martedì 31 marzo 2009

Un'oscura odontoiatria. Ovvero: quando uccidevamo la fatina dei dentini

La prossima volta ci toglieremo i denti da soli, a casa, anestetizzandoci con venti negroni, e andando a correre prima per rilassarci. Altro che trapanarci le gengive, e fare buchi dentro le ossa: scaveremo pozzi per trovare il petrolio, per diventare ricchi con l'oro nero. Faremo diventare sordi i nostri figli adottivi, per poi comunicare a gesti e con le mani spezzargli il cuore, quando da vecchi non ne potremo più, quando avremo ormai venduto tutte le nostre anime al diavolo, e quel che resterà sarà solo nero. Guarderemo il tramonto, o l'alba, al contrario, sudati e sporchi, con un fuoco che ci sovrasterà di metri e metri, ad inquinare il mondo ancor prima di capirne il vero significato. E le risa di cui rideremo saranno fatte di ben altro che stupidi impianti da quattro soldi: saranno il dolore che avremo sputato dopo esserci sciacquati la bocca con un bicchiere d'acqua; saranno il nostro disprezzo e i nostri sguardi storti nel bruciare con gli occhi i diplomi di odontoiatria appesi sui muri, incorniciati come trofei: anni e procedure, ripassati su denti estratti male, con radici spezzate, nervi lesi e lacerati, a piangere su sensibilità scadute, senza anestesia, senza ipocrisia, a trasformarci come uomini di legno, burattini con viti e chiodi, montati come i mobili di Ikea. Il pomeriggio a tessere ragnatele rilassanti, a scacciare pensieri e preoccupazioni davanti a file costrette ad aspettare. Le sale d'aspetto, le sedie scomode e la centralinista a cui chidere di entrare, di urlare, di toglierci la preoccupazione e via, voltare pagina, bruciare la pagina, ridere di nuovo e tranquilli senza ghiaccio. I pomeriggi a fare a gara a chi ha subito di più, chi ha sofferto fisicamente, chirurgicamente, e ossa rotte, piedi torti, piedi piatti, schiene curve, martellate su dita ormai appiattite, livellate con una lima, fischettando motivetti senza senso. Uomini e donne tecnologici e tecnologiche, robot futuristici che hanno visto cose: la pioggia che diluisce le lacrime, che le perde, che senga il tempo di morire. Di passare oltre. Perché noi, gli androidi, sogneremo mai pecore elettriche? O fare incubi ad alto voltaggio, incubi di roghi, con le fiamme di scuole di provincia, con unghie affilate e taglienti; le ustioni sparse per il corpo e per la mente, a vendicarci degli anni ottanta e di quello che ci hanno fatto, degli apparecchi mobili o fissi per i denti. Ci sveglieremo di colpo, nel cuore della notte, tu nel tuo letto e io nel mio, li avvicineremo forse per nasconderci insieme sotto le coperte, come da bambini al suono di un temporale, o all'avvicinarsi sempre più ossessivo di un lampo, di un fulmine, di un colpo di. A chiederci che senso abbia avere sempre le stesse paure oniriche e no: lingue tagliate via a morsi, quando i morsi non erano volontari e il sangue sgorgava a fiumi sul mento, sulla faccia, a disegnare la barba non ancora nata, e non togliersi mai quel sapore nauseante di punti; o gli occhi, toccati con dita, oggetti, o anche solo avvicinati.
E quando avremo finito, quando arrivati a questo punto ci guarderemo allo specchio, la nostra bocca ormai sarà già guarita, e se non lo sarà almeno non avremo più la preoccupazione di un'operazione che è piccola ma è pur sempre una cazzo di operazione. Perché bucare un osso può sembrare una stronzata, lo so, non è niente, ma diavolo io ho pur sempre paura, ed è una forse chiedere troppo di essere accudita, di essere distratta, di far cullare da qualcun altro questa paura, per poterla addormentare, e lasciarla a letto, mentre io me ne esco fuori la sera a festeggiare. Mangiando gelati al gusto di antibiotici, e pasteggiando con succhi di frutta, acqua, o birra rubata.

lunedì 30 marzo 2009

Jules e Jim

Le immagini in bianco e nero sono proiettate, anche se non è il termine più giusto, sulla televisione appoggiata al muro. La luce, il buio della stanza, fanno sembrare ogni cosa in bianco e nero. Intravedo i miei piedi, in fondo al letto: neri. I pantaloni che si arrampicano sulle gambe: grigi. La mia mano, appoggiata sul petto: bianca. Mi ricorda quando da piccolo, davvero, sognavo di fare l'astronauta, il cowboy, il curioso. E' l'atmosfera, fatta di musica e di intrecci semplici e veloci, che mi trasporta alla mia infanzia.
Sono sdraiato sul letto, io, non certo il cappello, mai sui letti, e mi domando cose che forse farei meglio a non domandarmi: la guerra non è guerra, lo sai vero? Non dovrei pormi questi dubbi, perché sarebbe più giusto porli a te: una donna come lei. Invece continuiamo a comunicare attraverso paesi neutrali, e ci buttiamo nella Senna alle due di notte. E' buffo vedere come qualcosa di così semplice mi porti a pensare e progettare opere più grandi, primi piani e carrellate su volti e paesaggi. Mi pare di essere malato di qualche malattia particolare, molto rara e facilmente trasmettibile. Mi sento contagioso, pericoloso. Anche se tutti quanti attorno a me vestono sterilizzati e sicuri. Ti guardo la nuca, la sola parte di te, mentre parli con il dottore che mi ha in cura. Forse ti preoccupi per circostanza, per farmi vedere qualche persona nella stanza, scacciando così il vuoto che si porta appresso la solitudine.
La felicità si racconta male, perchè non ha parole, ma si consuma. E' inutile che mi affanni così tanto a costruire storie che non vanno da nessuna parte, che si annodano tra di loro, vuote, sconclusionate, prive di filo, senza asole in cui far passare i bottoni.
"Quali bottoni?"
Non scriverò mai romanzi d'amore in cui i personaggi saranno gli insetti. Forse perché non tengo in modo così particolare agli insetti. Più probabilmente stenderò tesi, o saggi, almanacchi, manuali di precisione: qualcosa per trovare la giusta collocazione alle figure con cui ci vestiamo. Personaggi come abiti, eleganti e mai banali. I nomi sono variabili che ci contengono, basta trovare un algoritmo adatto per capire sotto quale tipo siamo. Gli indirizzi per mandarci le cartoline, per tranquillizzarci e fidanzarci in tempo di guerra, anche se ci siamo visti solo una volta. Anche se poi morirò un giorno prima dell'armistizio. Perché forse sono solo io, non il mondo intero. Devo smetterla di credere, o di illudermi, che ogni persona pensi nel mio stesso modo, con sinapsi e collegamenti deviati, come binari persi o treni deragliati. La visione è soggettiva. Tu guardi un quadro, e vedi un albero. Io guardo una lettera, e vedo un film. Forse è da psicopatici volersi ostinare ancora a parlare attraverso libri, musica - che per tradurla la traduco male - pellicole, cellulosa, album di fotografie. Così facendo finiremo per bruciarci i vestiti, quando invece volevamo bruciare solo le bugie.
La prossima volta, prometto, non batterò ciglio, non mi agiterò, non cercherò di fermarti, quando saliremo in macchina e ci dirigeremo verso un ponte, sperando che sia spezzato a metà. So che andrà così, perché è l'unico modo in cui possa finire. Per questo sono calmo, sono sereno. Solo allora partiremo alla ricerca degli ultimi segni della civiltà. E aspetteremo le dieci e venti per baciarci, perché gli angeli passano sempre alle venti di ogni ora.

Giudizio: Dvd
  • Cinema ==> Da vedere assolutamente, correre al cinema
  • Dvd ==> Da vedere, ma si può aspettare il noleggio
  • Tv ==> Niente di esaltante, se proprio si deve vedere aspettare il passaggio in tv
  • Passeggiata ==> Perdibilissimo. Andate pure a fare una passeggiata.. anche sotto la pioggia

venerdì 27 marzo 2009

Love Burns


Never thought I'd see her go away
She learned I loved her today
Never thought I'd see her cry
And I learned how to love her today
Never thought I'd rather die
Than try to keep her by my side

Now she's gone love burns inside me
Now she's gone love burns inside me
Now she's gone love burns inside me

Nothing else can hurt us now
No loss, our love's been hung on a cross
Nothing seems to make a sound
And now it's all so clear somehow
Nothing really matters now
Now we're gone and on our way

Now she's gone love burns inside me
Now she's gone love burns inside me
Now she's gone love burns inside me

She cuts my skin and bruise my lips
She's everything to me
She tears my clothes and burns my eyes
She's all I want to see
She brings the cold and scars my soul
She's heaven sent to me

Now she's gone love burns inside me
Now she's gone love burns inside me
Now she's gone love burns inside me

Never thought I'd leave you like the way I do, yeah
Kiss my love and I wish you're gone
You can kiss my love and I wish you're gone
Never thought I'd leave you like the way that I do
Kiss my love and I wish you're gone
You can kiss my love and I wish you're gone
Now she's gone love burns inside me
Now she's gone love burns inside me
Now she's gone love burns inside me

Performed by Black Rebel Motorcycle Club

giovedì 26 marzo 2009

Factory Girl


Si presenta come un biopic su Edie Sedgwick, musa di Andy Warhol per un breve periodo della sua vita, ma ripensandoci a mente fredda risulta essere qualcosa di diverso, di strano, di informe, difficile da spiegare e da adattare. La persona protagnonista è si Edie Sedgwick, ma la vera protagonista sembra essere la scena newyorkese di quegli anni, in cui si affacciano in modo prepotente Andy Warhol e la sua Factory (da cui il titolo), in modo meno irrompente un Bob Dylan non Bob Dylan, e giusto un saluto breve e poco significativo da parte di Nico e dei Velvet Underground (La domanda è: e Truman Capote dov'é?). Questo perché della Edie pre New York c'è giusto una scena in cui lei scende le scale; della Edie pre Andy Warhol c'è solo una chiacchierata per strada; e della Edie post Andy Warhol non c'è niente, se non qualche flash ad intromettersi in mezzo alla storia, e le notizie scritte poco prima dei titoli di coda. Troppo poco per definire un film una biografia di un personaggio realmente vissuto. La pellicola è uno spaccato, piccolo e scheggiato, di quella che fu la vita della Sedgwick quando si intrecciò con quella di Andy Warhol. Non c'è spazio per nient'altro, e in questo modo viene raccontato tutto e niente allo stesso tempo.
Rimane una buona interpretazione, a parer mio, di Sienna Miller e un imbronciato Hayden Christensen nei panni che nella realtà furono di Bob Dylan; Guy Pearce a fare Warhol non mi convince moltissimo e per il resto è tutto contorno, compresa una Mena Suvari da comparsa, tonda e brutta come forse non lo è mai stata sullo schermo.
Lo dovevo vedere. L'ho visto. Ok. Ora passiamo ad altro.

Giudizio: Tv
  • Cinema ==> Da vedere assolutamente, correre al cinema
  • Dvd ==> Da vedere, ma si può aspettare il noleggio
  • Tv ==> Niente di esaltante, se proprio si deve vedere aspettare il passaggio in tv
  • Passeggiata ==> Perdibilissimo. Andate pure a fare una passeggiata.. anche sotto la pioggia

mercoledì 25 marzo 2009

L'uomo in libreria

Questa settimana mi sono innamorato in libreria. Mi capita sempre più spesso di recente. Sarà per il fatto che mi piace starmene senza pensieri, come fuori dal tempo, a passeggiare tra gli scaffali, prendere in mano libri sconosciuti e curiosare un po' tra le prime pagine; oppure è il mio stato d'animo, le situazioni di questi giorni e di quelli passati che fanno si di attivare qualche mio speciale recettore. E' una questione di chimica, mi dice sempre P. quando parlando con lui cercando di spiegare alcune cose misteriose di me stesso, a me stesso. Non lo so.
Lui era in piedi, di fronte allo scaffale delle novità. Non era né particolarmente bello, né particolarmente appariscente. Il fatto poi che avesse per le mani un libro che non consideravo un capolavoro non aiutava certo. Con il passare degli anni mi sono accorto di essere attratto sempre di più da persone che hanno una certa ricercatezza nei gusti, che tentano in qualche modo di trovare qualcosa di particolare e nuovo. Lui, questo perfetto sconosciuto con in mano l'ultimo bestsellers inventato dalla pubblicità, non sembrava certo far parte di quella ristratta cerchia di individui che potessero attirare la mia attenzione. Lo stavo giusto per ignorare, come voltando una pagina noiosa e troppo lunga, quando ad un tratto è successo qualcosa che lo ha illuminato di una luce particolare: con le mani curate, unghie tagliate alla perfezione e pulite, senza alcun graffio o ruga, si è portato una ciocca di capelli ribelli dietro l'orecchio destro. E' bastato questo per ruotarlo come di trecentosessanta gradi e farmelo vedere da tutt'altra prospettiva. Sotto i miei occhi si è trasformato silenzioso e avorio. Come se non me ne fossi accorto prima ho visto le sue spalle ampie nascoste sotto la giacca marrone, il suo fisico che lo rendeva simile ad una statua, la sua barba incolta, ma non come la mia, però proprio come la vorrei io.
I suoi occhi scivolavano veloci sulle righe della parole, sulle stampe del libro che aveva per le mani. Sembrava indeciso sul comprarlo o meno, ed io volevo quasi quasi andare da lui e sciogliere qualsiasi suo dubbio. Volevo appoggiargli una mano sulla spalla, anche solo per sentirne lo spessore, per tastare i muscoli sottopelle; attirare la sua attenzione e dirgli di lasciare perdere, che quel libro se lo avesse mai comprato si sarebbe rivelato un'emerita stronzata, qualcosa di esile e di infinitamente puerile, così tanto da fargli venire l'orticaria. Lui mi avrebbe guardato per cercare una spiegazione, ed allora, quando avrebbe voltato la testa verso di me, avrei potuto guardargli finalmente gli occhi, e mi sarei potuto perdere ancora.
"Sei incostante." La voce di P. esce dal bagno leggermente attutita dalla presenza della porta socchiusa ma non aperta del tutto.
Mi sarei aspettato qualsiasi commento, ma non certo questo. Mi ero quasi già rassegnato alla sua solita critica sulla mia scarsa capacità di comunicare, di buttarmi. Avrei potuto reggere per l'ennesima volta la sua voce che mi chiedeva sul filo dell'incazzatura per quale motivo non fossi andato veramente da lui, da quel perfetto estraneo, e non lo avessi davvero abbordato, invece di fare tutti questi stupidi giochetti di supposizioni nella mia mente per poi venirli a raccontarglieli.
Vado verso il bagno e apro la porta. P. è di fronte allo specchio con un'asciugamano legato in vita. La faccia nascosta dalla schiuma da barba, e il rasoio ben stretto in mano mentre tiene il meno in alto e decide da dove iniziare. Ha il fisico di un ex nuotatore, di chi ha passato la sua adolescenza a scolpire gli addominali e i pettorali, ma poi ha lasciato che l'adolescenza si portasse via tutto quanto.
Quando si accorge di me si volta, senza imbarazzo o alcun timore. Fossero queste, le cose di cui si dovrebbe vergognare.
"E' inutile - mi dice - che tu mi guardi con quello sguardo da cretino: sei incostante. Per questo non ci siamo mai innamorati sul serio, noi due."
"Intendi noi due come singoli? Io di qualcun altro e te di qualcun altro; oppure..."
"Noi due. Tu ed io. Innamorati l'uno dell'altro. Non è mai successso perché, almeno io, avevo una fottuta paura che tu mi spezzassi il cuore, che mi riducessi ad uno straccio."
Inizia a farsi la barba, guardandosi allo specchio, come se niente fosse; come se quanto appena detto non pesasse come un macigno sul mio petto, e su tutto quel momento che sembra stirarsi in eterno tra il nostro passato e il nostro futuro.
"Cosa intendi dire?"
"Intendo dire che non hai la capacità fisica di mantenere la tua attenzione fissa su qualcosa per un periodo più o meno lungo, ma lungo, di tempo. Per quanto una cosa, o una persona, ti possa interessare sarà pur sempre un interesse a termine. Prima o poi arriverà qualcosaltro, qualcosa di più nuovo, più misterioso; magari una persona che ti guarda in modo strano, in modo diverso, capace di scalzare leggermente la cosa o la persona precedente, fino a sostituirla del tutto. Vedi ad esempio lo sconosciuto della libreria. Che fine a fatto, ora, lo sconosciuto che ti sedeva accanto al cinema tre settimane fa? O il tizio con cui hai parlato al concerto?"
Si volta a guardarmi, in attesa di una mia risposta. La faccia ancora per metà coperta dalla schiuma da barba.
"Non lo so." Mi accontento di quanto mi ha detto, anche se il mio cosa intendi era riferito a tutta'altro.

martedì 24 marzo 2009

Di cui parlare ci sarebbe il mondo intero

Cazzo! Perchè ad ogni tua singola parola, lettera, devo circunnavigare il mondo intero con le mie fantasie, le mie supposizioni e le mie congetture sbagliate e stratirate? E altrettanto porca di quella troia, perché devo continuamente parlare delle parole, e parole, tirarle sempre in ballo, quasi ne sentissi la mancanza e non le stessi neppure scrivendo, le parole, e parole, e parole, e opere ed omissioni (come alla messa delle undici, quando da bambino andavo a fare il chierichetto per avere mille lire e poi spenderle ai videogiochi nel bar prima di arrivare a casa - e quella volta che mia mamma venne a prendermi a ceffoni all'una e mezza, quando la messa era invece finita a mezzogiorno; o quando i ceffoni li prendevo perché con G. mangiavo tutto il pane che ero andato a prendere a piedi, e arrivato a casa avevo la bocca sporca di ovini kinder e solo un'etto di pane invece del mezzo chilo commissionato e pagato; oppure quando scappai per una sera di casa, e mi venne a cercare e trovare mio fratello, e mi sentivo una merda, un perfetto coglione, più di quanto non mi sarei sentito anni e anni dopo quando sarei tornato per la prima volta a casa ubriaco perso, e sempre mia madre ad aspettarmi sulla porta, alle tre o alle quattro, non ricordo, con le sue mani ruvide e pesanti). Sembra quasi non riesca a parlare d'altro, solo queste stupide parole che il più delle volte rimangono qui, sterili e inoperose.
Eppure ci sarebbero un sacco di cose di cui parlare e di cui sparlare. La politica: cazzo che paese di merda che siamo. Il tempo: non esistono più le mezze stagioni, e quando vuoi fare un complimento non ti rimane che aggrapparti al sole e sperare che non si nasconda dietro le nuvole, come invece puntualmente accade; e te rimani con questo complimento, neppure poi tanto bello o originale, arido tra le mani, mentre fuori piove. La situazione mondiale, l'economia a rotoli, il ponte sullo stretto, l'alta velocità, le centrali atomiche, la riforma della scuola, e l'alitalia, il governo in carica e quello caduto, le elezioni provinciali, regionali, comunali, le cellule staminali, il caso Cesare Battisti, Tondelli (anche se non c'entra un cazzo; perché Tondelli c'entra sempre e Camere Separate e Altri Libertini andrebbero letti di continuo, fatti studiare perfino alle superiori), il New Italian Epic e il suo contrario, la voglia di scandagliare i fondali personali, spiegare se stessi per poi poter spiegare il resto, e il mondo intorno, dalle fragole alle nane rosse, che bruciano lontane in altre galassie.
Ci sarebbe una vita intera di cui parlare, dalla culla alla tomba e del sorriso che sorridere tra loro si può una volta sola; allora spiegami perché ogni volta che sento o non sento la tua voce (fa poca importanza nell'unidimensionalità della mia mente) non riesco ad aggrapparmi ad altro, se non al vento, alla brezza, il tuo respiro, e lasciarmi trasportare fino ai petali dei papaveri.

lunedì 23 marzo 2009

La moglie dell'uomo che viaggiava nel tempo

Immagine di La moglie dell'uomo che viaggiava nel tempo

È dura rimanere indietro. Aspetto Henry senza sapere dov’è e se sta bene. È dura essere quella che rimane.
Mi tengo occupata. Così il tempo passa più veloce.
Vado a dormire da sola e mi sveglio da sola. Faccio passeggiate. Lavoro fino a stancarmi. Osservo il vento giocare con la robaccia rimasta sepolta tutto l’inverno sotto la neve. Finché non ci si pensa sembra essere semplice. Perché l’assenza intensifica l’amore?

Le biblioteche mi fanno l’effetto delle mattine di Natale.

Vorrei essere entrambi contemporaneamente, risentire quella sensazione di perdita dei confini di me stesso.

“Qualcuno di voi è capace di cucinare?”
“No.”
“Gomez sa fare il riso.”
“Soltanto bollito.”
“Clare sa ordinare la pizza.”

Lui è me, ma io non sono ancora lui.

Balliamo. Il ritmo mi attraversa, onde di suono che mi afferrano alla spina dorsale, che mi fanno muovere i piedi i fianchi le spalle senza consultare il cervello.

Il passato esercita un’attrazione più forte su di me. Nel passato mi sento molto più solido. Forse perché il futuro è meno consistente?

Finalmente trovo il coraggio di toccarla. Le accarezzo i capelli, il collo e la spina dorsale sotto lo spesso manto ondulato. Si gira e allora l’abbraccio goffamente per via dei sedili.

Camminiamo tenendoci per mano. c’è un campo giochi in fondo all’isolato; corro verso l’altalena. Henry sale su quella accanto che va nella direzione opposta e ci dondoliamo lanciandoci sempre più in alto, superandoci a volte in sincronia e a volte alternati, con una tale velocità che ci sembra di entrare in collisione, e ridiamo, ridiamo e niente potrò mai essere triste, nessuno potrà più perdersi o morire o andare lontano: in questo momento siamo qui e niente può guastare la nostra perfezione né rubare la gioia di questo momento perfetto.

“Non è quello che si aspetta la tua mamma.”
“Si, lo so. Però il matrimonio e i capelli sono miei.”

Torniamo a casa in silenzio. Un silenzio che ha una qualità completamente diversa da quella dell’andata.

Lei batte le palpebre come se fosse Louise Brooks o qualcuno del genere.

Come sono strane le cose. Che strane cose facciamo noi animali.

Mi sveglio presto, talmente presto che la camera da letto è blu nell’ora che precede l’alba.

So come l’assenza possa farsi presenza.

Audrey Niffenegger

venerdì 20 marzo 2009

Life Ain't So Shitty

Life ain't so shitty
There's a lot that you can be
And ain't it a pity
But it's alright, to smile back at me
And if we both go there
We can count on problems that we might not necessarily
Come in contact with..
Hey wake up, do you know where I'm coming' from

And life ain't so shitty
There's a lot that you can be
And ain't it a pity
But it's alright, to smile back at me
And if we both go there
We can count on problems that I might not necessarily
come in contact with if you don't know where I'm coming' from

Performed by Blind Melon

giovedì 19 marzo 2009

Frustrare/Frustrazione/Martoriare

Frustrare: verbo transitivo mandare a vuoto, deludere: frustrare le speranze e i desideri; frustrare un tentativo. Dal latino frustrare, derivato di frustra ‘inutilmente’.

Frustrazione: sostantivo femminile
1. il frustrare.
2. (psicanalisi) stato psicologico di sconfitta e di delusione, che insorge di fronte a difficoltà sentite come insormontabili.
Dal latino frustatio –onis.

Martoriare: verbo transitivo
1. (antico) martirizzare, sottoporre a tortura: un altro gli avrebbe voluti far collare, martoriare, esaminare e domandare (BOCCACCIO Dec. g. III n. 2)
2. (figurato) tormentare, far soffrire gravemente: non fa che martoriare i suoi genitori.

martedì 17 marzo 2009

Imprescindibile

Inizierò ad andare in giro con un taccuino, per prendere appunti di tutto quanto tu dici e di ogni cosa parliamo. Proverò a non farmi scappare neppure un discorso, neppure una virgola, e a ridisegnare le nostre conversazioni usando metodi sempre più strani, e diversi, e speciali. Cercando di far coincidere il contorno di ogni lettera con il tuo profilo o i tuoi lineamenti. Scriverò "labbra" tentando di fletterle come le tue danzano sulla tua bocca; scriverò "capelli" e li disegnerò sciolti, perchè li preferisco così e poi toccherò l'inchiosto sul foglio bianco, sul foglio pieno, in modo da poterli lisciare, da poterli pettinare con le dita; scriverò "denti" e li macchierò di rosso, come il sangue che mi farò succhiare, come il rossetto che ti piace mangiare.
Ti scriverò così, di descriverò in questo modo, ti decodificherò, ti destrutturizzerò; e non mi importerà nulla se a te non andrà, se non ti piacerà o se ti darà fastidio. Che possano cadere i muri, e crollare le città; tutte le alluvioni più famose e la ricerca dell'originalità; i nostri genitori angeli del fango, racchiusi in ricerche di bambini delle elementari e ricerche di studiosi del tempo e delle acque straripanti.
E inventerò una specie di batsegnale, anche se a te non piace questo genere di film. Mi truccherò la faccia e mi colorerò i capelli. Ascolterò la musica a tutto volume, spalancando le finestre di casa mia, indicandoti la via. E quando non ti vedrò arrivare, ogni due giorni mi affaccerò ad urlare tutto quello che ho scritto, tutti i miei appunti che poi sono le tue parole, i nostri discorsi. Griderò al vento per darti una strada e finirò la voce a forza di chiamarti. Urlerò tutto quello che mi hai detto, tutto quello che ti ho detto, tutto quello che non mi hai detto e che hai promesso un giorno o l'altro, prima o poi, mi dirai, ma non ora, non qui. Griderò con quanto fiato avrò in gola, con tutto l'ossigeno che riuscirò ad accumulare, che tanto lo so, spero di sbagliarmi, ma quelle cose non me le dirai mai, perchè se c'era un momento quel momento è passato ed io posso affannarmi quanto mi pare a ricostruirlo, a metterlo a posto come più o meno me lo ricordo, a ristrutturare ogni singolo momento che è poi trascorso dopo, abbellendolo e cercando di ricalcarlo su quel momento giusto; ma non sarà mai uguale a quello, non potrà mai essere identico a quello; perché ogni momento, con te, senza di te, è diverso e particolare e imprescindibile, ed inimitabile, anche se ogni volta mi metto a sedere e cerco in qualche modo di farmarlo, di bloccarlo nella memoria e nella pagina: ogni volta mi dimentico di qualcosa, mi perdo un tuo sguardo, un tuo sospiro, e il mio scarabocchiare incerto su fogli a quadretti, e sulle torte di mele che non mangeremo. Per questo inizierò a prendere appunti, a registrare ogni cosa, perchè so che tutto quello non riapparirà, e non voglio scordarmi cose di cui poi sono sicuro sentirò la mancanza. Fosse anche solo una virgola, o un silenzio tra una parola e l'altra; o un tuo singolo sorriso.

lunedì 16 marzo 2009

Di noi e del mondo

Scoperta grazie ad una amica e dedicata ad un'altra amica, perché le relazioni interpersonali sono ragnatele a cui la logica non fa caso.

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se d’improvviso una sera
pure in questa lieve e perenne
insofferenza ci guardassimo negli occhi
e negli occhi si trovassero le mani fuggendo
dentro vicoli e cortili fino a un bacio breve
o lungo avremmo fatto un buon uso
un uso semplice e profondo
di noi e del mondo.

giovedì 12 marzo 2009

Il blu diventa celeste

Un anno fa, non proprio di questi tempi, eravamo sul Tirreno a parlare e reclamare con persone che avrebbero poi partorito male, ricordi? Tornammo indietro rispettando i limiti di velocità e con la paura di arrivare in ritardo. Tagliammo la strada, passando lontani da casa, e pagando pedaggi che poi avremmo recuperato. Il blu allora era decisamente più scuro, non era un celeste sbiadito e malato come invece è oggi.
Scendemmo di macchina e tu sembravi sceso giù da un peschereccio. L'aria era gelida e faceva condensa. Il paesaggio, però, così come la vallata, era stupendo e lo è tuttora. Sembra illuminato a festa, quando è del tutto quotidiano. Mi avvicinai a te, un anno fa, mentre camminavamo su per una salita troppo ripida, e ti dissi: "Sai che spettacolo, qui, a tuffarsi in queste luci."
Oggi scendiamo di macchina e tu non hai più l'aria del marinaio. Io invece sono vestito più o meno uguale, abbracciato al moi giacchetto fuori stagione, e con una maglia con il cappuccio che mi sborda dalle spalle. Non sembro un marinaio io, non sembro un cowboy, o un astronauta; sono anonimo esattamente come uno che indossa un giacchetto fuori stagione e una maglia con il cappuccio che gli sborda dalle spalle. E i capelli troppo lunghi, la barba fatta crescere senza regole, e gli occhi sottili e stretti, e le labbra nascoste nella faccia.
Mi avvicino a te, mentre saliamo la solita salita troppo ripida, e ti dico: "Sai che spettacolo, qui, a tuffarsi in queste luci." Cerco di essere spiritoso, giocando con il tormentone, perchè so già che dovrò prepararmi a vedere un sacco di gente vestite a festa, indossare la loro migliore anima, quando io non riesco a spolverare neppure un singolo frammento di me da far vedere. Avere tante persone, dentro, e non averne neppure una da esibire. Ma tu non capisci e camminando in affanno rispondi proprio come avevi risposto un anno fa, quando il blu era più scuro e non era un celeste timido e impacciato come è invece ora, ed era freddo da battere i denti.

mercoledì 11 marzo 2009

Watchmen


Watchman, la graphic novel di culto firmata Alan Moore, è il fumetto che più e più volte è stato definito come infilmabile. Non avendolo letto non dirò se a mio avviso questa definizione sia giusta o sbagliata, vero è che per portarlo sullo schermo c'è voluto più di qualche anno, e tanta tanta pazienza.
Anticipato da un battage pubblicitario forse non ossessivo ma piuttosto riuscito la fama che si è venuta a creare intorno a questo film rischia di portare in sala persone non propriamente adatte al genere. Non siamo certo ai livelli di Eternal Sunshine of the Spotless Mind, ma anche in questo caso alcuni spettatori in sala mormoravano durante il film, ridevano fuori luogo, e altri invece non aspettavano altro che l'inizio dei titoli di coda per scattare verso l'uscita, neppure fossero dei corridori ai blocchi di partenza.
Il film non è un classico film tratto da fumetti: non stiamo parlando di Superman, uomo ragno, o Hulk e compagnia bella; non stiamo parlando neppure di 300, nonostante il regista sia lo stesso; e neppure dell'ultimo Batman, che comunque è risultato più maturo a livello di tematiche e struttura rispetto ai già citati. Watchman è un film riflessivo, dove non c'è azione, e se c'è è pochina pochina, e quando c'è ti fa storcere anche un po' la bocca perché sembra leggermente fuori luogo. Ha una trama ragionata, non a caso l'originale è stato il primo fumetto a vincere il premio Hugo, premio che viene assegnato ai migliori romanzi di fantascienza. La storia si snoda tra il presente (siamo in un 1985 alternativo, dove Nixon è al quinto mandato e la guerra fredda è sull'orlo di scoppiare), e il passato. Un passato dove i protagonisti hanno bisogno di vivere, legati a quel tempo, il loro tempo, come ad una macchina che li tiene in vita. E' la storia della vecchiaia dei supereroi, dove non c'è spazio per l'uomo di Cripton, e anzi viene pure preso un po' in giro. Il diventare adulto dopo la giovinezza, l'adolescenza, e il sapersi lasciare alle spalle tutto quanto: lo sugardo di Spettro di Seta dopo aver salvato degli innocenti da una casa in fiamme, la dice lunga sulla paura e sulla ruggine alle giunture di supereroi che con il passare del tempo hanno imparato a diventare esseri umani, normali.
Un discorso a parte va fatto per Rorschach, un personaggio bello e oscuro, psicologico come la sua maschera, l'unico a non arrendersi di fronte ad un decreto che metteva al bando gli uomini mascherati. In lui c'è la conoscenza, la sicurezza, la consapevolezza che loro, gli uomini mascherati, i supereroi non riuscirebbero a vivere se privi del loro stato: si sentirebbero come privati dell'ossigeno, sempre in apnea; come succede a Gufo Notturno II, in una scena di sesso esplicativa.
Certo un film strutturato e non banale, che lascia spazio a molte chiavi di lettura: prendendo in esame il passato di tutti i protagonisti, eccezion fatta per Ozymandias, c'è la possibilità di approfondire il carattere di ogni personaggio e di scoprire cosa e perché li ha resi quel che sono. Nonostante questo l'amaro in bocca non va via facilmente, non tanto per un'occasione sprecata, quanto per alcuni punti che potevano essere scavati più a fondo. I personaggi stessi, quelli di poco sopra, non sono piatti come potrebbero essere gli altri cinefumetti di serie b, ma non sono neppure tridimensionali: si fermano alla seconda dimensione. Il Dottor Manhattan, ad esempio, poteva benissimo essere sviscerato meglio. Si poteva fare un film intero sul Dottor Manhattan, sui suoi poteri e sui disturbi che questi comportavano.
Tanta carne al fuoco, forse troppa.

Giudizio: Dvd
  • Cinema ==> Da vedere assolutamente, correre al cinema
  • Dvd ==> Da vedere, ma si può aspettare il noleggio
  • Tv ==> Niente di esaltante, se proprio si deve vedere aspettare il passaggio in tv
  • Passeggiata ==> Perdibilissimo. Andate pure a fare una passeggiata.. anche sotto la pioggia

martedì 10 marzo 2009

In memoria

Erano in due. Li abbiamo fatti entrare in casa, noi, aprendogli la porta e facendogli pure tutti gli onori del caso. Ci hanno guardato come se stessimo festeggiando qualche festività che loro non conoscevano. Poi ci hanno squartato, conficcando la lama affilata e pulita poco sotto l'ombellico. La forza non è niente quando una punta di un qualsiasi materiale entre facile facile dentro la carne. Hanno alzato il braccio, facendo scorrere il coltello dal basso verso l'alto, colpendo l'estremità bassa dello sterno e fermandosi là. Prima uno lo ha fatto a te, e quasi in contemporanea l'altro si è voltato verso di me facendo la stessa identica cosa. Un lavoro certosino, da danzatrici o da nuoto sincronizzato. Ci hanno squartato e li abbiamo lasciati fare.
Ci hanno spogliato di tutto quello che avevamo addosso. Siamo rimasti nudi, sia dentro che fuori. Con le budella arrotolate di fronte agli occhi, sparse sul pavimento ad imbrattare di sangue tutte le mattonelle chiare che avevamo comprato e montato con tanta pazienza. Ci siamo trasformati in animali imbalsamati, pronti ad essere imbottiti ma non ancora impagliati. Diventeremo come le mummie egiziane, ti volevo dire, senza tutte le cerimonie e le tombe a piramide, o il Nilo che straripa durante la stagione del raccolto, e sparge il limo, e fa mangiare tutto il popolo; diventeremo come Tutankament o Cheope, anche se nessuno ci conoscerà o ci studierà nei libri di scuola elementare, ma saremo pur sempre dei faraoni. Ed invece ci hanno appeso alle pareti, neppure troppo in alto, a grondare sangue come dei maiali al macello.
Aspettiamo a diventare leggeri. La parola peso, per quanto possa sembrare strano, non ha peso. E mentre ci prosciughiamo, io guardo te, tu guardi me, ed insieme guardiamo la nostra casa: teatro degli orrori e di quello che non verrà.

lunedì 9 marzo 2009

And you're the key

In un labirinto non ci sono stanze, non ci sono specchi, non ci sono fineste, non ci sono quadri appesi ai muri, non ci sono televisioni, non ci sono cassetti, non ci sono armadi, non ci sono mobili, né mensole o scaffali o librerie o portasciugamani o rotoli di carta igenica; non ci sono dentifrici, non ci sono spazzolini, non ci sono spugne da bagno, supegne da giardino, spugne o muffe, o oranismi unicellulari; non ci sono porte, non ci sono persiane, non ci sono luci, lampadari, lampadine a basso consumo, prese della corrente, non ci sono elettrodomestici, non ci sono frigoriferi, non ci sono lavatrici o lavastoviglie, non ci sono prodotti per la casa, prodotti per l'igene intima, prodotti da vendere o da comprare; non ci sono rossetti, lucidalabbra, mascara, fondotinta; ci sono solo pareti uguali, che si attorcigliano tra di loro come serpenti in una cesta, si legano e si slegano come lacci di scarpe consumate e sciupate. Questo è un labirinto, e te ci vai a sbattere la faccia contro, ogni volta che deciso ti convinci che l'angolo appena svoltato è quello giusto, che il muro di fronte a te è solo un gioco di prospettiva. Quando vedi una porta pensi ad uno scherzo, credi sia solo disegnata per trarre in inganno, per dare una falsa possibilità, un'illusione della tua mente; ed invece è proprio una porta, solo che è chiusa a chiave. Per te il labirinto è finito, ma chi ha la chiave ha la possibilità di andare oltre, anche se da qualche parte ha letto la parola fine.

venerdì 6 marzo 2009

This is the sea

These things you keep
you better throw them away
you want to turn your back
on your souless days
once you were tethered
now you are free
once you were tethered
now you are free
that was the river
this is the sea

now if you are feeling weary
if you've been alone too long
or maybe you been suffering from
a few too many plans that have gone wrong
and you're tryin' to remember
how fine your life used to be
running around banging your drum
like it's ninteeen seventy three
well that was the river
this is the sea

now you say you got trouble
you say you got pain
you say you got nothin' left to believe in
nothin' to hold on to
nothin' to trust
nothin' but chains
you've been scouring your conscience
raking through your memory
scouring your conscience
raking through your memory
that was the river
this is the sea

now i can see you're waverin'
as you try to decide
you've got a war in your head
and it's tearing you up inside
you're tryin' to make sense
of something that you just don't see
tryin' to make sense now
and you know that you once held the key
but that was the river
and this is the sea

now here is a train
it's comin' on down the line
you realise if you hurry
you got still enough time
and you don't need no tiket
and you dont pay no fee
and you don't need no ticket
and you dont pay no fee
because that was the river
and this is the sea
that was the river
this is the sea
that was the river
this is the sea
the river, the river, the river, the river
the river, the river, the river
and this is the sea

sea mmmmmm sea
Behold The Sea

Performed by Waterboys

giovedì 5 marzo 2009

Quando la fantascienza diventa cocascienza

Il distaccamento della mente dalla personalità è un fenomeno che colpisce non solo illustri docenti unversitari e scrittori di indubbia fama. Con il passare del tempo e l'avanzamento di studi mirati, si è potuto constatare come la DMP, come viene acronicamente chiamata, risulti piuttosto comune in individui abituati, forse in modo eccessivo, ai balzi temporali. Questa attività, che nei seggetti di studio si è trasformata in una strana forma di dipendenza, porta l'individuo a non riconoscere più il tempo come una unità di misura attendibile. I cambiamenti di anno, mese, giorno, e nei casi più gravi addirittura di ora o minuto, fanno si che il cervello alla lunga non riesca a identificare l'arco temporale in cui elaborare le informazioni che arrivano attraverso occhi e orecchi. Per evitare il sovrapponimento di immagini e suoni il cercello esclude quindi il tempo come chiave di decodifica degli eventi.
Fino a qualche tempo fa il tunnel di Raushmid era ritenuto una malattia a se stante, anche se di breve durata. L'individuo colpito infatti lamentava degli strani echi, come voci e rumori che si mischiavano tra di loro a volume diversificato, ma tali sintomi andavano a morire nel giro di alcuni mesi, senza bisogno di alcuna cura o trattamento farmacologico. Solo recentemente si è giunti alla tesi secondo cui il tunnel di Raushmid sia solo l'anticamera della DMP, e che la scomparsa dei sintomi del tunnel sia la risposta che l'organismo umano dà al sovrapponimento di informazioni slegate tra di loro a livello temporale, portando così il soggetto a distaccare, inconsciamente, la mente dalla propria personalità.
Gli scienziati e i medici tutt'ora divergono sulla possibilità che l'unica cura possibile al tunnel di Raushmid sia l'inevitabile contrazione, da parte del soggetto interessato, della DMP; ma da quando le due malattie sono state strettamente legate tra loro non esiste alcuna casistica secondo cui un tunnel di Raushmid non sia sfociato in una più cronica DMP. Per questo l'intero ambiente sanitario ritiene giusto affermare che l'unica cura al momento possibile per il distaccamento della mente dalla personalità sia quella di trovare al più presto una cura per il tunnel di Raushmid.
E' pensiero comune, in ambito accademico, che i soggetti colpiti da DMP siano ormai casi clinici perduti.

mercoledì 4 marzo 2009

John Rambo


"Hey Rambo! Tagliati i capelli, vah..."

Una pera di testosterone sparata direttamente nel cuore, a torace aperto, e senza anestesia.

Forse il primo lo guardavo con occhi diversi.

Giudizio: Passeggiata
  • Cinema ==> Da vedere assolutamente, correre al cinema
  • Dvd ==> Da vedere, ma si può aspettare il noleggio
  • Tv ==> Niente di esaltante, se proprio si deve vedere aspettare il passaggio in tv
  • Passeggiata ==> Perdibilissimo. Andate pure a fare una passeggiata.. anche sotto la pioggia

martedì 3 marzo 2009

Le dita rotte su un Marzo appena iniziato

Spaccarsi le dita, ma è un piacere spaccarmi le dita. Perchè ogni ferita, e ogni rottura, ogni languido dolore che dalle ossa prende d'assalto i nervi e gestisce le conduzioni fino al cervello, è uno spillo, un segnale, stradale e non, che mi indica la via. Percorro piano, adagio, scalando continuamente e cambiando sempre più spesso marcia. Osservo i cartelli, le indicazioni blu, evitando quelli verdi delle autostrade, i marroni dei luoghi storici. Cerco quelli fosforescenti, quelli scarlatti, quelli a cuneo, di Cuneo; cerco i cartelli con il tuo nome, il tuo paese, il tuo luogo. Mi mandano a destra, poi a sinistra, ancora a sinistra, una rotonda, una breve strettoia, sinistra, poi subito destra. Il contachilometri conta. I chilometri. La radio suona. L'aria, fuori, è fredda, e sembra essere tornato l'inverno, con le piogge, i cieli grigi, e il vento. E' marzo, e sul calendario segno (purtroppo) meno uno.

lunedì 2 marzo 2009

Febbraio 2009


"Lo chiamavo al telefono. Diceva: raccontami ancora una volta la storia che riuscirò a salvarmi. Poi smise di rispondere. Capii che era finita."

Jonathan Franzen