martedì 16 giugno 2009

Un anno fa non avremmo guardato una farfalla spagnola

Un anno fa era un posto diverso. Un luogo. Un anno fa c'erano altre persone, c'erano molte più persone, sia sotto che sopra il palco. Un anno fa era Uno, mentre oggi erano tre. E potrei andare avanti ancora un anno a dire cosa c'era di diverso un anno fa, perdere ancora tempo per trascorrere ancora un anno e poter dire: due anni fa... e così via, perché del passato in fondo si ha sempre una nostalgia migliore; inutile dire che ingiallisce come le vecchie foto non digitali, quelle dai bordi bruciacchiati, i ricordi sono quelli e per questo non dovrebbero esser mai tirati fuori solo per giocarci o per scambiarli. Molte cose sono cambiate da un anno fa, molte cose sono rimaste le stesse, e molte altre sono cambiate senza assolutamente cambiare per niente. Sono successe tante cose in questi dodici mesi, appese a fili esili ma resistenti ad asciugare più al vento che non al sole. Come il vestito cinese rosso, a cui passo dietro come un fantasma e che pochi minuti dopo vedo passeggiare scalzo per il prato, allontanandosi il più possibile e sedendosi assorto in solitudine. Pare chiamarmi, dirmi di andare da lui: quattro chiacchiere per tirarsi su il morale, ma il suo o il mio?
"Sono fantasie - dice - e tu sai bene che io non esisto. Esisto, si - dice - ma non nel modo in cui mi vedi tu."
"Io non ti conosco."
"Questo ancora non puoi dirlo. Dovrà passare del tempo affinché tu non mi riconosca davvero."
"Nel frattempo posso ancora pensare quello che voglio?"
"Puoi fare tutto - dice - compreso credere sul serio che io ti stia aspettando, seduto su questa panchina solo perché ho voglia di parlarti."
Così guardo lontano, dando di tanto in tanto le spalle allo spettacolo appena iniziato e guardando ai bordi dell'orizzonte. Il vestito cinese rosso è scalzo, seduto su una panchina da solo. Di tanto in tanto si alza ed inizia a camminare lento, un passo dopo l'altro: tallone, pianta, punta. Guarda verso il terreno, come a cercare qualcosa. Guarda verso il terreno e aspetta che io vada da lui.

"Ciao."
"Ciao."
"Non credevo saresti più venuto."
E una discussione che sarebbe bello portare avanti all'infinito, lunga tutta la notte. Aspettare l'alba nascosti nel buio, sputandoci addosso parole e frasi fatte di rabbia stondata agli angoli.

Intanto salgono sul palco i Baby Blue, ed io cammino bene, davvero, non sento alcun dolore, mentre mi metto a sedere poco dietro il banchetto delle vendite. La cantante si vede appena, tra gli alberi e tra un albero e l'altro. Indossa un vestito verde/celeste senza laccini e gioca a tirarselo su di tanto in tanto. Il suo compagno sulla destra, con i capelli arruffati in riccioli di cespugli, orchestra la chitarra con cura, più cattivo a vederlo che non a sentirlo. Niente a che vedere con la musica per bambini, traditori di quella breve e falsa promessa. Un allestimento di un palco sul palco, con parrucche bianche a rincorrersi per mangiarsi a vicenda, in un riquadro vuoto come quello della televisione. Strani, ma strani forte. E i bambini presenti, o cresceranno bene bene, oppure marciranno male male.
A dare la buona notte, con note più accordate a lenire il mal di testa, preso alla base del naso, terribile orrore di una serata aperta bene, ci pensano i Mariposa, in tenuta da notte (pigiama lungo bianco con una mucca disegnata in petto). Aprono facendo streatching, tirandosi le gambe appoggiate sulle tastiere, con quel poco di ubriaco che potrebbe sembrare non prendersi troppo sul serio: Piera! E le danze si aprono, anche se la gente preferisce acquattarsi a bordo palco, prendere una sedia e trascinarla il più vicino possibile, per poi lasciarla lì e mettersi a sedere per terra, a gambe incrociate. Ma le danze si aprono perché il ritmo prende, afferra le gambe per chi è in piedi, e la testa per chi è seduto. Fa scatenare i muscoli con brevi intervalli elettrici, a ritmo della batteria, seguendo i testi e sperimentando i suoni. Lo dimostra la fila al baracchino: gente sincera, pronta ad aprire il portafoglio e scambiare la merce con uno dei cd.
Un anno fa era diverso. Lo so. Un anno fa c'era più rabbia e parole impresse a forza dentro la testa. Ma anche quest'anno, dicendosi adulti e non bambini, non è stato affatto male; e fa guardare al prossimo anno con speranza, quando potrò dire: un anno fa e due anni fa.
Incrocio le dita. E il vestito cinese rosso passa vicino, facendosi riconoscere per quello che non è.

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