mercoledì 30 novembre 2011

The tree of life


Quel che rimane di The Tree of Life sono schegge, non dolorose ma pur sempre schegge. Non c'è da stupirsi, in quanto tutto il film è composto da schegge. Si passa dal presente al passato, dalla voce fuori campo del bambino a quella della madre, andando a collidere, se così possiamo dire, con i due aspetti del film, o meglio: i due temi, le due raffigurazioni. Sotto questo aspetto la pellicola può essere rappresentata come un triangolo equilatero rovesciato, nel quale la base è la storia dell'universo, l'evoluzione, una scheggia forse impazzita ma visivamente affascinante, di una bellezza senza fine, mentre i due lati sono i personaggi sui quali, forse di più, si sofferma la storia guardata dal protagonista: il padre, un Brad Pitt più mascellone del solito, e il fratello, in un rapporto tra amore/odio. Ma a parte questo la storia non ha un preciso ordine temporale e a volte sembra andare un po' alla deriva, senza sapere di preciso quale sia la sua stessa meta. Se all'inizio si può pensare a un'analisi tra le diverse visioni della religione, dove padre e madre si dividono gli insegnamenti (pro e contro, due fazioni divise), nel corso della visione tale pensiero tende a non cementarsi tanto da diventare realtà, andandosi a perdere tra altre questioni, quali per esempio il rapporto tra protagonista e il padre.
Un film che si guarda, con attenzione, e di cui riesci a percepire la profondità, piena, senza al tempo stesso riuscire a vederne il fondo.

Ps. Sean Penn però fa solo un cameo.

lunedì 28 novembre 2011

Intervista a A.M. Homes

di Tiziana Lo Porto

Li avevamo lasciati sapendo già come andava a finire. Sposati, lui in carriera, lei a casa, due bambini piccoli, una villetta con giardino in cui Elaine e Paul vivevano impantanati in una vita che si prospettava tutta uguale. A muoverli il desiderio di andare avanti così, poi quello di restare da soli, poi ancora quello di essere “da soli insieme”. Già protagonisti a inizio anni novanta del racconto Adulti da soli della raccolta della scrittrice americana A.M. Homes La sicurezza degli oggetti, ritornano nel romanzo Musica per un incendio (Feltrinelli, traduzione di Maria Baiocchi e Anna Tagliavini). Nel sequel della storia, l’incendio del titolo accade quasi subito. Un incendio doloso con cui Elaine e Paul, appesantiti da dieci anni di matrimonio alle spalle, infelici e totalmente incapaci di immaginare una vita diversa da quella che vivono, cercano una facile scappatoia: bruciare la casa in cui abitano per ricominciare in qualche modo da qualche altra parte. Più avanti nel libro, Paul chiederà a Elaine: “Perché l’abbiamo fatto?” Ed Elaine gli dirà: “L’abbiamo fatto perché non c’era altro da fare”. Il gesto, per quanto inevitabile, si rivelerà disastroso a sufficienza da fare del romanzo quanto di più simile ci possa essere a unRevolutionary Road ambientato ai giorni nostri. Pubblicato in America alla fine degli anni Novanta, amato dalla critica e dai lettori, il romanzo esce finalmente anche in Italia.

“Di fatto un libro puoi averlo scritto ieri come dieci o vent’anni fa, e per uno scrittore non cambia assolutamente nulla”, mi dice A.M. Homes parlandomi del libro in un caffè di Manhattan, a pochi passi da Washington Square. Poi continua: “Scrivere un libro è un processo talmente interiore, talmente radicato nella testa di chi scrive, che parlarne dopo che è finito è sempre e comunque strano, anche se si tratta dell’ultimo romanzo che hai scritto”.

Perché ha scelto proprio Elaine e Paul per riprendere una storia a quasi dieci anni di distanza?
Perché per me rappresentano l’evoluzione di un matrimonio, tutto quello che si attraversa, come talvolta si cominci in un modo e poi si finisca in un altro, e come pur essendo sposati non si sia veramente insieme. E poi ero semplicemente curiosa di sapere cosa ne fosse stato di loro.

L’ha scoperto scrivendone?
In parte, e in parte lo sapevo già.

Sa già anche che ne è di loro adesso?
Non ci ho ancora pensato, ma sono curiosa. Il libro finisce in tragedia e sono curiosa del come facciano a ricominciare partendo da lì. Questa volta sono curiosa soprattutto di sapere che ne è del figlio maggiore, Daniel, che cosa fa, chi è diventato. E sto pensando di riprendere ancora una volta la storia dove l’ho lasciata per farne un racconto in cui il punto di vista è quello di Daniel.

Alcune delle cose peggiori e migliori del romanzo le fanno proprio Daniel e gli altri bambini della storia. È così che li vede lei i bambini, gli artefici del meglio e del peggio delle vite degli adulti?
Sì, e ho sempre scritto romanzi in cui i bambini hanno un ruolo centrale. Trovo che il loro comportamento dica moltissimo di quanto sta accadendo agli adulti. Anche nel romanzo che sto scrivendo adesso i veri protagonisti saranno i bambini. Il comportamento dei figli e il modo in cui si relazionano con gli adulti è fondamentale.

Quand’è che secondo lei si passa dall’altra parte? Quando si smette di essere bambini e figli per diventare adulti?
Non credo si smetta mai. Quantomeno non in America. Forse la generazione prima della nostra lo faceva: crescevano, si sposavano, indossavano i loro abiti da adulti. Fino agli anni sessanta c’era un confine ben delineato tra adulti e bambini. Adesso non è più così. Elaine e Paul sono l’esempio perfetto di adulti che si comportano da bambini, senza tenere conto del fatto che sono genitori di qualcun altro. È una cosa molto narcisistica, e infantile.

Lei dice che è una cosa esclusivamente americana?
Questo non lo so, negli altri paesi però non mi sembra che la cosa sia così esasperata. Certo, gli italiani soni famosi per il modo in cui sono legati alle mamme, e forse ogni paese ha la sua variante, forse il problema è comune a tutti. Quello che so per certo è che in America gli uomini e le donne non crescono. O quantomeno diventano adulti molto più tardi di quanto dovrebbero. Qui da noi non si diventa adulti prima dei trent’anni, che è tardissimo. A quell’età la maggior parte dei nostri genitori erano già sposati con figli.

La sua Elaine però quando diventa madre in qualche modo è costretta a crescere, a essere più madre che figlia…
Sì, appunto, è costretta a farlo, e di fatto poi si rifiuta di diventare adulta. Si ostina a volere indietro quello che non può più avere, e la cosa la distrugge.

Anche il rapporto che Elaine e Paul hanno con il sesso, il modo in cui nel romanzo ne fanno la soluzione a tutto, è per lei una cosa generazionale?
Non so se sia una cosa generazionale. Ma se è della generazione di Elaine e Paul, lo è ancora di più delle generazioni dopo la loro. È interessante vedere come rispetto agli anni novanta, quando ho scritto il libro, con internet il sesso abbia preso sempre più spazio. Basti pensare a Anthony Weiner, il deputato democratico che ha messo online le sue foto nudo e s’è rovinato la carriera. La gente ha iniziato a usare il sesso per esprimersi, per manifestare il proprio malessere, o semplicemente per attirare l’attenzione. Ed è una cosa molto infantile, in cui non ci si preoccupa delle conseguenze.

Lei trova che il sesso sia una delle cose che definisce un matrimonio?
No.

E cosa allora lo definisce: l’amore, le convenzioni, i figli?
Probabilmente ogni matrimonio è definito da cose differenti. Per alcuni sì, magari è il sesso a definirlo. Per altri è il sentirsi complici. Oppure i figli.

Lei crede nel matrimonio?
Leggendo i miei libri tutti mi vedono come una persona trasgressiva ed estrema, ma la cosa buffa è che in cuor mio sono quanto di più all’antica ci possa essere. Per cui sì, credo nel matrimonio. Anche se non sono sposata. E mi sposerei se trovassi qualcuno di sposabile.

Cioè?
Qualcuno con cui potere essere me stessa. Sono una donna, e una donna di successo, e non voglio smettere di esserlo. Non potrei mai stare con qualcuno con cui dovere essere sempre in competizione. O che mi sminuisca. Vorrei qualcuno che sia veramente pari a me, e che sia un compagno. In pratica un uomo che nella vita reale non esiste.

Nel suo romanzo, Elaine è sicuramente molto più accomodante di lei. Lei e Paul si tradiscono, ma il tradimento passa quasi in secondo piano rispetto al resto…
Sì, ma quelli sono loro, e io non la penso come loro. Lo so che non è realistico pensare che si possa essere sposati con qualcuno che non ti tradirà mai. La fedeltà non è nella natura degli uomini. E tuttavia non smetto di pensare a quanto sia devastante il tradimento, soprattutto per una donna. La vita è già così complicata in sé che in un matrimonio o in una relazione di lunga durata non ci si può permettere di devastare l’altro.

Il suo libro racconta una storia molto vicina a Revolutionary Road di Richard Yates. E anche se accade mezzo secolo dopo, si ha l’impressione che per le coppie le cose sembra vadano sempre allo stesso modo.
Sì, assolutamente. Scrivendo pensavo a Richard Yates, ma anche a John Cheever. Entrambi raccontano le paure delle persone, il bisogno che hanno di essere visti pubblicamente in un modo quando privatamente sono in un altro modo, l’infelicità che provano con se stessi e con gli altri. E questo gap, questa distanza tra pubblico e privato, è una cosa che mi ha sempre affascinato e che cerco di raccontare anch’io nelle mie storie.

Però, rispetto a April di Revolutionary Road, Elaine non è prigioniera delle convenzioni, o di quello che la gente può dire, o di una qualunque altra motivazione esterna. Elaine non va via di casa solo perché non riesce a immaginare dove altro andare.
Esatto. È impantanata. Quando riprenderò a scrivere di lei non sarà facile inventarmi un modo per farla uscire dallo stallo…

Musica per un incendio finisce in modo tragico per tutti. A che punto ha deciso che doveva finire in dramma?
L’avevo deciso prima ancora di cominciare a scrivere il romanzo. E scrivendo non ho mai perso di vista la consapevolezza della fine.

Scrive così tutti i suoi libri? Sapendo già come vanno a finire?
Sì, anche se di solito ho solo un’idea generale. Non so esattamente come si evolverà, ma so in partenza l’emozione che voglio trasmettere alla fine. Per cui si tratta solo di darle una forma.

Dov’è lei nella storia di Elaine e Paul? È Elaine, Paul, o è uno dei figli? È all’inizio, o alla fine della storia?
Non ci sono.

Mai?
No, non entro mai nelle storie che scrivo. Non scrivo mai dal mio punto di vista, o in modo che il punto di vista di uno dei personaggi sia identico al mio. Sono più come una piovra con i tentacoli, che sì, sono sempre parti di me, ma vanno a finire ognuno in un personaggio diverso. Quando scrivo fiction, è sul serio fiction. L’unico libro che ho scritto in cui ho superato il confine tra finzione e autobiografia è In un paese di madri, in cui ho romanzato pezzi della mia vita. Ma di solito è pura finzione. E posso dire di avere una grande immaginazione.

È più facile scrivere fiction?
Sì, molto più facile. In un paese di madre è stato il più faticoso dei miei libri.

Lei insegna scrittura alla Columbia. Le piace insegnare?

Sì, anche se la cosa che mi piace di più dell’insegnare non c’entra niente con la scrittura. Mi piace lavorare con i giovani perché stanno attraversando un momento delle loro vite in cui possono fare tutto. Hanno un sacco di opportunità, e non credo se ne rendano conto. Ed è di questo che mi piace parlare con loro, delle infinite possibilità che hanno davanti, anche di quelle che non c’entrano niente con la scrittura. E poi cerco di farli lavorare moltissimo sulla creatività, di insegnare loro a usare l’immaginazione. Uno scrittore quando comincia a scrivere di solito scrive cose autobiografiche, scrive solo di se stesso. Ma è una cosa che puoi fare solo per un tempo limitato, prima o poi sei costretto a confrontarti con la necessità di scrivere fiction, di immaginare e creare le cose. Ecco, questa è la cosa che mi piace di più insegnare: come usare l’immaginazione.

Anche lei impara qualcosa dai suoi studenti?
Sicuramente a essere paziente.

E dai suoi insegnanti? Da allieva cos’ha imparato?
L’insegnante migliore che ho avuto è stata Grace Paley. Non mi ha insegnato molto sulla scrittura, ma mi ha parlato della vita. E la vita è un soggetto di gran lunga migliore della letteratura. Poi è stato importante studiare la storia, che per uno scrittore è più interessante della letteratura. Col tempo ho scoperto quanto per uno scrittore siano importanti la storia, l’economia, il comportamento delle persone, o il modo in cui funzionano le cose. Tutta roba più interessante e utile dello studiare letteratura e basta.

Questa recensione è uscita per «D-Repubblica»

Preso da qui: http://www.minimaetmoralia.it/?p=5702

venerdì 25 novembre 2011

Hey Jack Kerouac

Hey Jack Kerouac, I think of your mother
and the tears she cried, she cried for none other
than her little boy lost in our little world that hated
and that dared to drag him down. Her little boy courageous
who chose his words from mouths of babes got lost in the wood.
Hip flask slinging madman, steaming cafe flirts,
they all spoke through you.

Hey Jack, now for the tricky part,
when you were the brightest star who were the shadows?
Of the San Francisco beat boys you were the favorite.
Now they sit and rattle their bones and think of their blood stoned days.
You chose your words from mouths of babes got lost in the wood.
The hip flask slinging madman, steaming cafe flirts,
nights in Chinatown howling at night.

Allen baby, why so jaded?
Have the boys all grown up and their beauty faded?
Billy, what a saint they've made you,
just like Mary down in Mexico on All Souls' Day.

You chose your words from mouths of babes got lost in the wood.
Cool junk booting madmen, street minded girls
in Harlem howling at night.
What a tear stained shock of the world,
you've gone away without saying goodbye.

Performed by 10.000 Maniacs

mercoledì 23 novembre 2011

Melancholia


Addio dogma, fin dalle prime bellissime immagini - una specie di danza al rallentatore di stupefacente empatia - tanto per essere chiari. Lars Von Trier abbandona tutte le restrizioni autoimposte e si abbuffa in una seconda parte piena di effetti speciali, tanti da creare un pianeta intero.
Per una volta le parti si invertano, con grande genio del regista: la catastrofe arriva dallo spazio, non c'è via di fuga, non c'è modo di scappare e salvarsi, è inevitabile, ma non arriva come spesso ci viene indicato, come per i dinosauri, non è un gigantesco meteorite a schiantarsi sulla Terra e rendere la vita impossibile. E' Melancholia, un pianeta fatto pare di cristallo, a venirci addosso, a distruggerci, ma non schiantandosi sulla Terra, siamo piuttosto noi a schiantarci dentro di lui. Melancholia è gigantesco, enorme, tanto che il nostro pianeta viene letteralmente mangiato, ci finisce dentro come un sasso lanciato dentro uno stango. Ed è qui la figura allegorica: Melancholia - ricorda qualcosa? - è più grande di quanto tutto il mondo possa offrire, è più grande e grande, sempre più a ingrandirsi, avvicinandosi alla terra diventa più grande, si autoalimenta.
Per arrivare a questo si passa da una festa di matrimonio. Justine e Michael, sposi novelli, si dipanano tra i mille obblighi dei neo coniugi alle prese con invitati, ospiti, parenti, e riti. Sembra tutto normale, fino a quando qualcosa non si incrina, il piano sul quale si muovono, ma soprattutto si muove Justine, si piega in modo pericoloso, e lei scivola in comportamenti anormali, dove la normalità è una normalità psichica.
E' la costruzione del personaggio, apatica, a tratti aggressiva, che spinge il neo sposo a farsi da parte dopo appena una notte, non consumata, di nozze. L'unica a sopportare Justine è la sorella Claire, che dà il nome alla seconda parte del film.
Claire è il personaggio su cui il regista incentra l'avvicinarsi di Melancholia alla terra, portandosi dietro tutta quanta la famiglia: il figlio, il marito, e anche Justine, che invita a vivere a casa sua per cercare di aiutarla a uscire dalla sempre più profonda depressione. Via via che Melancholia si avvicina, Justine pare migliorare, seppur mantenendo degli atteggiamenti altamente strani, ma troppo tardi Claire si avvede del motivo vero per cui questi miglioramenti avvengono. Significativa sotto questo aspetto è la scena notturna in riva al fiume, nella quale Justine si sdraia e si lascia bagnare dalla luce sempre più intensa di Melancholia. Arrivati a questo punto Justine benedice il pianeta di cristallo, lo venera come una divinità, proprio perché rappresenta il termine del percorso della sua depressione, la fine.
Non a caso sarà proprio lei a comportarsi normalmente quando ormai tutto sarà spacciato; il figlio di Claire non avrà paura perché forse non ha ancora avuto abbastanza tempo per maturare dentro di sé il concetto di paura; Claire diventerà isterica oltre ogni misura; il marito di Claire opterà per una soluzione drastica abbandonando qualsiasi tipo di amore.
Un film capace di fare ragionare, riflettere. Di tutta la tristezza infinita che lo accompagna e che lo precede, però non ne ho trovata tutte queste tracce. Doveva essere la pellicola più triste del regista, per sua stessa ammissione, ma non mi pare così tanto accentuata. Antichrist, a posteriori, era molto più difficile da vedere, per via delle ferite che ti lasciava e per lo spazio angusto nel quale ti lasciava.

lunedì 21 novembre 2011

Skippy muore

More about Skippy muore

Pian piano comincia a balenarvi l’amara verità: Babbo Natale era solo la punta dell’iceberg, e il vostro futuro non sarà il giro sull’ottovolante che vi eravate immaginati, e il mondo dei vostri genitori – quel mondo dove si fa il bucato, si va dal dentista, e nel fine settimana si va a l magazzino di articoli fai da te a comprare le piastrelle nuove – è in realtà in buona parte quello che si intende per “vita”.

Si cominciano a intravedere frammenti di tramonto sulla città, una mescola sontuosa di magenta e cremisi.

Lei prende un’altra sigaretta, la accende e fa un lungo tiro, tutto in un unico movimento pieno di fastidio.

“Mi piacerebbe leggere le tue poesie, anche solo per vedere come si possa passare dal descrivere la gente sbudellata dalle esplosioni a scrivere d’amore.”
“Forse non c’è tutta questa differenza” dice lei.
“Pensi di no?”
“Sei mai stato davvero innamorato?”

Se solo potesse essere certo che la sua vita è come la voleva, e non solo la vita che si è ritrovato ad avere perché aveva paura di inseguire la vita che voleva.

Il ginocchio di lei, avvolto nel collant, è appoggiato alla sua coscia. L’aria sembra solcata da esplosioni di scintille.

Se hai la mano nel fuoco prima o poi dovrai ammettere che l’unica soluzione è levarla dal fuoco.

È uno shock sentire la sua voce – fuori dalla sua testa, indipendente dalla sua memoria. Si rende conto che se l’è immaginata sospesa in una condizione atemporale; solo ora gli viene in mente che un momento prima che lui la chiamasse, e tutti i momenti precedenti nelle ultime settimane, lei ha fatto altre cose, ha passato giorni di cui lui non sa nulla, come prima che la conoscesse ci sono state altre migliaia di giorni che per lei erano reali come le mani sotto i suoi occhi e di cui lui non avrà mai nemmeno una vaga idea, e questa cosa non gli era mai neanche passata per la testa.

E si rende conto che l’amore non segue una linea dritta, all’amore non gli interessa giusto e sbagliato e fare il bravo e nemmeno renderti felice; e vede, come in una visione che la vita e il futuro saranno molto più complicati di quanto si aspettava, impossibilmente, insopportabilmente complicati e difficili.

Ma la storia, alla fine, è solo un tipo diverso di racconto, e i racconti non sono la verità. La verità è incasinata e caotica e non finisce mai. Spesso non ha un senso vero e proprio. I racconti invece hanno sempre un senso, ma quello che fanno è eliminare quello che non calza. E spesso ce n’è tanto.

Paul Murray

venerdì 18 novembre 2011

Un viaggio

Ho finito i nomi con i quali ci chiamavamo: tu, io, tutti quanti, perché alla fine avevamo così poco da chiamarci, eravamo sempre insieme, anzi, io ne ho fatta pure una specie di malattia di questo vedere tu solo tu e i tuoi amici, dieci anni di differenza senza sentirli, e non parlavo, mi inventavo le parole. Ti vedevo ridere e questo mi faceva ridere a mia volta, nonostante forse non riuscissi a capire proprio bene cosa stavi dicendo - a volte le parole erano difficili e quei dieci anni di differenza si mettevano tra me e te, con le esperienze e le conoscenze e i vocaboli nuovi ed eruditi - o cosa avesse acceso quello spunto di ilarità, una battuta su aspetti a me ancora sconosciuti, forse per poco, perché poi me li avresti spiegati o mi sarei incaponito io di capirli, per sentirti meno lontano, esserti più vicino, non solo fisicamente ma anche con la testa.
All'inizio, tra i sei e dieci e quindi anni, correvo, correvo e correvo per cercare di riprenderti. Era tutto una corsa, perché per quanto cercassi di andare più forte tu mi precedevi mantenendo sempre la stessa distanza. Mi sembrava strano, all'epoca, pensare che mentre io crescevo pure tu lo facevi. Mi pareva impensabile perché già io ti vedevo grande, in tutti i sensi, e non capivo la necessità di farti ancora più grande, voglio dire: una cosa si cerca di migliorarla quando ha dei difetti, non quando è già perfetta.
A dire la verità, all'inizio stavo fermo, paffuto rimbacuccato dentro delle tutine di lana per tenermi al caldo. Mi tenevi in braccio e ci facevamo scattare foto tremendamente anni '80. Quello era il tempo di quelle foto. I figli, eravamo. Lo siamo tutt'ora, ma in modo diverso. C'è una bella differenza con l'altra foto fatta molto molto dopo: noi due grandi, già vicini, appoggiati al termosifone della nostra stanza, con alle spalle la finestra, tu con la barba, io ancora glabro. Trova le differenze, evidenti, come fossimo riprodotti in un gioco di una scarsa settimana enigmistica. Però siamo sempre noi, gli stessi, io e te. Nella prima foto c'era una strada a dividerci e io, anche se ancora non riuscivo a camminare, se non carponi a quattro zampe come i cani, cercavo di raggiungerti e ho continuato a farlo fino a quasi raggiungerti, nella seconda foto, ti sono vicino, manca poco, forse solo la barba.
Adesso camminiamo a fianco, uno accanto all'altro, anche se può sembrare strano o magari non lo facciamo spesso, o se lo abbiamo fatto anche prima nonostante la distanza, ed è un bel viaggiare, davvero, anche quando ci chiedono di spingere gli autobus rimasti fermi nei parcheggi. E tutto questo, molto confuso ma sincero, è per dire che sì, è vero, è davvero un bel viaggio, questo qua, ma un compagno di viaggio migliore, una specie di guida turistica che è anche un amico, soprattutto, prima di tutto, davvero, sul serio, non potrei averlo.

mercoledì 16 novembre 2011

A Dangerous Method


Quanto ci si può spingere nel cercare di guarire una persona prima di trovarsi inevitabilmente a essere malati noi stessi? Magari non allo stesso modo, ma di una malattia solo di poco diversa. Fare il giro del mondo, o della mente, trovandosi infine non più a guardare in faccia il problema, bensì ad averlo alle spalle, il problema, ed esserne una perfetta preda.
Non è dato sapere quanto di A Dangerous Method, firmato da un terzo diciamo Cronenberg, dopo il primo Mosca, e il secondo History of Violence, sia vero in quanto più vero non si può, affondando le proprie radici nella realtà storica, e quanto invece sia stato scritto apposta per la sceneggiatura stessa. Questo solo uno studioso di psicoanalisi, con esami e discussioni alle spalle, può saperlo. Normale è che riducendo la vita di una persona per metterla dentro un film, alcuni se non molti aspetti debbano essere per forza tagliati, fatti fuori, quel tanto per fare in modo al personaggio stesso di riuscire a entrare nel film. Succede più ai personaggi secondari, qui Freud, magari a tratti Sabina Spielrein, sicuramente la moglie di Jung, ma è lo stesso Jung, personaggio diciamo principale, o protagonista della storia, a farne le spese forse maggiori, in quanto su di lui ci si aspetta un'accuratezza maggiore. Nel suo caso invece i tagli paiono essere stati fatti con l'accetta, andando a decapitare alcuni aspetti non proprio secondari. Non è il come è stato fatto, magari anche in modo abile e perfetto, come la ricostruzione scenica e di vestiti, abbigliamento di inizio novecento, quanto piuttosto il pensiero alla persona vera di Jung: un senso di sconsolata pena nel caso tutto Jung fosse quel Jung visto in questa pellicola.
Il film è un film parlato, dove la migliore parte sono i dialoghi, magari non molto accessibili ma capaci ugualmente di far riflettere. Lo so, si tratta in qualsiasi caso di una specie di psicoanalisi for dummies, ma ognuno prende quel che la mente riesce a mangiare. Per questo i personaggi forse sono visti come secondari, semplici pedine a cui dare la parola e fare palare. Sotto questo aspetto viene fortemente penalizzato il personaggio di Vincent Cassel, una meteora nell'arco narrativo ma di una potenza devastante se si pensa che i suoi ragionamenti vengono usati come cardine per invertire la rotta mentale di Jung, ma ci può stare, in un film parlato. Ciò che non ci può stare è il fatto di avere sorvolato, passandoci sopra in modo piuttosto superficiale, giusto una citazione, senza però approfondirne il concetto o spiegarlo ai più, sul transfert e il controtransfert, vera "malattia" di cui prima viene infettata Sabina Spielrein e poi Jung.
Sarebbe stato un altro film se magari non fossero stati messi in primo piano i dialoghi, andando a scoprire con una lanternina i recessi di alcuni pensieri, o le spinte non tanto all'adulterio quanto piuttosto a non rompere con la moglie, ma non per questo può essere visto come un'occasione mancata. Un film, come lo è questo, può prendere varie direzioni, magari svoltare a destra o svoltare a sinistra, magari una più bella e una più brutta, ma prende la propria direzione e la percorre con sicurezza, e molto bene.
Alla fine c'è solo da incrociare le dita, ma per un altro aspetto: insieme a compagni classici di viaggio dell'ultimo Cronenberg, Viggo Mortensen e Vincent Cassel, si aggregano al regista canadese i nuovi Michael Fassbender e Kiera Knightley. Se il primo riesce in qualche modo a uscirne bene, la seconda, soprattutto nella primissima parte nella quale sembra giocare a marcare eccessivamente le proprie smorfie, risulta non proprio all'altezza della pellicola, anche se alla fine, anche grazie a una normalizzazione del proprio personaggio, riesce a riprendersi. La speranza è che, con il prossimo Cosmopolis il vampiro Robert Pattinson non risulti una scelta non del tutto azzeccata come qui la Knightley.

lunedì 14 novembre 2011

Tutto troppo

È che avevo bevuto troppo, tra vino birra, altro vino, altra birra, non avevo mangiato niente, tutto quanto a stomaco vuoto, neppure un caffè, e poi mi sembrava di essere in ritardo, facevo tutto di corsa, tra la corsa vera e propria per venirti a prendere, e la corsa di testa a non pensare a niente, e la corsa in macchina a zigzagare tra altre macchine per correre veloce nel traffico senza fare incidenti, stare attento agli stop, anche quelli nascosti, appena messi, e i doppi sensi, i divieti d'accesso invertiti, perché questa città quando si tratta di traffico sembra essere una metropoli e cambia in continuazione, ti svegli una mattina e non sai più dove andare, quale strada prendere per andare dove non sai più dove andare. Avevo bevuto troppo ed ero stanco, le gambe mi si afflosciavano su se stesse, stavo per cadere quasi in ginocchio: non ero più abituato a correre così tanto, sentivo i muscoli irrigidirsi in un modo strano, duri ma vuoti, quasi fossero una parete di cartongesso alla quale tiri un cazzotto convinto di farti del male e invece ti ritrovi con il pugno immerso fino al polso dentro un buco del finto muro sgretolato. E così avevo bevuto ed ero pure stanco, non me ne puoi fare una colpa, avevo caldo, sudavo dentro la mia camicia troppo larga, troppo sporca, troppo leggera se fuori fosse stato freddo e avessi voluto prestartela per coprirti, togliermela sbottonando i bottoni uno a uno, appoggiartela sulle spalle mentre avrei tentato di fare un poco il gentiluomo - che poi una delle due: o fuori sarebbe stato freddo, e allora come avrei potuto sudare, forse sudore freddo, oppure sudavo perché fuori sarebbe stato caldo, e allora te non avresti potuto avere freddo, a meno che non tu fossi malata, la febbre fa strani scherzi - le dita mi scivolavano da quanto sudavo, e cercavo di fare veloce, di non perdere altro tempo, mentre ti aiutavo ad arricciarti le maniche della tua di camicia e ti ho sfiorato distrattamente senza volerlo per un breve attimo il seno. Non me ne ero neppure accorto, tanto ero impegnato a piegare perfettamente, senza troppe grinze di troppo, la manica della tua camicia, e perché, lo sai, sono impacciato, alcune cose non le faccio di proposito, le faccio ma non le faccio, nel senso che non me ne rendo conto, e ormai sono così tanto abituato, ho una specie di callo sulla mia maldestrezza, che faccio e non mi rimane niente, perché in fondo non lo voglio fare e non sono pronto a prendere i risultati del mio fare non voluto, ho capito di averlo fatto solo quando me lo hai detto tu, sorridendo, senza esserne affatto infastidita, forse perché in fondo ormai lo sai che sono disadatto e non è che me ne voglia approfittare di alcune certe situazioni. Me lo hai detto a titolo informativo, non per rimproverarmi o cosa, sorridendo, appunto, senza rabbia, e anche allora non ho battuto ciglio, non mi sono sentito in imbarazzo, o a disagio, o un qualsiasi altro stato in cui si dovrebbe sentire un ragazzo quando tocca il seno a una ragazza e quest'ultima non è nuda, non è sopra di lui, non sta insieme a lui in un letto, non si offre con i suoi baci, non si dà per lui in tutto e per tutto, anima corpo e seno, bocca, labbra, orecchie, occhi, mente, solo sua, le gambe affusolate attorno ai suoi fianchi, e la pelle ruvida di brividi, l'eccitazione a livello epidurale. Io non ti sentivo, non pensavo al tuo seno, pensavo a tutt'altro, pensavo: speriamo che non piova, di stare bene, di non sudare troppo, e soprattutto, di non fare troppe cazzate. Appunto.

venerdì 11 novembre 2011

Saldati

Aspetto che il mio cuore faccia 'boom'
chi semina peste raccoglie dolore
sotto le lenzuola
anche tu
io divento un fiume
tu profumi come un fiore

Cadi giù dal letto 'badabum'
mi tieni più forte
poi non ti muovi
chiudi gli occhi e non ti vedo più
poi lego i miei capelli ai tuoi
con più di mille nodi

Portami a vedere il cielo questa notte
anche se è nuvolo
ho tanto caldo anche se è inverno
ho tanto caldo anche se è inverno

Mi sento che non peso quasi più
rivolto nel letto:
silenzio, che dorme! shh..
"E come stai?"
mi chiedo dandomi del tu
"come a primavera sugli alberi le foglie"

Portami a vedere il cielo questa notte
anche se è nuvolo
ho tanto caldo anche se è inverno
ho tanto caldo anche se è inverno

Ma che bel sogno...
fino a mattina non ho chiuso occhio

Portami a vedere il cielo questa notte
anche se è nuvolo
ho tanto caldo anche se è inverno
ho tanto caldo anche se è inverno

Performed by Dente

mercoledì 9 novembre 2011

Parole

Ci siamo scritti tanto e tanto addosso, a volte neppure quello, soltanto scritti diversi in diversi posti, provincie lontane. Le tue montagne, così come il tuo lago. Ci siamo scritti dentro usando l'inchiostro come il sangue e non soltanto viceversa. Ci siamo scritti per disegnarci, ci siamo riempiti di parole, e con le parole abbiamo tracciato i nostri contorni. Gli aggettivi i nostri valichi, le frontiere sul mondo esterno, mentre i malumori o le voglie strane, pazze idee senza senso, o guerre fantomatiche, trincee infinite, sporchi lezzi e sudici, dentro ospedali pronti a curare ogni possibile malattia inventata - la mia mente è malata - sono i nostri intestini aggrovigliati tutti quanti attorno a loro stessi, sopra sotto di traverso, ammassati convulsi e confusi. Le parole ce le siamo tatuate sulla pelle, così tanto da non lasciare nessuno spazio libero e tutte le volte doversi riscrivere sopra. Ricordo ancora quando entrai piano in quella stanza virtuale, senza fare rumore, con la paura di rompere qualcosa, delicato, dissi: permesso, posso? Quante parole ancora avevamo da passarci, uno all'altra, scambio dare avere, un baratto - anche se tutte le volte penso sempre io sia in eterno debito, come mai potrei avvicinarmi?
Quante parole ancora da scambiarci, da qui e per giorni e giorni e giorni interi. Non mi stanco mai. Sperando sempre di non disturbare. A cominciare da queste, che con un filo di voce, ti dico piano: buon compleanno.

lunedì 7 novembre 2011

Skippy non morire!

SlowMind One è una fanzine di letteratura impopolare. Paul Murray è invece uno scrittore irlandese. Skippy Muore è il suo secondo libro. Inizia con un prologo in cui Skippy e un suo amico sono seduti in un bar. Succedono un po' di cose, ci sono un po' di personaggi. Prendendo in esame solo e soltanto il prologo, ignorando tutto quello che potrebbe accadere nel resto del libro successivamente,http://www.blogger.com/img/blank.gif mi sono permesso di dare una mia personale versione di questo prologo: un remake o una specie di cover. La potete trovare sul sito di SlowMind One, a questo indirizzo:

http://slowmindone.wordpress.com/2011/11/06/skippy-non-morire/

oppure leggerla in pdf sempre ospitato da SlowMind One:

http://slowmindone.files.wordpress.com/2011/11/skippy-non-morire-edward-s-portman.pdf

Buona lettura

venerdì 4 novembre 2011

I think I like you

Did you ever know love, cause I want to be with you
Did you ever know love, cause I want to be with you
Did you ever see a light inside your mind?
Did you ever stop to look what it makes you blind?
You should feel the love from my skin to my bones, it's a feeling that's making me high...

There is something and it makes me smile, I think I like you.
There is something burning in my mind, yeah, I think I like you.

Did you ever think twice, cause I want to be with you
No doubt from my side, cause I want to be with you

Did you ever make love, was I on your mind?
Did you ever get enough, were you satisfied?
You should feel the love from my skin to my bones, it's a feeling that's making me high...

There is something and it makes me smile, I think I like you.
There is something burning in my mind, yeah, I think I like you.

I want you, call me, don't you forget.
I'll wait, I want her, don't waste my time.
There is something and it makes me smile, I think I like you.
There is something burning in my mind, yeah, I think I like you.
There is something and it makes me smile, I think I like you.
There is something burning in my mind, yeah, I think I like you.

mercoledì 2 novembre 2011

Ottobre 2011


"Il problema dell’umanità è che gli stupidi sono strasicuri, mentre gli intelligenti sono pieni di dubbi."

Russell Bertrand