pericolosi, e immergendo in questo mare chiunque voglia ascoltarlo. La sua musica ti accerchia, ti sovrasta, ti abbraccia. Una sensazione che difficilmente riuscirai a staccarti di dosso, anche a causa del desiderio inesauribile di Hansard stesso di darsi, di offrirsi, che lo spingerà a non smettere mai, a iniziare sempre una nuova canzone, alternando pezzi carichi a pezzi lenti, elettricità a note acustiche, richiamando sul palco Lisa Hannigan per alcuni duetti, il tecnico del suono per suonare la chitarra in un pezzo, e che porterà l’intera truppa irlandese a esibirsi privi di alcun tipo di amplificazione in una personale rivisitazione di Passing Through di Leonard Cohen, prima sul palco e poi in mezzo al pubblico, immergendosi nelle persone mentre le persone si immergono nella musica che si immerge a sua volta nei musicisti, e poi nelle persone: come un’onda che si attorciglia tutta attorno a se stessa e si confonde nel mare facendo perdere le tracce dell’inizio dell’onda e della sua fine, l’inizio del mare e la fine del mare.
Sono le una di notte quando ti svegli, definitivamente, fuori dal Viper. I sogni sono finiti e difficilmente riuscirai a riaddormentarti presto.
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