Mi sveglio con il sole non troppo invadente che passa dalla finestra. Non sento caldo, ma una fascia di luce mi attraversa la guancia andando a tuffarsi proprio nel mio occhio. Io lo apro appena, giusto uno spiffero per sbirciare fuori. Non sono a casa mia, non so dove mi trovi, ma non sono a casa. Il letto sul quale ho dormito non è il mio, è straniero, un po' come mi sento io in questo momento.
Mi alzo con fatica, stanco, ancora stanco. Ogni giuntura - gomiti, ginocchia, collo, oh dio non parliamo del collo - si muove arrugginita, scricchiolando ad ogni piccolo cambio di inclinazione. Mettersi a sedere sul materasso, sul materasso non mio e di chissà chi, è un'impresa titanica: trattenere il fiato per cinquanta minuti forse sarebbe più facile; camminare sui carboni ardenti, a piedi nudi: di più.
Mi guardo un po' in giro, ancora immerso per buona parte nel sonno, virtualmente con il cuscino ancora appiccicato alla faccia, e non riconosco niente. Le pareti bianche con foto appese in cornici di vetro mi sono del tutto nuove; così come la porta, di un marrone chiaro - che legno sarà? - o il comodino in stile antico. E' un mondo nuovo, tutto da scoprire.
I ricordi mi tornano a galla un po' come meduse, prima una poi l'altra. Nel mare chiaro sento qualcuno che suona alla mia porta. Vengo ad aprire e tu non mi dai neppure il tempo di salutarti. Ti fiondi in casa lasciandomi sulla soglia, guardo fuori per vedere se ti dovessi portare dietro una scia, come una cometa, o se stessi scappando da qualcuno, chi ti inseguiva. Ma te inizi a parlare non appena fatti due passi: sei eccitata, non riesci a trattenerti. Dobbiamo andare, dici, sbrigati, muoviti, dici. Chiudo la porta ancora un po' perplesso. Dove? Non fare domande stupide, rispondi con urgenza. Dobbiamo andare, non perdere tempo.
Mi alzo dal letto e muovo i primi indecisi passi della giornata. I piedi nudi sul pavimento freddo. Mi affaccio dalla finestra e vedo il mare. Sono in una collina e dalla finestra vedo una piccola strada che scende fino ad un punto che non riesco a vedere; poi il mare. Un'altra medusa affiora dal fondo scuro dell'acqua.
Dammi il tempo di preparare qualcosa, dico io. No, non abbiamo tempo, non c'è tempo, dici te. Vestiti, fai in fretta. Ma almeno delle mutande, dei calzini, qualcosa di ricambio. Compreremo tutto in corsa, dici mentre in camera afferri un po' di roba e la impacchetti dentro la mia borsa a tracolla. Io infilo saltellando una gamba dentro i jeans, rischio di cadere mentre infilo anche l'altra. Poi una maglia a maniche corte, verde, e sopra una a maniche lunghe, due tonalità diverse di grigio su strisce orrizzontali. Sono vestito, pronto, infilo le scarpe ai piedi e vengo da te. Ti afferro allora un polso con una mano, a fermarti, tranquillizzarti: ci sono. Prendo la tracolla militare, ci metto dentro quella specie di parallelepipedo informe che io arrossendo chiamo diario, e che tu invece chiami l'oggetto-strano-e-di-vita-propria-su-cui-scrivi; una manciata di penne, di vario colore, di cui spero almeno una funzioni; l'opera galleggiante, con il segnalibro nascosto tra le pagine, il lapis giallo e nero incastrato tra la copertina e la pagina, anche se so già si perderà nei meandri della borsa non appena mollo la presa; l'ipod bianco con gli auricolari neri attorcigliati attorno, fino a quando anche quelli mi abbandoneranno o da un lato inizierà ad uscire fuori un fastidioso fruscio; infine la polaroid, un quasi cubo nero, compatto, pronta a sputare le foto già incorniciate di bianco se solo avesse dentro delle pellicole da impressionare. Già, dici sorridendo quando la vedi scomparire o sbirciare fuori dalla borsa.
Siamo in Portogallo, mi dico mentre sono affacciato alla finestra e non guardo il mare ma guardo l'oceano e non ne vedo la fine, da quanto si perde e si distende fino e ben oltre l'orizzonte. Le meduse cominciano allora a nuotare un po' ovunque nei miei ricordi, tornano a galla e la mia memoria diventa piena zeppa di queste gelatine acide. Siamo partiti da casa mia, arruffando un po' di roba ognuno nella propria borsa. La tua macchina ci aspettava parcheggiata in strada: i finestrini aperti su una giornata di sole e caldo. Hai cercato di guidare con gli occhiali da sole, ma io te li toglievo e li appoggiavo sul cruscotto; poi te li riprendevi e li inforcavi sul naso; di nuovo io a toglierteli e sul cruscotto; te, di nuovo, con le lenti scure, una maschera, in faccia: un gioco di cinque o sei passaggi, fino a quando non ho preso gli occhiali e li ho lanciati nei sedili posteriori, a far compagnia alle nostre borse e a quei brevi chilometri che via via ci mettevamo alle spalle. Abbiamo riso, con la musica che suonava dallo stereo e l'aria a soffiare da fuori, arruffando i capelli. Sembri un'auto con le pinne, quando il vento ti pettina in questo modo i capelli laterali, sulle orecchie, dici guardando la strada poi me e di nuovo la strada. Guidi con la mano sinistra fuori dal finestrino, e l'aria fuori a cento all’ora quando passa tra le dita sembra quasi un’altra mano che si intreccia con la tua. Ci diamo il cambio più o meno dopo tre ore di viaggio, quando ci fermiamo ad un autogrill e mangiamo qualche boccone. Tappa al bagno, ricordi te anticipandomi, la prossima fermata sarà lontana. Poi di nuovo in strada, con il tramonto a scendere oltre il parabrezza, te che ti accucci come un cane sul sedile passeggero, i paesaggi notturni illuminati dai lampioni, dalle altre rare macchine che ci superano o superiamo. Abbiamo sconfinato l'Italia, entrati in Francia in punta di piedi; scalato i Pirenei, i pneumatici finiti, il battistrada consumato, l'odore bruciato dei freni in una discesa in folle. Lo abbiamo vissuto, o me lo sto solo immaginando?
Guardo al di là dei vetri della finestra. Non saprei dire dove. La camera sembra quella di un bed and breakfast, ma potrebbe essere quella della casa di alcuni tuoi amici di cui ignoro l'esistenza; e quello fuori non l'oceano ma il Mediterraneo, Genova.
Ovunque siamo, tu, dove sei?
Ai piedi del letto c'è la tua borsa aperta, alcuni pochi vestiti tirati fuori e ricacciati subito dentro; la mia tracolla slabbrata a vomitare a terra il suo interno. Sul cassettone la polaroid e un foglio, la tua calligrafia. Sono andata a comprare le pellicole, tu intanto scrivi quello che è successo, i posti dove siamo passati, i discorsi di cui abbiamo parlato: voglio leggere tutto, rileggere tutto, per non dimenticare niente.
Nessun commento:
Posta un commento