I pulman dei tifosi spagnoli incolonnati ci lasciano passare senza fretta. La mattina attorno a Firenze è tesa nelle ore che si allungano verso sera, turchese di quel turchese di cui il cielo si addobba con il sole ancora timido all'orizzonte. Poi nella sera, lontano da qui, le luci si accenderanno luminose, quando il sole proprio non ci sarà più, il buio nel resto e la luce dentro un buco, più grande di quanto non possa sembrare visto dall'alto. Voci distanti, voci contrastanti; urla e grida, cori fuori sincrono formeranno un nuovo timbro vocale, mille e seicento e passa corde vocali vibrano utilizzando la cassa di risonanza scheletrica, tubi di acciaio annidiati in forme giometriche, ellissi a rispecchiare l'orbita dei pianeti. Ma ora, qui, adesso, in questo preciso momento, la proiezione di ciò che avverrà stasera, o anche tra qualche ora, è solo l'ombra di un fantasma che scivola liquido appena sopra i miei occhi; o galleggia sui miei bulbi acquosi, mostrando opachi aloni dalle figure appena accennate.
Arrivo al casello, e l'immissione nel turbine confuso di due flussi diversi opposti che confluiscono l'uno sull'altro, è pericoloso come ogni volta: rischio di annegare, di picchiare, di scontrarmi contro onde di potenza maggiore, le lamiere colorate che si divertono a strombazzare con suoni riconoscibili da parte a parte. Mi metto in coda: sano, salvo. Di nuovo. I finestrini sono ancora chiusi, sigillando sottovuoto la macchina, atmosfera a gravità uno. L'aria condizionata, sputata fuori dai condotti appena sotto il parabrezza, diffonde nell'abitacolo un senso di falsa freschezza, irreale quanto il caldo fuori, in agguato appena premo sul pulsante per accedere all'esterno: zzzzzzzzzzppppppppppppp.
"Il solito, grazie." Quanti casellanti, a ruota, formeranno i turni di una postazione?
"A posto."
"La ricevuta, grazie."
"Si, la ricevuta: eccola."
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