martedì 30 giugno 2009

Già il dolore è qualcosa

Non mi importa, lo dico ora, solo ora: non-mi-importa. Se le ore o i minuti non si incastrano alla perfezione con il tempo; se la vista diventa cieca non distinguendo le figure tra le folle; e anche la bocca, con le labbra attaccate, incollate, sopra, sotto, il vinavil bianco che sforza i muscoli nel tentativo di parlare, la bocca, si, si secca fino alla ruvidità del silenzio. Scriviamoci addosso fino a farci del male. Usiamo parole affilate, parole taglienti. Oppure pensiamoci, in modo continuo, ossessivo, da stritolarci le ossa. Che ci facciano del male questi pensieri, soffocandoci la gola o slabbrando con denti aguzzi ferite ancora aperte o appena rimarginate; ma facciamoci del male, cazzo! in qualche modo. Che così avremo almeno qualcosa da cui guarire.

lunedì 29 giugno 2009

E crollano le pareti attorno

E' tutto così confuso, nebuloso. Le azioni si disperdono nella foschia acquosa, i contorni si fanno così labili, a tratti solo accennati quel tanto che basta da marcare un confine, giusto per non far scappare l'essensa. Per ora ci sono sogni, pensieri mescolati e legati gli uni agli altri da spaghi a volte tenui a volte robusti. E' forse il momento migliore, quello in cui divertirsi risulta facile, anche se lo si fa solo in testa, a velocità siderale senza freni di carta, schermo di pc, penne difettose o dolori alle mani. Il difficile sarà l'azione, il portare tutta questa nube cosmica dal cervello fino alle punta delle dita e far tracimare ogni cosa da qualche parte. Rendere il tutto più o meno definitivo, reale, vero. Quando le linee saranno più marcate, più continue, tutto si ridurrà alla propria rigidità. Bisogna lavorare in fretta, lavorare con lentezza, lavorare la creta, il pongo, prima che l'effetto dell'acqua svanisca e tutto torni maledettamente duro. Non ha importanza se poi tutto quanto crollerà, le cose sono fatte per crollare. Solo i capolavori restano ben eretti, senza crepe, o linee di vecchiaia. Anche gli uomini sono fatti per crollare, in fin dei conti. In fin dei conti marciamo tutti su strade assai provvisorie, asfalto artigianale, catrame amatoriale. E i passatempi più frequenti si indorano di nastri meno rischiosi.
I cantastorie, ai bordi delle strede, richiamano attenzione e indicano un'altra via.

venerdì 26 giugno 2009

Non Finire Mai

Ho smesso di pensarti ormai
Ma faccio sogni strani
Mi specchio e c’e’ un estraneo
Che ha ancora le mie mani
Che come dei diamanti
Schieravi su di te
Pronta a far progetti per noi

Rimandavamo sempre tutto a domani Amore
Per esser sempre quello che vuoi
E non finire mai
Non finire mai
Non finire mai

Se questo e’ il tempo che si ha
Mettiamo una distanza
Dalla citta’, dai numeri,
Dal freddo della stanza
Voglio la tua bocca
Ma mi passera’
Prima che si apra per me

Per rimandare ancora tutto a domani Amore
Ed esser sempre quello che vuoi
E non finire mai
Non finire mai
Non finire mai

Musa un po’ puttana madre della mia bambina
Ora che son forte so che sei piu’ forte tu

Non finire mai
Non finire mai
Non finire mai

Performed by Afterhours

giovedì 25 giugno 2009

Di draghi non ce n'è mai abbastanza

Di tutti i jeans appesi a stendere di fronte alla nostra porta, quanti ce ne saranno stati ieri sera? Dove ci avrebbero portato se li avessimo fatti tappeto, lungo le strade e per i vicoli. Firenze bella, Firenze balla, sotto un cielo sempre più scuro, sempre più blu. Chi è seduto per terra, chi chiede una foto, chi ride, chi beve, chi esplode nel vuoto. Il mangiafuoco che ci sputa addosso l'odore di cherosene: vampate d'aria calda a ritmo irregolare, in una folla medioevale accerchiata attorno ad un drago. Vederlo ruggire gonfiando il petto alzandosi sulle zampe posteriori, come due lucertole che litigano sull'asfalto. Montiamoci sopra, anche se questo drago non esiste, sentiamo le squame rubino scuro che al contatto si indorano di luce. E voliamo, voliamo via, lontano, non lontano; cavalchiamo questo drago immaginario sotto gli archi del cielo, le nuvole stese, sopra prati di bottiglie vuote: vino, birra, sangria, vodka, evaporate con la sete giovane e spensierata di chi non lavora il giorno dopo. Voliamo ai confini, alla periferia dell'impero: la nostra notte bianca sotto i portici dell'università, seduti uno accanto all'altra, la schiena appoggiata al muro, vedere la gente passare mentre i Marta sui Tubi da lontano fanno rumore, e le nostre parole si cristallizzano appena uscite dalla bocca. Domani sarà nuovo, ci ricorderemo ancora di questo rauco gridare, un'arrampicata lungo le chiacchiere spontanee. Non avrei immaginato di uscirne così bene, senza sforzi, senza lividi; invece mentre i ragazzi ci passano accanto, tu parli di qualcosa che io so bene. Parli degli studenti, del comitato; parli del cadere dalle scale, degli esami passati imparando nuove sigle; parli della differenza dei ricordi, delle preferenze del suono, della gente che ti sta addosso, che spinge l'esuberanza contro altra gente, che alza le braccia sopra la testa, che stringe il pungo in segno di sfida, in segno di speranza, che salta a tempo, che sta sulle punte dei piedi, che si dondola melodia come gli steli dei fiori al vento; parli di questa notte, notte bianca, notte buia, notte fredda, notte tra noi due e altre mille mille mille persone; parli dei giorni futuri, delle racchette accordate con le dita come fossero chitarre, delle corse che fanno ridere e di chi ride, chi ride cretino, quando chi ride è sdraiato in fondo alle fogne e nel ridere ride della gente che cammina alta sull'asfalto sopra di loro; parli delle grate da cui gronda l'acqua della pioggia, dell'estate che ha spazzato via il bel tempo, con il sole ed il caldo che se ne sono andati; parli del mare, del fine settimana sull'asciugamano in spiaggia; parli dell'ombrellone, delle creme solari, dell'abbronzatura e del nostro pallore; parli del caldo, dell'afa che vorresti, mentre ora invece c'è freddo e hai freddo, sotto la tua camicia appena; parli dell'abbracciami, per piacere. Parli dell'andiamo via, torniamo a casa. Parli del divano e del nostro senderci stanchi.

mercoledì 24 giugno 2009

L'inferno comincia nel giardino

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Nel buio il sangue sembrava nero, e guardarlo sgocciolare fuori dal suo stomaco era come guardare la sua felpa bianca scomparire nell'oscurità.

"Vuole farti innamorare."
"C'è di peggio."
"Per me no."
"Le carestie, la guerra, le inondazioni."
"Quelle cose non mi sono mai capitate. L'amore si. Innamorarmi è la cosa peggiore che mi sia mai capitata."

"Mi ha rovinato la vita", ripeté la donna quando furono sul marciapiedi.
"E lei ha rovinato la mia", rispose l'uomo.
"Vorrei poter credere che sia tutto così netto", disse McPupkiss. "Una vita semplicemente rovinata; la responsabilità della distruzione tutta da una parte o tutta dall'altra. So per esperienza che le cose in genere sono più ambigue."

Judith sentì l'impronta della mano svanirle dal petto.

Jonathan Lethem

lunedì 22 giugno 2009

Pm10

Metti un pomeriggio con l'aria che sa di merda, passare per le strade facendo streaching, riscaldandosi e preparandosi per l'impegno. Entrare nella zona rossa senza saperlo e vedere un motorino schiantarsi contro un muro, e subito dopo essere seguito da un camion, un tir enorme che schiaccia i resti di quel povero sopravvissuto. Due, tre frasi al massimo, imparate a memoria, a pappagallo, come le poesie a scuola: ei fu siccome immobile dato il mortal sospiro. Discutere sulla direzione dei venti, le giurisdizioni comunali, chiusure preventive, per decidere da quale parte far sventolare la bandiare bianca. Ora che non si può più portare una bambina in passeggino, fare un giro in un parco, senza dover analizzare le uova delle anatre che le covano in riva al lago del parco; analizzarle con il microscopio alla ricerca del male minore; mentre le anatre invece passeranno l'inverno alla ricerca delle uova scomparse dalla cova. Quanti pulcini uccisi dalla scienza, ora che la zona rossa si espande ad ombrello e il signore vestito bene, come uno strillone di inizio secolo scorso modernizzato a quello attuale, ci dà il benvenuto nella zona rossa, senza definirla, senza spiegarla. Non c'è zona rossa, non c'è zona: nuotiamo ovunque nella diossina, e micropolveri sparse dappertutto. Dove portare la propria bambina in passeggino? se fuori è tutto malato e non si vede, anzi, sembra quasi una così bella giornata.

venerdì 19 giugno 2009

Tumblin' Down

I went drivin' today
Couldn't help but think of how
You're with somebody else
And now you've got a child

It's been a few years
Since I saw you last
I know you're doin' fine
You don't miss the broken glass

Well I won't waste your time
So I won't come around
I didn't mean to make you cry
I just wanted to make you proud

But it all come tumblin' down
Well it all comes tumblin' down
Yes it all comes tumblin' down
Whenever you're around

Through the years
We tried to make it work
It'd start with a yellin' match
And end up gettin' hurt

And now you're gone
I've changed my shallow ways
I hoped you'd get to see them
But you will never know

Somedays
I miss the noise we used to make
And then I stop and think
That I ain't ever goin' back

Cause it all comes tumblin' down
Yes it all comes tumblin' down
Well it all comes tumblin' down
Whenever you're around

Please don't forget about what we've had or lost
I'll take it everywhere I go from here on out
I know you'll do the same
Whatever life you make

Performed by Blind Melon
(anche se i veri Blind Melon rimarranno sempre quelli con Shannon alla voce)

mercoledì 17 giugno 2009

Easter Parade

Più riguardo a Easter Parade

non imparò mai a mettersi il rossetto senza oltrepassare i contorni delle labbra, il che le dava un'aria incerta, stupefatta e vulnerabile.

L'occhio di Sarah non aveva subito danni - i suoi grandi occhi castani rimasero la caratteristica dominante in un volto che sarebbe diventato bellissimo - ma per il resto della sua vita una minusscola, sottile cicatrice biancazzurra serpeggiò da un sopracciglio fin sopra la palpebra, come un tratto incerto di matita.

Nella storia di Sarah e Tony era tutto così carino da risultare quasi insopportabile.

L'obbiettivo aveva colto Sarah e Tony mentre si sorridevano come se rappresentassero l'anima stessa del romanticismo sotto il sole di aprile, con gli alberi fitti e un alto spirgolo dell'hotel Plaza appena visibili alle loro spalle.

Leggerai un sacco di bei libri. Oddio, ne leggerai anche qualcuno non tanto bello, ma così imparerai a distinguerli.

Da qualche parte vicino alla Quarantaduesima la baciò. Non era la prima volta che veniva baciata - nemmeno l aprima volta che veniva baciata sul piano scoperte dell'autobus della Fifth Avenue; un ragazzo del liceo aveva già avuto questo ardire - ma nel suo genere era il primo bacio che avesse mai ricevuto.

"Ah, mi ha spezzato il cuore. Ma del resto all'epoca il cuore mi si spezzava in media una volta al mese, variava solo l'intensità della sofferenza. Cosa vuoi per dessert?"
"E adesso ogni quanto ti si spezza, il cuore?"
"Eh? Mah, un po' meno spesso. Due-tre volte all'anno."

a Roma faceva un caldo tale da squagliare gli occhi nelle orbite.

Mentre l'autunno si faceva più freddo, trasformandosi rapidamente in inverno, lei tornò a New York da sola.

Non si poteva nemmeno dire che fossero amici intimi: potevano passare settimane intere senza che lui si facesse sentire, o senza che a lei importasse, e quando chiamava ("Emily? Ti va di cenare insieme?") era come se non si fossero mai separati. E a entrambi andava bene così.

Alla fine, nell'ascensore, smise di parlare: non perché avesse finito, ma perché a quel punto sembrava importante stare zitti.

Lo so quanto ti senti sola; essere tanto soli è un delitto per chiunque.

Richard Yates

martedì 16 giugno 2009

Un anno fa non avremmo guardato una farfalla spagnola

Un anno fa era un posto diverso. Un luogo. Un anno fa c'erano altre persone, c'erano molte più persone, sia sotto che sopra il palco. Un anno fa era Uno, mentre oggi erano tre. E potrei andare avanti ancora un anno a dire cosa c'era di diverso un anno fa, perdere ancora tempo per trascorrere ancora un anno e poter dire: due anni fa... e così via, perché del passato in fondo si ha sempre una nostalgia migliore; inutile dire che ingiallisce come le vecchie foto non digitali, quelle dai bordi bruciacchiati, i ricordi sono quelli e per questo non dovrebbero esser mai tirati fuori solo per giocarci o per scambiarli. Molte cose sono cambiate da un anno fa, molte cose sono rimaste le stesse, e molte altre sono cambiate senza assolutamente cambiare per niente. Sono successe tante cose in questi dodici mesi, appese a fili esili ma resistenti ad asciugare più al vento che non al sole. Come il vestito cinese rosso, a cui passo dietro come un fantasma e che pochi minuti dopo vedo passeggiare scalzo per il prato, allontanandosi il più possibile e sedendosi assorto in solitudine. Pare chiamarmi, dirmi di andare da lui: quattro chiacchiere per tirarsi su il morale, ma il suo o il mio?
"Sono fantasie - dice - e tu sai bene che io non esisto. Esisto, si - dice - ma non nel modo in cui mi vedi tu."
"Io non ti conosco."
"Questo ancora non puoi dirlo. Dovrà passare del tempo affinché tu non mi riconosca davvero."
"Nel frattempo posso ancora pensare quello che voglio?"
"Puoi fare tutto - dice - compreso credere sul serio che io ti stia aspettando, seduto su questa panchina solo perché ho voglia di parlarti."
Così guardo lontano, dando di tanto in tanto le spalle allo spettacolo appena iniziato e guardando ai bordi dell'orizzonte. Il vestito cinese rosso è scalzo, seduto su una panchina da solo. Di tanto in tanto si alza ed inizia a camminare lento, un passo dopo l'altro: tallone, pianta, punta. Guarda verso il terreno, come a cercare qualcosa. Guarda verso il terreno e aspetta che io vada da lui.

"Ciao."
"Ciao."
"Non credevo saresti più venuto."
E una discussione che sarebbe bello portare avanti all'infinito, lunga tutta la notte. Aspettare l'alba nascosti nel buio, sputandoci addosso parole e frasi fatte di rabbia stondata agli angoli.

Intanto salgono sul palco i Baby Blue, ed io cammino bene, davvero, non sento alcun dolore, mentre mi metto a sedere poco dietro il banchetto delle vendite. La cantante si vede appena, tra gli alberi e tra un albero e l'altro. Indossa un vestito verde/celeste senza laccini e gioca a tirarselo su di tanto in tanto. Il suo compagno sulla destra, con i capelli arruffati in riccioli di cespugli, orchestra la chitarra con cura, più cattivo a vederlo che non a sentirlo. Niente a che vedere con la musica per bambini, traditori di quella breve e falsa promessa. Un allestimento di un palco sul palco, con parrucche bianche a rincorrersi per mangiarsi a vicenda, in un riquadro vuoto come quello della televisione. Strani, ma strani forte. E i bambini presenti, o cresceranno bene bene, oppure marciranno male male.
A dare la buona notte, con note più accordate a lenire il mal di testa, preso alla base del naso, terribile orrore di una serata aperta bene, ci pensano i Mariposa, in tenuta da notte (pigiama lungo bianco con una mucca disegnata in petto). Aprono facendo streatching, tirandosi le gambe appoggiate sulle tastiere, con quel poco di ubriaco che potrebbe sembrare non prendersi troppo sul serio: Piera! E le danze si aprono, anche se la gente preferisce acquattarsi a bordo palco, prendere una sedia e trascinarla il più vicino possibile, per poi lasciarla lì e mettersi a sedere per terra, a gambe incrociate. Ma le danze si aprono perché il ritmo prende, afferra le gambe per chi è in piedi, e la testa per chi è seduto. Fa scatenare i muscoli con brevi intervalli elettrici, a ritmo della batteria, seguendo i testi e sperimentando i suoni. Lo dimostra la fila al baracchino: gente sincera, pronta ad aprire il portafoglio e scambiare la merce con uno dei cd.
Un anno fa era diverso. Lo so. Un anno fa c'era più rabbia e parole impresse a forza dentro la testa. Ma anche quest'anno, dicendosi adulti e non bambini, non è stato affatto male; e fa guardare al prossimo anno con speranza, quando potrò dire: un anno fa e due anni fa.
Incrocio le dita. E il vestito cinese rosso passa vicino, facendosi riconoscere per quello che non è.

lunedì 15 giugno 2009

Pentole e Provette

Eravamo in ritardo? No. Eravamo al casello, con la barra ancora abbassata e la mano tesa fuori dal finestrino. Il cellulare che squillava, con suoni secchi e serrati verso l'alto, le monete passate a far compagnia ad altre cose in tasca, ruminando all'interno dei pantaloni.
Parcheggiamo lontano, dalla parte opposta, seguendo la scia che ci indicano i cartelli e che non ci lasciano passare da dove vorremmo. Parcheggiamo sullo sterrato, dietro una roulotte che non ci dice niente di confortante, anzi (Direbbe lui, e mai altra citazione sarebbe più appropriata). Procediamo passeggiando velocemente, con passi piccoli ma veloci, rapidi nello scendere il dislivello che ci separa dagli altri, e il fieno che calpestiamo senza vedere i campi da calcio, ma orge attorno all'erba, un telo steso sul prato e due giovani intenti a studiare e ad accarezzarsi ("Presto, andiamo via." "Casa mia o casa tua?" "Andiamo in spiaggia, terreno neutro.") ("Da dove ti vengono queste idee geniali?" Chiede lui). Ma i nostri pantaloni ci sembrano troppo corti, nella lunghezza generale di una sera tendente all'estate: i bambini che ci passano bramosi accanto urlano ai genitori di sbrigarsi, e paiano più assetati di tutti gli adulti presenti.
Entriamo e una maionese gialla si trasforma in una emulsione da controfigura, insipida di un colore neutro. La stessa sostanza del mescolamento veloce nella vetreria trasparente. Aggiungendo qualche ingrediente per dare sapore, magari vitello con schiuma al limone, si potrebbe mangiare con gusto. Poi cioccolata come roccia, prima, e dopo nutella che si nasconde ditreo mousse fondente. L'idrosolubile che si spiega solubile nell'acqua, non nello sciogliersi nell'acqua. Idrosolubile, ovvero che è solubile nell'idro. Sorrido tra me e me, appunto questa cosa in un angolino della mente, piegando una parte del cervello in modo che si veda quando ne avrò bisogno per scherzare: un segnalibro in un volume della serata.
Quando ritorno delle gelatine un poco solidificate ci passano in mano, per notare la consistenza. Non so da dove possano venire, cosa le abbia partorite e cose dovremmo agitare o scaldare o raffreddare per averle di nuovo. Ma tutto, davvero tutto, si può riassumere con del semplice azoto liquido. Vederlo in quel contenitore blu bollire al contatto dell'aria e trasformarsi in fumo non appena ci divertiamo a soffiarci dentro: come i pentoloni delle streghe dei cartoni animati. Oppure gettarla a terra e vedere che la nebbia prende il posto di quel trasparente ondeggiare, per rimanere a galla solo qualche secondo, di qualche centimetro appena, e poi disperdersi, non più freddo abbastanza.
Siamo tornati bimbi, e poi siamo tornati.

venerdì 12 giugno 2009

Quiet a Feeling

Quite a feeling, quite a relief, quite a mess
Quite a feeling, quite a relief, quite a mess, quite a mess

Someone convinced me of jealousy
It's the best compliment I'll ever get
So I shouldn't be the sad girl
shouldn't but I said I was
And who's going to tell
who's going to tell this time?

It's a blizzard outside
Don't you dare stay inside

Quite a feeling, quite a relief, quite a mess
Quite a feeling, quite a relief, quite a mess, quite a mess

And what of the light boxing in the back
Why do I fear the poison I spread out
There's no need to swing back coasters, the bottle display
And who's going to fail,
Who's going to fail this time

It's a blizzard outside
Don't you dare stay inside

Quite a feeling, quite a relief, quite a mess
Quite a feeling, quite a relief, quite a mess, quite a mess

It's a blizzard outside
Don't you dare stay inside
It's a blizzard outside
Don't you dare stay inside

Quite a feeling, quite a relief, quite a mess
Quite a feeling, quite a relief, quite a mess
Quite a feeling, quite a relief, quite a mess
Quite a feeling, quite a relief, quite a mess

Performed by Sahara Hotnights

giovedì 11 giugno 2009

I baci su rotaie

Sai dove ti vorrei baciare? Non prendermi in giro per questo, ti prego; ma ti vorrei baciare proprio lì, nell'angolo destro della bocca, dove hai due leggere spaccature sul labbro inferiore; quelle che ogni sera, prima di metterti il burrocacao, maledici sottovoce e poi di giorno stuzzichi passandoci sopra i denti. Ti vorrei baciare proprio sopra questi due solchi sul tuo labbro.
E non mi importa se oggi ti sei fatto la barba male, e in alcuni punti è più folta che in altri; se per caso ti fa sentire di avere la bocca storta. Non mi importa. Ti bacerei anche se tu avessi la bocca sulla fronte, o se la lingua ti uscisse da un orecchio. Ti bacerei l'orecchio, se fosse il caso, ma ti bacerei tutta la vita, partendo da questo preciso istante.

martedì 9 giugno 2009

La Duchessa


Niente di nuovo nel 1700. Keira Knightley si toglie l'ennesimo sfizio di recitare in costume, niente altro. Per il resto rimane un Ralph Fiennes odioso, ma di un odioso posticcio e del tutto privo di realtà, distaccato e quasi su piani diversi, tanto da confonderlo a volte con la sua ombra. Non c'è uno sviluppo dei personaggi, e leggendo dopo, a film visto, wikipedia a quanto pare non c'è neppure la verità storica. L'anima anticonformista e rivoluzionaria (vado a memoria) tanto decantata in copertina del dvd non si fa viva per tutta la durata della visione, e così aspettando un qualcosa che mai accade si arriva alla fine domandandosi ai titoli di coda se ci fosse davvero questa incredibile necessità di fare un film su questa figura storica di Lady Georgiana Cavendish.

Giudizio: Tv
  • Cinema ==> Da vedere assolutamente, correre al cinema
  • Dvd ==> Da vedere, ma si può aspettare il noleggio
  • Tv ==> Niente di esaltante, se proprio si deve vedere aspettare il passaggio in tv
  • Passeggiata ==> Perdibilissimo. Andate pure a fare una passeggiata.. anche sotto la pioggia

lunedì 8 giugno 2009

L'opera galleggiante

Più riguardo a L'opera galleggiante

E sospetto che Harrison semplicemente assuma, col passare del tempo, il colorito intellettuale, oltre che alle maniere, di chi lo circonda.

E in effetti la sua pelle, particolarmente sull’altopiano dello stomaco, odorava, come seppi dopo, di raggi di sole, e i suoi capelli di spruzzi salati, e l’odore di lei nella mia testa mi diede invariabilmente per cinque anni quel medesimo senso di esaltazione vertiginosa che, da ragazzo, provavo sempre quando mi avvicinavo a Ocean City durante una gita di famiglia, e la prima spuma inebriante dell’Atlantico nell’aria mi faceva vacillare i sensi.

Non avevo scrupoli sull’adulterio: ero un cinico, ricordatevelo. Eppure, so benissimo che se fosse dipeso da me non avrei portato la mia corte oltre quell’occhieggiare e il dirle, metà sul serio, in presenza di Harrison, che ero innamorato di lei.

L’assenza di Harrison era impossibile da ignorare.

Una pelle incredibilmente liscia, tesa, perfetta!

Nell’aiutarla a formulare le sue lamentele scoprii che riuscivo a discorrere con lei più facilmente e più spontaneamente che con qualsiasi altra persona avessi mai conosciuto: non c’era nessun imbarazzo a rendermi sciocco, come accadeva con le altre ragazze, né c’era quel bisogno di fare impressione che falsava tutti i miei rapporti con i compagni maschi.

Ma Betty June, la magra Betty pelle e ossa, ruppe i sigilli della mia mente, che prima della sua venuta era stata uno strumento abbastanza ozioso: mi tolse la verginità intellettuale

E parlavamo all’infinito, facilmente, con grande empatia, saldando la sua esperienza alla mia capacità linguistica.

“Felice di vederti, Toddy”, disse Betty June con sarcasmo.
“Non ho intenzione di chiacchierare, se non ti dispiace”, dissi io con circospezione. “Non saremmo mai capaci di dirci tutto, quindi se per te fa lo stesso, io…”

Prima che potessi spiegarle quel che mi sentivo esplodere dal bisogno di spiegare, il suo ago aveva fatto un rumore decisamente sbagliato di piccola foratura (più sentita che udita, certo) nella pelle bianca del mio avambraccio e svenni un’altra volta.

Molto spesso, le cose che sono evidenti ad altre persone non sono neanche visibili per me.

La signora Holiday Hopkinson è pronta a morire da tanta tempo che, quando la morte verrà a prenderla sul serio, sarà una delusione.

“Permettetemi che vi dica una cosa. A meno che non si aderisca a una religione che non lo permette, la domanda se suicidarsi o meno è la prima a cui bisogna rispondere prima di poter risolvere i problemi della vita. Questo vale soltanto per chi vuole vivere in modo razionale, si capisce. La maggior parte della gente non si rende neanche mai conto che una tale domanda esiste.”

“Se uno vuole dire cose sensate, ho imparato che non dovrebbe mai servirsi della parola dovrebbe o deve prima di adoperare la parola se.”

“Però non dimenticate”, aggiunsi con serietà, “di considerare ogni obiezione al suicidio che vi viene in mente. Se decidete di non uccidervi, potete sempre cambiare idea dopo, invece sulla decisione opposta è difficile ritornare.”

John Barth

venerdì 5 giugno 2009

Tall Tall Grass

When I was young I used to sleep out in the garden,
Wait to sneak in when the house grew quiet.
Now that I'm grown I can't seem to find you there.
There is no tall, tall grass for me to hide in.

When there wasn't anywhere for me to go,
Oh, I stumbled into deep love with your rock and roll.
When there wasn't anywhere for me to go,
Oh, I stumbled into deep love with your rock and roll.

I can't believe that we were ever friends at all.
I didn't see it. Can you forgive me?
I've been scared to say I lined them up to fall,
And I want to change.

When there wasn't anywhere for me to go,
Oh, I stumbled into deep love with your rock and roll.
When there wasn't anywhere for me to go,
Oh, I stumbled into deep love with your rock and roll.
When there wasn't anywhere for me to go,
Oh, I stumbled into deep love with your rock and roll.
When there wasn't anywhere for me to go,
Oh, I stumbled into deep love with your rock and roll.

The world outside seems to be glowing
Like a heart beating. The snow will cover everything.

Performed by Tilly and the Wall

giovedì 4 giugno 2009

Cerniere, zip, al posto delle cicatrici (II)

Che bei tempi, quando ancora ero nutriente e sano. Salvo dalle peripezie di mille pepite d'oro, gioielli diamanti e rubini tra arterie e capillari troppo stretti per non urlare. Dolore che graffia con le punte, che lacera l'interno di ematomi e coauguli a formarsi, si gonfiano. Fumano zolfo per farmi passare, incollano l'inalare stanco e ormai sofferto per dimenticare. Ora che ho la pelle a scaglie, di perite, luccica al sole da come piego un braccio, apro una mano, stringo il pugno a conficcarmi le unghie nel palmo. Gratto via come se fosse formaggio, condisco piatti rotti e su cui servo i miei tendini stirati e strappati, zoppico tra i tavoli e cado sulle sedie. Sospiro. Avrei dovuto farmi impiantare un tubo nella spina dorsale, per l'epidurale; per non sentire sempre l'ago, e la preanestesia, la sensazione di solido che viene spinto dentro. Il lettino gelido che piegano secondo i bisogni del medico, e a me viene da vomitare, ma tengo duro. Sembro carne da macello, ogni volta, trasportato da un posto all'altro, messo sopra nastri di una catena di montaggio sterile. Flebile. Flebo. L'ittero con il quale torno ogni volta in camera, con il pigiama indossato al contrario, a pararmi il culo, a mostrare il petto. Dovrei pagare l'affitto, e farmi portare le colazioni sempre a letto, e i pranzi, le cene. Imbastire banchetti per tutte le persone che vengono a trovare me e gli altri, gli altri e me. Che la luce ha una limpidezza un po' spenta, attraverso le finestre e quelle tende che sembrano fatte di carta riciclata. Tanto, prima o poi, l'anestesia la devi pur sempre pisciare fuori, a meno di non scoppiare. Potrei lasciarla evaporare dagli occhi, e poi riciclarla nei momenti di bisogno, dopo averla conservata in sacche da un litro o mezzo litro. Per alleviare le stampelle che premono contro le mani, che cercano in uno slancio di evoluzione celeste di inglobarsi alle braccia, di fondersi nelle ossa; ma non sanno di andare contro anche a chiodi e viti e rotture già calcificate. L'errore non è stato quello di sanguinare, o di donare il sangue; l'errore vero è stato quello di credere. La prossima volta me la farò estirpare via, questa cazzo di parola, e la sua scia di pensieri che si porta appresso. Le illusioni, le elucubrazioni: sono tutte stronzate di cartone che non reggono l'acqua. Appena si bagnano appassiscono e si sfaldano. Gli strati si disperdono dove possono, appiccicandosi alle mani, ai pantaloni, all'asfalto se le lasci per troppo tempo fuori in strada. L'errore vero è stato quello di non tagliarsi con gli angoli, di non far stridere le punte contro il dorso delle mani, o in qualsiasi altro posto dove possa fare un male cane. L'errore vero, ecco, è stato quello di non puntarselo negli occhi, il credere, e poi spingere giù giù fino a toccare il cervello. Questo è stato l'errore vero.

mercoledì 3 giugno 2009

I nostri estremi

Mi domando quando questa primavera sia iniziata, in punta di piedi, senza far rumore, cogliendoci entrambi di sorpresa, impreparati, privi di alcuna difesa; e mi meraviglio, ora, con quanta rapida facilità sia trascorsa: un battito di ciglia sul cielo terso, noi due sdraiati su un prato, con le mani incrociate dietro la testa, il profumo dell'erba tagliata di fresco, a dare un nome alle nuvole. Rimanevamo nel pomeriggio privi di pensieri, sorridenti, l'uno accanto all'altra, mentre i bambini giocavano tutto intorno: le loro risa come suoni dei grilli e le cicale, il cinguettio degli uccelli a planare sui nostri silenzi intensi: non una parola, attenti a non rompere quell'equilibrio sensuale, intenti a fermare il tempo con le mani, i baci, le carezze, ed ogni altro mezzo possibile. Chiamavamo i minuti con i palpiti delle passioni, alle ore davamo come aria i nostri sospiri; e i giorni, le settimane, i mesi, con gli occhi appesi, bagnati quel tanto di felicità del nostro dormir piano.
Ora che invece le mani si muovono al rallentatore, passando lente su ogni singolo ricordo, mi chiedo cosa siamo, noi, presi singolarmente: se stagioni, o inverni; prede, o predatori? Mi sono seduto su una panchina, invece di sdraiarmi in mezzo al prato. Ho guardato i nostri fantasmi rincorrersi, afferrarmi e placcarsi. Ho dato un nome ai nostri estremi, e i nostri estremi si chiamano Marlene.

martedì 2 giugno 2009

Venus Drive

Più riguardo a Venus Drive

Una ragazzina con la canotta è venuta a strusciarmisi addosso. Non puzzava, ma sulle spalle, sui capelli aveva una patina sporca, di sonno.

Per mia madre i posti non hanno mai avuto molta importanza. A lei piacevano le cose e le persone.

Qualcosa mi accende fuochi bellissimi su e giù per la spina dorsale.

Ho chiesto a Gary un po' di consigli sulla mia ragazza.
"La ami?", ha detto lui.
"E' quello che ti ho appena chiesto", gli ho risposto. "Tu che dici?"

Si è alzato ed è andato alla finestra, un panorama di cielo, mattoni.

Era andato a vedere un certo DiMaggio che scendeva in campo con i piedi rovinati. Speroni ossei, ci aveva detto il signor Marv, cavliglie danneggiate, l'ultimo dei coraggiosi.
Che diavolo stava dicendo, speroni ossei?
Cosa c'è di tanto coraggioso?

la ragazza scivola in quello che per la gente come noi passa per sonno

Dio solo sa cosa può pensare la gente se ti sente davvero.

Facciamo quella cosa di sdraiarci sul letto e toccarsi teneramente come fratello e sorella che esplorano le cose zozze. Facciamo quella cosa di addormentarci sentendoci tutti tristi e superiori ai cretini che scopano. Non è che la cosa in sé mi abbia mai fatto impazzire, ma è bello farlo ogni tanto, ti mantiene sveglio in vista del giorno in cui potrai ritornare a far parte del genere umano. E' un bel momento di pace densa in questa vita che sembra inconsistente.

stavo solo cercando di fare quello che cercherebbe di fare qualsiasi storico come si deve, cioé descrivere tutta la roba perversa che è successa, il che secondo la Fredericks va fatto per imparare dai nostri errori e perché la storia non continui a ripetersi più volte. Ma ho i miei dubbi su questa teoria. Perché, cioé, ricordarsi o meno dell'ultimo fracco di botte che hai preso non c'entra un cazzo con quello che ti toccherà beccarti prossimamente. E che utilità ha una linea nera striminzita con dei punti sopra, a parte quella di dire semplicemente: questo ha fatto schifo, quell'altro ha fatto schifo, e state sicuri che prima o poi tutto farà schifo un'altra volta?

Per lasciarsi, diceva lei, bisognerebbe impiegare tanto tempo quanto se ne è passato insieme.

Sam Lipsyte

lunedì 1 giugno 2009

Maggio 2009


"il dramma è pensare di non essere stati amati perché nessuno ci ha amati nel modo in cui avremmo voluto e chissà perché pensavamo che tutti i tipi di amore fossero in fondo diversi, più intensi, più simili a quelli di cui non conosciamo gli screzi, più simili agli involucri degli amori che vediamo solo davanti senza sapere che dietro la cerniera è rotta e ci sono strappi e cuciture e a volte è solo che non sappiamo a chi darlo, l’amore, ne abbiamo la pancia piena e ci riesce indigesto e dobbiamo per forza darlo a tutti a qualcuno"

Virginia Diazepam