Da San Francisco a Los Angeles per scoprire quanto manca
David Foster Wallace. Leggere le sue opere può ispirare tanto quanto
leggere su di lui, come se alcune molecole del suo genio continuassero a
fluttuare nell’aria che respiro.
Il tempo meteorologico a San Francisco è incerto, meno clemente
di quanto avevo sperato: scrosci di pioggia si alternano a schiarite
della stessa brevità — soltanto il vento umido è incessante. Mi trovo
costretto a indossare uno sull’altro i vestiti primaverili che avevo
previsto per la vacanza, realizzando che un giaccone invernale non è
equiparabile alla somma di un qualsivoglia numero di strati estivi. Per
di più, la città è spopolata durante il coprifuoco postnatalizio.
Percorro a piedi i saliscendi da Marina a North Beach con una sensazione
di libertà che si alterna a un’altra di smarrimento: la mancanza di
scopo di chi è rimasto chiuso fuori casa.
La City Lights è tra i pochi negozi aperti, il che conferma in
larga parte l’impressione che si tratti ormai di un feticcio per turisti
più che di una vera libreria. Ma poco importa: è straordinariamente
bella, rifornita e silenziosa (come se i decametri di scaffali in legno
assorbissero ogni suono), e la disposizione dei libri suggerisce la
chiarezza mentale di chi l’ha concepita, senza rivelarne a fondo il
piano.
David Foster Wallace mi scruta dall’alto, dalla copertina di un
volume posizionato in modo che la sua facciona tenga d’occhio gli
avventori. La fotografia traslucida è una delle poche in cui sorride e
il libro si rivela essere una sua biografia postuma, redatta da tale D.
T. Max. «Prendila, t’interessa» suggerisce la mia compagna, che deve
avermi visto trasalire. «No — ribatto io —, no, no». Il punto è che mi
ero prefissato esplicitamente, dopo il suicidio di DFW nel settembre del
2008, che non avrei ceduto alla tentazione di leggere alcuna sua
biografia, così come non avrei considerato le pubblicazioni di lavori
che lui non aveva autorizzato — avevo assistito a uno sciacallaggio
simile nei confronti di Jeff Buckley finché, a forza di acquistare
dischi con versioni pessime delle sue poche canzoni, mi ero quasi
disamorato di lui.
Nel momento in cui mi trovo alla City Lights di San Francisco —
26 dicembre 2012 — sono già venuto meno al secondo dei miei propositi
(ho letto e riletto quanto emerso dagli svariati e impietosi carotaggi
dell’opera di DFW), ma il diktat sulla biografia è ancora solido. Si
tratta di una questione di principio, deontologica quasi, oltre che
della paura di vedermi sgretolare un idolo davanti agli occhi: il punto è
che ogni narratore devolve una parte gigantesca delle proprie energie e
del proprio tempo a trovare per ogni opera che produce — per ogni
singola riga di ogni singola opera che produce — il giusto livello di
trasposizione della sua storia personale: essere troppo avari di sé si
traduce quasi sempre in freddezza, in sostanziale disinteresse verso la
materia; eccedere comporta altri rischi più gravi, fra cui ossessività,
autocommiserazione (quasi sempre di matrice freudiano-regressiva) e
dissapori, se non proprio pasticci legali, con parenti o amici intimi.
Negli ultimi anni della sua vita, poi, DFW sembrava impegnato a
esplorare proprio il pernicioso confine fra privato e finzione
letteraria. Nel romanzo a cui stava lavorando e che non avrebbe
terminato, Il re pallido, compare fra gli altri un personaggio di nome
David Wallace, con tanto di Social Security Number, l’omologo del nostro
codice fiscale. È plausibile che nell’epoca d’oro delmémoire DFW
volesse smontare il giocattolo dell’ultimo modello d’intrattenimento e
guardarci dentro, scoprire quali insicurezze si celavano dietro tanta
morbosità da parte del pubblico e una così favorevole disposizione a
denudarsi da parte degli autori. Ovviamente, il mémoire che aveva a sua
volta imbastito non era che la parodia di un racconto autobiografico, un
resoconto che, nella pretesa esasperata di dichiararsi vero, non faceva
altro che mostrare in continuazione la propria falsità strutturale. Che
rispetto dimostrerei a DFW e alla sua ricerca, acquistando una
biografia postuma che fa piazza pulita di tutti i filtri metanarrativi e
se ne infischia del giusto- livello-di-trasposizione? Esco dalla City
Lights con una copia della biografia di D. T. Max stretta fra il gomito e
il fianco (titolo: Every Love Story Is a Ghost Story). Ho comprato
anche una vecchia raccolta di Alice Munro, Runaway, per attenuare il
senso di colpa.
A Carmel-by-the-Sea inizio la lettura. Non c’è molto altro da
fare in questa cittadina benestante. La descrizione dell’albergo aveva
promesso una piscina riscaldata, che si è rivelata uno stagno dal colore
sospetto, e comunque piove. Dalla finestra, oltre la coltre di alberi,
balugina un oceano appena più chiaro del cielo. Forse non è soltanto
morbosità. Forse è più semplice e anche più limpido di così. La verità è
che DFW mi manca. E mi manca con un’intensità maggiore di quella con
cui mi mancano, per dire, certe persone in-carne-e-ossa scomparse in
modi altrettanto improvvisi/cruenti dalla mia vita, tanto che mi trovo
spesso a fantasticare su forme strane di metempsicosi, nelle quali
alcune molecole aeree del suo genio e della sua umanità fluttuano
attraverso l’atmosfera fino a me, che le inalo, e diventano mie — e lui
diventa me. Tutto ciò suona un po’ vergognoso, ad ammetterlo. Ma la
disponibilità a innamorarsi dell’irreale tanto quanto del reale mi è
sempre apparsa come una premessa essenziale della narrativa. Può darsi
si tratti, più precisamente, di un disturbo, una sorta di ametropia del
sentimento, per la quale non si riesce a focalizzare esattamente gli
oggetti nel campo dell’affetto, a collocarli in profondità secondo
quello che si presume l’ordine giusto.
DFW mi manca, sì, mi manca il suo essere-nel-mondo, quindi
escogito dei modi per averlo vicino, e l’ultimo che mi si è offerto è
questa biografia. Come per i Grandi Amori Romantici, esiste un’età
favorevole anche per i Grandi Amori Letterari, e DFW è capitato al
centro della mia più fertile: avevo diciotto anni. Le passioni che si
instaurano in quella fase tardoadolescenziale, quando il magma della
personalità inizia a solidificare, diventano i miti fondanti del nostro
carattere culturale, ci restano addosso, ostinate e prive di senso, come
quelle cisti sebacee che capita facciano la loro comparsa in punti
imprevisti del corpo. Di passioni-cisti io ne avevo una miriade oltre a
DFW e al già citato Jeff Buckley: certe serie televisive più
strappalacrime del sopportabile come The OC, Tori Amos, Chuck Palahniuk,
i frozen cocktail, Kirsten Dunst, il Natale in famiglia, Bret Easton
Ellis… Spinto da una voglia iconoclasta di rinnovamento, verso i
ventisei anni le sottoposi tutte quante a un check-up severo, casomai
nel frattempo qualcuna fosse diventata maligna o invalidante. DFW ha
superato il test, Chuck Palahniuk no, ma adesso mi chiedo se dopotutto
fosse così necessario e salubre tentare di sbarazzarsi di tutte quelle
passioni, magari un po’ ossidate, magari ormai poco rappresentative, che
quando ero ancora semiliquido mi fecero palpitare. È davvero questa la
via della nostra realizzazione di adulti, toglierci dal naso tutte le
lenti deformanti che da ragazzi ci facevano ingigantire o mortificare
gli oggetti (sentimentali) che si offrivano alla nostra considerazione? O
questa smania di aggiornare anche i nostri affetti è solo l’ennesima
lente deformante che poniamo in cima alle altre?
Ecco il genere di domanda sulla quale DFW avrebbe facilmente
costruito un racconto ricorsivo di venti o più pagine: la storia di un
ragazzo che, nel tentativo di guardare con onestà a ciò che ne è ormai
dei suoi amori del passato, fa del suo meglio per massacrarli, con il
risultato di aumentarne sempre di più il valore mitico e quindi
l’indistruttibilità. Ogni volta che nelle storie di DFW compare qualcosa
di analogo a una minuscola cisti sebacea, puoi stare certo che quella
cisti si accrescerà — proprio nel tentativo di estirparla— fino a
sfigurare l’intero organismo. Tutte le serie ricorsive costruite da DFW
sono altamente divergenti, la direzione è sempre quella dell’aggravarsi
perpetuo cosicché, una volta avviate, possono essere interrotte
solamente da un atto esterno, violento, qualcosa di simile a ciò che ci
succede quando il nostro computer «va in palla» e inizia a presentare
con insistenza lo stesso messaggio poco comprensibile di errore,
accompagnato da quel suono che ha qualcosa di apertamente accusatorio, e
noi ci rendiamo conto che non siamo in grado di fermare quanto sta
succedendo, che siamo del tutto inermi e fra un attimo lo schermo
potrebbe ricoprirsi di lettere e numeri o diventare inesorabilmente blu,
quindi premiamo con forza il pulsante Power e se neppure quello
funziona stacchiamo la spina dalla presa di corrente, percorsi — noi,
non più il computer — da una scarica elettrica di terrore. La sola via
d’uscita dalle ricorsività di DFW è lo spegnimento, che in certi casi
estremi, come quello del manipolatore seriale protagonista del racconto
Caro vecchio neon o in quello assai più realista della sua vita,
coincide con la morte — con il suicidio.
A diciotto anni, il modo di procedere di DFW mi colpì come un
esercizio di onestà dissacrante e perfetto, il genere di
demistificazione che andavo cercando in quegli anni di solidificazione-
del-magma-della-personalità. Il senso tragico che stava alla base dei
suoi ragionamenti si accostava bene con quello residuale della mia
adolescenza; lo sfoggio di intelligenza, poi, era proprio il traguardo
che mi ponevo a quel punto. Tutto questo stabilì la nostra affinità
segreta — quasi ultraterrena —, indusse la crescita della mia
passione-cisti più che per qualunque altro scrittore mi fosse capitato
di leggere fino a quelmomento. E, anni dopo, rese il suo suicidio
doloroso quanto un tradimento personale.
Nel suo pseudo-mémoire, oltre al codice fiscale, DFW aveva
riportato per intero anche il suo indirizzo. Durante un’incursione
dentro una Books Inc. ho ritrovato la pagina dove è scritto e l’ho
ricopiato sul retro di un ticket di parcheggio: 725 Indian Hill Bldv.,
Claremont. Obbligo i miei compagni di viaggio a seguirmi in quel
pellegrinaggio un po’ macabro attraverso la periferia senza fine di Los
Angeles. Non protestano neppure, devono ormai avere capito quanto la
questione sia importante e controversa, ad altissimo rischio di scontro
verbale.
Arriviamo a Claremont al crepuscolo. L’aria si è rinfrescata di
colpo. Le aiuole nello spartitraffico di Indian Hill Boulevard sono
tutte fiorite, incredibilmente curate. La casa al numero 725 non ha
nulla in più o in meno delle altre, soltanto il portone del garage — il
garage dove DFW si è ucciso — mi colpisce per la sua larghezza, ma può
darsi che si tratti di una suggestione. Nel cortile c’è un albero di
Natale composto di sole palline, un cono da cui fuoriesce un cavo della
corrente — l’albero è spento. Sul lato opposto due limoni e unmandarino
sono carichi di frutti. Il prato è stato sistemato da poco, come tutti
quelli del circondario, intravedo ancora i segni paralleli del tosaerba.
Avanzo di qualche passo, violando la proprietà privata e l’intimità
degli sconosciuti che ora vivono qui. I miei compagni di viaggio si sono
allontanati, come per rispetto. Vorrei compiere qualche gesto
simbolico, magari rubare un sasso dall’acciottolato che corre lungo il
marciapiede, ma sono ancora abbastanza in me per desistere. Tocco solo
uno dei limoni e poi m’incammino verso la macchina. Prima di salire
faccio la pipì contro un acero, di fretta: è il genere di quartiere dove
temi possano arrestarti per avere urinato contro un tronco.
Il giorno seguente, dentro il parco di Joshua Tree, mi perdo di
nuovo nelle fantasticherie di metempsicosi. L’atmosfera del luogo
contribuisce in larga parte: un deserto roccioso dove la notte — puoi
scommetterci — gli arbusti così distanziati parlano l’uno con l’altro,
al riparo da sguardi umani. La natura qui sembra in uno stato di
quiescenza, pronta a ritornare quella prospera che era un tempo. Inizio a
pensare ai joshua tree e ai cactus e alle palme giganti come a
incarnazioni di morti, la cui forma specifica dipende dalle qualità
possedute in vita. L’albero che attribuisco a DFW è un’impalcatura di
tronchi e rami spogli, con la corteccia elegantemente attorcigliata su
se stessa, un albero che non ho mai visto dalle nostre parti, complicato
eppure razionale contro il cielo azzurro. Mi faccio scattare una foto
lì accanto, poi cerco di rubargli l’energia, abbracciandolo: conosco
persone che con gli alberi fanno così.
Ciò che devo ammettere lungo la strada di ritorno verso Palm
Springs, e con un po’ di delusione per me stesso, è che leggere DFW mi
ispira almeno quanto leggere di DFW. Seguire le sue vicissitudini mi
suscita la stessa irreprensibile voglia di sedermi alla scrivania e di
scrivere a profusione, come avvenne dopo La scopa del sistema quando,
senza premeditazione alcuna, mi avventurai nei miei primi goffi
racconti. E non è soltanto questo: DFW — i suoi libri e, scopro ora,
anche i libri che parlano di lui — mi spingono a scrivere come lui, con
una forza di attrazione plagiatoria che nessun altro autore ha mai più
esercitato su di me. Dev’essere per via di quella sua spacconeria
irritante e così fascinosa, della sua smania di essere a tutti i costi
più lungo, digressivo e interconnesso di quanto sia davvero necessario,
della sua esigenza di attraversare sempre tutti i livelli di profondità
di un fenomeno fino a sbattere il sedere contro il cemento armato
dell’unica verità fondamentale sottesa a tutti: la consapevolezza, in
questo mondo, di essere soli e irraggiungibili.
Sul volo San Francisco-Zurigo dove con ogni probabilità
contraggo l’influenza virale con complicazioni urinarie che mi terrà a
letto nei successivi quattro giorni, termino di leggere Every Love Story
Is a Ghost Story. Nelle ultime pagine si avverte l’imbarazzo di D. T.
Max nel fare i conti con il suicidio di DFW. Il biografo sceglie la via
più sobria: poche frasi di storia medica, molto nette, che accreditano
in pieno la tesi della cessazione volontaria del Nardil da parte di
David dopo anni di trattamento, e del suo conseguente tracollo. Il
finale lo conoscevo già, eppure ha il potere di annientarmi. Complice il
jet-lag, la prima notte a casa non mi addormento fino alle cinque del
mattino. Ho una sola consolazione in mezzo al fluire dei pensieri:
sembra che la casa di DFW che ho visitato non fosse davvero quella dove
si è tolto la vita. Dopo essere vissuti in affitto al 725 di Indian Hill
Blvd., lui e la moglie ne acquistarono un’altra non troppo distante. Il
portone del garage che ho visto era solo un normale portone di garage,
dal quale DFW è entrato e uscito insieme ai suoi cani. Saperlo è
abbastanza per farmi sentire meglio.
Paolo Giordano
Trovato qui: Archivio David Foster Wallace Italia
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