Quando si segue la propria strada musicale da abbastanza
anni e con abbastanza successo, si arriva inevitabilmente a un punto nel quale
ci si domanda se per caso quello che ci si appresta a fare non sia in qualche
modo ripetitivo, se non lo si sia già fatto in precedenza. Per ovviare a questa
domanda, o magari per cercare di rispondere, la tendenza è quella di allargare
la propria formazione a un numero sempre maggiore di strumentisti, andando così
ad arricchire arrangiamenti di canzoni conosciute a memoria di altri suoni e
vibrazioni: archi, spesso violini, etc. Si guardi all’esempio nostrano degli
Afterhours: nel loro ultimo concerto a cui ho assistito il palco faceva fatica
a contenere il numero di musicisti chiamati a suonare.
I Marlene Kuntz, che hanno pubblicato il loro primo album
nel 1994 ma sono in giro dal 1990, non possono chiamarsi fuori ed evitare di
dovere rispondere alla domanda di cui sopra. Per farlo però non utilizzano la
solita formula di aggiunta, ma vanno controcorrente, come spesso succede nelle
loro scelte anche musicali e di genere, e decidono di lavorare in sottrazione. Sul
palco infatti per questo concerto del loro nuovo tour “3 di 3” (con cui tra l’altro
giocano con il titolo di una loro canzone [nota per i non fan]) salgono solo
loro, ovvero i veri Marlene: Luca Bergia alla batteria, Riccardo Tesio alla
chitarra, e Cristiano Godano a chitarra e voce.
Allo stesso modo, le location individuate per questa serie
di concerti non sono enormi, grandi spazi infiniti nei quali radunare un numero
grandissimo di spettatori, ma sono abbastanza ristretti, raccolti, quel tanto
da suggerire un rapporto con il pubblico più diretto e, in un certo senso,
sincero. L’Officina Giovani, in quel di Prato, non fa eccezione, tant’è che
Godano & Co. per tutta la durata del concerto potranno guardare negli occhi
chi è venuto a vederli, distanziati da loro solo di un metro scarso, quello tra
il palco poco rialzato e le transenne del pubblico.
Proprio per la dimensione esigua del locale, decido di
presentarmi alla biglietteria con un buon anticipo. Lo spettacolo è previsto
per le 22.30 e calcolando che i tre di Cuneo non inizieranno mai a quell’ora,
vado a ritirare il biglietto, io puntuale, alle 22.30, conscio che dovrò
aspettare: non è un problema. Quando arrivo l’Officina non è ancora piena e mi
lascia l’opportunità di scegliermi il posto con cura, andando a calcolare l’impatto
sonoro e la visuale migliore. Dopo avere girovagato per un po’ trovo il mio
habitat ideale a poco meno di due metri dal palco, tra due piloni che vanno a
sorreggere il soffitto e che altrimenti avrebbero rovinato il campo visivo. La posizione
è quasi perfetta, rasenta quanto di più vicino ci possa essere a un faccia a
faccia frontale, e lo è fino a quando un muro di capelli leggermente
rettangolare non mi si piazza davanti dopo essersi ricongiunto con un amico che
a quanto pare gli teneva il posto. Il sosia in versione ingrandita di Slash dei
Guns ‘n’ Roses è un tipo alto a cui non si può immaginare una faccia, talmente
la nuca è coperta di ricci neri: quella chioma lo definisce già più di quanto
non potrebbe fare qualsiasi altro lineamento facciale, anche il più
fantascientifico. Se anche avesse una cicatrice a tagliarli in due un occhio,
lui rimarrebbe comunque il tizio con un rettangolo di capelli ricci che mi
oscura gran parte del palco.
Di spostarsi non se ne può parlare, perché ormai il concerto
dovrebbe iniziare da un momento all’altro, e in più sono bonariamente
circondato da altre persone che hanno la decenza di spirito di lasciare tra sé
e gli altri quel minimo spazio di libertà di movimento che permette a qualsiasi
individuo di compiere dei gesti ordinari quali, per esempio: grattarsi un
attimo la testa, o applaudire una canzone.
Ma al peggio non c’è mai fine, tant’è che quando la musica
registrata si zittisce di colpo, presagendo l’ingresso sul palco dei nostri,
due giovanotti tutti galvanizzati mi si piazzano davanti in quel ristretto vuoto
che c’è tra il tizio dai riccioli neri e
le mie mutande, dicendosi l’uno all’altro tutti eccitati: qui c’è posto!
Avvilisco, un po’ per il disagio arrecatomi e un po’ perché da
un certo punto di vista odio vedermi così intollerante quando sono a un
concerto: è un sintomo dell’età che avanza. Per fortuna non c’è tempo di cadere
in un baratro di tristezza senile che subito i tre di tre salgono uno alla
volta sul palco.
Il concerto inizia con una lettura di Fingendo la poesia. Lettura nel vero senso del termine, tant’è che
Godano, in giacca nera e camicia bianca, tiene davanti agli occhi un foglio in
cui è trascritto il testo della sua stessa canzone, quasi che senza la musica per
lui quelle parole fossero nuove. Le letture con solo una soffice base sonora,
che a intervalli più o meno regolari andranno a dare fiato al concerto, paiono
volere porre maggiormente l’attenzione, qualora ce ne fosse bisogno (magari per
i fan più duri e puri del rumore rumoreggiante degli esordi di gioventù quasi
sonica), sulle parole e sulla scelta importante di ogni singola di esse. Scarnificandone
via il suono, le note, e pure la
melodia, oltre ovviamente al ritmo, si scopre tutta la profondità di senso e la
ricercatezza delle canzoni, e dai testi stessi ne emerge l’intenso e curato
lavoro che sta dietro a essi.
Il gruppo è compatto e ovviamente rodato. Dopo un breve
riscaldamento con pezzi acustici, nei quali si può apprezzare la pulizia
elegante di Riccardo negli assoli, i Marlene sono pronti a sfrecciare su
carreggiate più elettriche. Il via è dato dall’inaspettata cover di Breed dei Nirvana. Appena il pubblico la
riconosce trasforma quella che fino a poco prima avevo scambiato per muta indifferenza
in esaltante fragore. Parte il pogo, e nonostante qualcuno riesca rifilarmi un
pestone sull’alluce destro già in non perfette condizioni, approfitto del
marasma generale per mettermi alle spalle il tizio dai folti capelli neri. Senza
l’ingombrante figura di questa copia annerita di Casaleggio montato a neve, il
concerto decolla alla grande acquistando una nuova fantastica dimensione:
quella visiva.
Per esempio: quando canta e suona Sapore di miele, con la camicia bianca ampiamente sbottonata sul
petto e tutta trasparente e appiccicata sulla pelle per il sudore, è
innegabile, nei suoi movimento scattosi e feroci, che Cristiano Godano si uno
degli animali più sensuali del panorama
musicale ad abbracciare una chitarra. Al tempo stesso, riacquisire il contatto
visivo mi permette di immergermi ancora di più nell’atmosfera del concerto,
cantando a squarciagola le canzoni e saltando come un indemoniato, ballando: al
diavolo il pensiero di essere vecchio, e ‘fanculo a tutti i giovanetti con cui
avevo condiviso la platea all’ultimo concerto degli Zen Circus, quegli sbarbati
che mi avevano fatto sentire così fuori luogo. Questo è il rock italiano,
quello vero, e suona nelle note essenziali di Overflash o sull’armonia più rilassata di Nuotando nell’aria.
Il rock italiano ha un nome e un cognome ben definiti. Il rock
italiano è i Marlene Kuntz più di quanto i Marlene Kuntz non facciano parte del
rock italiano. Da un certo punto di vista il gruppo di Cuneo lo detta il rock
italiano, lo forma, plasmandolo per assurdo a sua immagine e somiglianza nelle
più svariate declinazioni i tre decidano di cantarlo: con rumore e furia, o con
più armonia e ragionamento. Siano essi in forma allargata o nel nucleo
compatto, tre di tre la mischia gaia di vipere. E allora, lasciatevi mordere da
queste vipere. È sempre un piacere di veleno.
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