venerdì 28 settembre 2012

3.6.9.

I feel
I feel tired
Awake all night
Heads so heavy like a waste basket

I feel choke
Emotionally broke
Everything comes around still at the night

I feel alone
I want out
I want on my own
I want everything I own

I find letters, pictures
Memories of which I can't seem to let go
In your bedside table in your pocket in your wallet
You'll know

Abusive
A stranger in bed
Elusive
Forget everything you said
Youve got the right to have that hand on your own
But the moment you hit it you're on your own

You already took over
Want now you want to hit the road
In love like a steamboat running on 'need to float'

I don't need 5 times a day
To tell me to go

3 6 9
You drink wine
Monkey on your back you feel just fine

Free
Free, everything you ever wanted

Fuck me

Performedy by Cat Power

mercoledì 26 settembre 2012

Hysteria

La strana storia dell’invenzione del vibratore passa inevitabilmente in secondo piano, offuscata dalla scoperta di come venisse curata l’isteria nel 1800, questa sì cosa assai strana. Per il resto tutto è nelle mani del ricco qui Rupert Everett, appassionato di innovazioni, che si diletta a essere pure un inventore per passione. Ovviamente ciò che verrà ricordato nel film non sarà la sua idea iniziale, ma da quest’ultima nascerà, o magari risorgerà come l’araba fenice dalle sue ceneri.
Si sorride in più di un’occasione e il film è godibile in modo assai piacevole, complice forse anche la durata che sfora di poco l’ora e mezza.  Buone le prove del già citato Rupert Everett, molto british e distaccato, e di una vulcanica Maggie Gyllenhaal. Peccato per la storia di contorno, ovvero quella d’amore del protagonista, che poteva essere approfondita in modo migliore: di punto in bianco il nostro si trova a cambiare radicalmente i propri sentimenti senza una chiara ragione dichiarata (nemmeno a se stesso), anche se questa ragione era chiara ed evidente sotto gli occhi di tutti.
Bellino, divertente, e chi pensa da sporcaccione rimarrà deluso: niente scene di nudo, ma solo recitazione facciale e verbale.

martedì 25 settembre 2012

Lei al mare

Aveva quattordici anni quando vide il mare per la prima volta. Se ne stava con i piedi, solo i piedi, immersi nell’acqua, e guardava l’orizzonte. Sembrava cercarne la fine.
I suoi genitori la guardavano pochi passi dietro, sorridendo. Non potevano vedere l’espressione della figlia. In quel momento dava loro le spalle. E anche se avessero potuto vederle la faccia, difficilmente lei avrebbe fatto trapelare qualcosa. Con dolci parole di circostanza la incitavano ad andare avanti, a tuffarsi. Ma lei non riusciva a fare un passo di più. L’acqua era troppo gelida. Sentiva il freddo risalirle le gambe e spargersi in tutto il corpo.
Per quel giorno, il primo, si fermò lì: a riva. Il resto del tempo lo passò sotto l’ombrellone, a leggere un libro portato da casa.
La mattina dopo, con i suoi genitori non più alle sue spalle, cercò di spingersi più lontano. Fece due passi, ma poi si bloccò di nuovo. L’acqua le arrivava a metà stinco, non oltre.
Il terzo giorno si spostò di poco. Sapeva di essere arrivata un po’ più lontano, ma era questione di centimetri, la differenza non si notava neppure. La sera ebbe l’idea di segnare con un pennarello indelebile l’altezza alla quale l’acqua era arrivata, in modo da poter misurare i suoi progressi, come faceva suo padre, quando lei era piccola, con tacche tracciate sul muro per vedere quanto cresceva di mese in mese.
Il quarto giorno successe qualcosa di strano. Quando si fermò, ad appena due metri scarsi dalla riva, con il mare a ondeggiare sopra e sotto il segno nero disegnato sulla pelle tesa sulla tibia, staccò per una volta gli occhi dall’orizzonte e si voltò verso la sua destra. Poco lontano da lei c’era una ragazza, ferma nella sua stessa posizione. Come lei era alta e magra, aveva i capelli castani lunghi lisci, e gli occhi sottili, poco seno, ventre piatto. Come lei indossava un bikini nero con disegnate sopra grandi vene bianche, attorno al polso sinistro un laccino scuro per capelli, alle dita niente anelli. Non fosse stato per la mancanza del piccolo tratto nero sullo stinco, avrebbe avuto la sensazione di guardarsi allo specchio.
Ciao, disse la ragazza appena si accorse di lei.
Ciao, rispose.
Si chiamava O., un nome che non aveva mai sentito prima. (Non puoi averlo sentito da nessuna parte, oggi è la prima volta che ci incontriamo). Anche lei era lì con i suoi genitori, per tutto il mese, in una casa presa in affitto lungo la via principale del paese. Il resto dell’anno viveva nella sua stessa città, vicino al centro commerciale dove lei andava a rifugiarsi quando pioveva e non aveva voglia di studiare.
È strano il mondo, si dissero a vicenda, non si erano mai viste, nonostante ci potessero essere state svariate occasioni, e si erano trovate lì, per la prima volta, al mare, sulla stessa spiaggia, lo stesso giorno, con lo stesso blocco a impedirle di tuffarsi in acqua.
Anche O. non riusciva a immergersi.

lunedì 24 settembre 2012

Stella del mattino

More about Stella del mattino 

La fantasia è l’arma più potente. Anche più della dinamite.

Questa volta il ragazzo rispose con un accenno di sorriso, abbastanza consapevole da tradire un certo studio di sé di fronte allo specchio. Arma impropria, la bellezza.

Ned percepì odore di panico. Il suo.

“Si è mai chiesto cosa spinge gente come lei e me a volgersi verso il passato?”
“Immagino sia la sua perfezione, – rispose Ronald. – il fatto che non può deluderci.”

Un proverbio arabo dice che chi vive vede molto, ma chi viaggia vede di più.

Vogliono soltanto sentire una storia che possa ispirarli. È a questo che servono le storie, no? A infondere coraggio, a sentirsi meno soli.

Mentre ascoltava la risata di Edith, Ronald pensò che era proprio quella felicità raggiunta con fatica a ingigantire la minaccia. Era la paura che l’equilibrio non potesse durare. Stava concedendo terreno alle ossessioni e proprio per questo poteva compromettere ciò che voleva difendere.

Quel tizio era convinto che la poesia potesse fare a meno della sintassi, che dovesse sbarazzarsene come di una vecchia armatura, per sprigionare nel mondo il vorticoso sentimento interiore. Ma il linguaggio è un codice, serve a comunicare, se lo elimini chi ti capisce?

L’unico atteggiamento serio nei confronti della propria epoca era quello di non prenderla troppo sul serio.

La verità è che la vita è qualcosa di talmente intimo che nessuna circostanza dovrebbe poter giustificare la violenza di un umo su un altro.

“Quell’uomo mi spaventa, – disse. – Taglialo in due e dentro troverai soltanto cicatrici. È ancora in guerra con tutti. Incluso se stesso.”

Una volta qualcuno gli aveva detto che una menzogna ne chiama sempre un’altra, e un’altra ancora, e così via, finché una recita prende il posto della vita vera.

Quando l’alba inizia a spegnere le stelle a una a una.

“Lei che dice? Meglio una pace disonorevole o una guerra suicida?”
“Dal disonore ci si può riscattare, – disse Ned. – Dalla morte no.”

Vedere con chiarezza è un’illusione, un effetto ottico. Perlopiù facciamo quello che facciamo in modo inconscio, alla cieca. Pretendere di decifrare a mente fredda ciò che siamo serve a illuderci di dominare la strada percorsa. È un esercizio di vanità. Le cose accadono. Noi possiamo solo fare del nostro meglio per restare in sella.

Wu Ming 4

venerdì 21 settembre 2012

Cherokee

Never knew love like this
The wind, moon, the earth, the sky
Sky so high
Never knew pain like this
Everything die, then die
Never knew love like this
The sun, the sea and I
Never knew pain, never knew shame
Now I know why

Bury me, marry me to the sky
Marry, marry me to the sky
Feels like time is on my time
Bury me upside down
Cherokee, kissing me
When I’m, I’m going down
Feels like time is on my time
Bury me upside down
Cherokee, kissing me
When I’m, I’m going down

Never knew love like this
The wind, moon, the earth, the sky
Sky so high
Never knew pain like this
Everything die, then die
Never knew love like this
The sun, the sea and I
Never knew pain, never knew shame
Now I know why

Bury me, marry me to the sky
Marry, marry me to the sky
Feels like time is on my time
Bury me upside down
Cherokee, kissing me
When I’m, I’m going down
Feels like time is on my time
Bury me upside down
Cherokee, kissing me
When I’m, I’m going down
Feels like time is on my time
Bury me upside down, down
Cherokee, kissing me
When I’m, I’m going down.

Performed by Cat Power

mercoledì 19 settembre 2012

40 Carati

Un uomo su un cornicione per dimostrare la propria innocenza: ha un piano. Piuttosto contorto e intricato, magari pure esile se lo volessimo trasportare nel mondo totalmente reale, ma ha un piano. L’uomo viene prima incolpato di un crimine che lui dichiara di non avere commesso e poi evade, sparisce. Si ritrova in piedi sul cornicione dell’albergo che sta accanto alla sede della società appartenente al grande uomo d’affari che lo ha incastrato. Geniale, no?
Insomma. Il suo è solo un diversivo. L’azione vera viene svolta dal fratello, con il quale si era lasciato piuttosto malino, e la ragazza di quest’ultimo. Il loro compito è quello di intrufolarsi nella sede della società del grande uomo d’affari di cui sopra e…
Non voglio svelare niente e forse magari ho già detto pure troppo. Il film sventaglia un cast di tutto rispetto, con il prezzemolino Worthington che se ne sta tranquillo sul cornicione, la bella Elizabeth Banks a parlargli, Edward Burns a portare il caffè alla Banks, Ed Harris a fare il cattivo, e Kyra Sedgwick a fare l’inutile reporter televisiva in strada.
Il film si snoda tra legami quantomeno loschi, colpi di scena, e scene d’azione (nonostante il suo protagonista sia relegato in cima a un palazzo), ma tutto quanto perde il suo fascino non appena si capisce il trucco, o il senso, e una volta arrivati a quel punto ti rimane davvero poco e non hai la minima voglia di rivederlo.

martedì 18 settembre 2012

Troppa Informazione

Una recensione de Il re pallido di J.J. Sullivan come ricordo di David Foster Wallace.

http://www.scribd.com/doc/105394362/J-J-Sullivan-Troppa-Informazione

Tradotta e messa a disposizione dall'Archivio David Foster Wallace Italia

lunedì 17 settembre 2012

Espiazione

More about Espiazione 
La bellezza, aveva scoperto, possedeva scarse variazioni di tono. La bruttezza, al contrario, ne aveva infinite.

In sua assenza poteva accadere qualcosa di brutto ma, peggio ancora, anche qualcosa di bello, qualcosa che non poteva senz’altro perdersi.

Non tutto quello che si fa deve per forza rispettare un preciso ordine logico, specie quanto di è soli.

Briony ebbe la prima vaga premonizione che per lei non ci sarebbero più stati castelli da favola né principesse, ma solo l’imperscrutabilità del presente, di quanto passava tra due individui, tra due persone qualsiasi che lei conosceva, del grande potere che uno era in grado di esercitare sull’altro, e di quanto fosse facile fraintendere tutto, ogni cosa.

Soltanto una storia permetteva di entrare in più di una testa e dimostrare come ciascuna avesse eguale valore. Ecco l’unica morale di cui un racconto aveva bisogno.

Era stanca di stare all’aperto, ma non aveva voglia di rientrare. Tutta qui, la scelta che offriva la vita, star dentro o star fuori? Possibile che la gente non potesse andare anche altrove?

Tutto bene finché si trattava di dire che la protagonista si sentiva triste, oppure di raccontare ciò che una persona triste più fare, ma come si affronta la tristezza in quanto tale, come la si comunica in modo che il lettore possa sentirne tutta la deprimente immediatezza?

Ci si misura rapportandosi agli altri, non esiste alternativa.

La sua bocca sapeva di sale e di rossetto.

Scrivere in fondo, non era come librarsi in cielo, sperimentare una forma possibile di volo, di fantasia, di immaginazione?

Quel momento era stato atteso e desiderato troppo per risultare all’altezza delle aspettative.

In assenza dei dettagli, veniva meno anche il quadro generale.

A quel punto arrivò il sibilo acuto della bomba che precipitava. Dicevano che se sentivi il suono interrompersi prima dell’esplosione, era la tua ora.

Perché certe volte uno può anche farsi troppe idee, se si lascia prendere dai sensi di colpa.

Briony aveva letto Le onde di Virginia Woolf tre volte pensando che perfino la natura umana stesse subendo una grande trasformazione e che soltanto l’arte, un nuovo modo di concepire la letteratura, sarebbe stata in grado di cogliere il senso di quel cambiamento. Penetrare all’interno di un amente e mostrarne il lavoro e il lavorio interiore e inserire tutto questo in una struttura geometrica: ecco un autentico trionfo artistico.

Imparò una cosa ovvia e semplicissima che aveva sempre saputo, come tutti: ogni persona è, tra le altre cose, un oggetto facile da rompere e difficile da riparare.

Ecco cos’era Londra appena fuori dal centro, un susseguirsi monotono di piccole città.

Da una certa età in poi, attraversare in macchina la propria città diventa fonte di riflessioni penose. Si accumulano gli indirizzi dei morti.

Si è liberi di diffamare solo se stessi e i morti.

Il problema in questi cinquantanove anni è stato un altro: come può una scrittrice espiare le proprie colpe quando il suo potere assoluto di decidere dei destini altrui la rende simile a Dio? Non esiste nessuno, nessuna entità superiore a cui possa fare appello, per riconciliarsi, per ottenere il perdono. Non c’è nulla al di fuori di lei. È la sua fantasia a sancire i limiti e i termini della storia. non c’è espiazione per Dio, né per un romanziere, nemmeno se fossero atei. È sempre stato un compito impossibile, ed è proprio questo il punto. Si risolve tutto nel tentativo.

Ian McEwan

venerdì 14 settembre 2012

Ode to my family

Doo, doo, doo, doo, doo, doo, doo, doo...

Understand the things I say, don't turn away from me,
'Cause I've spent half my life out there, you wouldn't disagree.
Do you see me? Do you see? Do you like me?
Do you like me standing there? Do you notice?
Do you know? Do you see me? Do you see me?
Does anyone care?

Unhappiness where's when I was young,
And we didn't give a damn,
'Cause we were raised,
To see life as fun and take it if we can.
My mother, my mother,
She hold me, she hold me, when I was out there.
My father, my father,
He liked me, oh, he liked me. Does anyone care?
[ Lyrics from: http://www.lyricsfreak.com/c/cranberries/ode+to+my+family_20033987.html ]
Understand what I've become, it wasn't my desing.
And people ev'rywhere think, something better than I am.
But I miss you, I miss, 'cause I liked it,
'Cause I liked it, when I was out there. Do you know this?
Do you know you did not find me. You did not find.
Does anyone care?

Unhappiness where's when I was young,
And we didn't give a damn,
'Cause we were raised,
To see life as fun and take it if we can.
My mother, my mother,
She hold me, she hold me, when I was out there.
My father, my father,
He liked me, oh, he liked me.

Does anyone care?...
Does anyone care?...
Does anyone care?...
Does anyone care?...
Does anyone care?...
Does anyone care?...
Does anyone care?...
Does anyone care?...
Does anyone care?... 
Doo, doo, doo, doo, doo, doo, doo, doo...

Performed by The Cranberries

mercoledì 12 settembre 2012

The Woman in Black

Harry Potter è cresciuto, anche se nei primi del novecento,  e cerca di fare paura. Si è sposato, ha avuto un figlio, ma la moglie è morta durante il parto. In questa tragica situazione si trova straziato dal dolore e rischia pure di perdere il lavoro per quanto apatico si ritrova a essere. Come ultima opportunità gli viene imposto di cercare di fare luce riguardo le ultime volontà di un’anziana signora con residenza in mezzo al mare. Alta marea e bassa marea, Mont Saint Michel caduta tra le nebbie inglesi.
Il compito non sarà dei più facili, visto che il nostro protagonista tutto impettito inciamperà negli intricati ingranaggi di una specie di maledizione familiare. A farne le spese i bambini del villaggio. E lui non aveva un bambino?
La fotografia è scura, e il filo lungo cui dovrebbe aggrapparsi la tensione sembra essere steso bene, ma nonostante questo il film non convince proprio del tutto. Si ricorda, è vero, non passa nell’indifferenza, ma alcuni punti fanno storcere un po’ il naso, anche se durante la visione tra gli spettatori si instaura il classico rapporto di film horror e uniti si riesce a soprassedere a questi piccoli dettagli.
La cosa brutta, e il qui quadrato Radcliffe dovrà essere bravo a riuscire a scrollarsi di dosso questa cosa, è che ci si domanda sempre come mai Harry Potter non estragga la bacchetta e non risolvi la situazione con una qualche formula magica. Sig!

martedì 11 settembre 2012

Disturbo

Il disturbo iniziò molto tempo prima che lui cominciasse a chiamarlo disturbo. Definirlo come tale fu un processo abbastanza serio, così come ammettere a se stesso di soffrirne, qualsiasi cosa questo fosse. La natura del disturbo, soprattutto quando ancora non veniva chiamato in questo modo, non è mai stata chiara, forse proprio per il ritardo con il quale lui decise alla fine di recarsi da uno specialista. Quest’ultimo, a quel punto, non poté fare altro che constatare la situazione, senza scendere troppo nei dettagli né perdendo tempo a cercarne le cause: i sintomi, qualora si fossero mai manifestati, si perdevano ormai nelle ombre del passato e non avevano lasciato alcuna traccia percorribile per capirne i motivi.
Tutto ebbe inizio quando si rese conto di non capire alcune frasi ascoltate in ufficio. Interessante – si disse poi – quanto tutto possa avere inizio quando ci si rende conto della cosa in oggetto. Il disturbo infatti – si domandò – esisteva anche prime che lui se ne accorgesse? Il fatto che il disturbo lo avesse, diciamo, in qualche modo svegliato non significava che questo non esistesse già prima. Lui stesso poteva benissimo non andare a trovare una determinata persona, magari un parente o magari un amico, e poi di punto in bianco un giorno decidere di andare a bussare alla porta di questa persona. Lui non nasceva in quel momento, l’attimo durante il quale cominciava a bussare, ma esisteva già prima. Stessa cosa poteva essere per il disturbo. Lui se ne era reso conto solo quando quest’ultimo si era preso la briga di venire a bussare alla sua metaforica porta (e lui non gli aveva neppure aperto, lo aveva lasciato fuori).
Quando fece entrare il disturbo, quando si accorse di esso e si decise ad accoglierlo, accettando di avere un problema, lo fece perché capì finalmente quanto avesse mascherato il tutto. Si diceva: non capisco questa cosa perché non la capisco concettualmente, mi mancano gli elementi per comprenderla. Le parole mi sembrano insignificanti in quanto sono termini non miei, non mi appartengono. È come se la persona che mi sta parlando mi stesse parlando in una lingua straniera a me sconosciuta: non dubito sul fatto che stia dicendo frasi sensate e grammaticalmente corrette, solo che io, solo io, sono in difetto, non la capisco proprio tutta quella lingua lì che lui sta parlando.
Invece un giorno, mentre stava conversando con un suo collega, si rese conto di come lui non capiva proprio le parole, in generale, italiane. Stavano parlando del tempo, in senso atmosferico, e di cosa avevano fatto durante il fine settimana. Lui vedeva le labbra del suo interlocutore muoversi di continuo, sfornando ogni secondo vocali e consonanti, parole intere. Ma quelle parole lui proprio non riusciva ad afferrarle. Erano sfuggenti, oppure gli parevano dette a un volume troppo basso per essere percepite. Eppure il suo collega continuava a parlare in tutta tranquillità, interrompendo solo di tanto in tanto il suo discorso con un sorriso benevolo, il tempo forse per prendere un po’ di ossigeno, respirare. E lui non capiva nulla. Annuiva, sorrideva di rimando, ma non sapeva proprio per quale motivo lo faceva. Doveva fidarsi.
Ecco, quello fu il giorno durante il quale ammise a se stesso di avere un problema. Quel problema era l’anticamera del disturbo, perché spesso si tende a risolvere, o meglio a nascondere un problema coprendolo con un disturbo.
E mentre il suo collega parlava non faceva che chiedersi, dentro di sé: posso ancora chiamarlo interlocutore, anche se non capisco una parola di quello che sta dicendo?

lunedì 10 settembre 2012

Sono io che me ne vado

More about Sono io che me ne vado 
Per riprendere quello che è mio, devo restare in modalità dimmi di no e farò piovere cadaveri nel tuo giardino fino alla fine dei tempi. e quindi devo restare sintonizzata sulla giusta sfumatura di rabbia. Il difficile non è trovarla, è metterla a fuoco. Tenerla ferma.

Non so come si faccia, a diventare così. Io così ci sono nata.

Io la notte dormo. Ho sempre dormito. L’insonnia è il rifugio della gente perbene.

Sono sicura che presto farà qualcosa di stupido, troppo stupido per essere raccontato con le parole che già conosciamo, e allora saprò quale nome dargli.

Se permetti agli altri di trattarti da vittima, forse avrai la vita più facile per sette minuti al giorno, ma non ti libererai mai dalla loro compassione. La gente ti maneggerà con cura. Ha paura di contagiarsi.

Le migliori bugie si basano su elementi concreti.

“Quindi, cioè, sei musulmana?”
Mi lascio sciogliere sulla lingua la bellezza di questa domanda.

Violetta Bellocchio

venerdì 7 settembre 2012

15 Step

How come I end up where I started?
How come I end up where I went wrong?
Won't take my eyes off the ball again
You reel me out then you cut the string

How come I end up where I started?
How come I end up where I went wrong?
I won't take my eyes off the ball again
First you reel me out and then you cut the string

You used to be alright
What happened?
Did the cat get your tongue?
Did your string come undone?

One by one
One by one
It comes to us all
It's as soft as your pillow

You used to be alright
What happened
Et cetera, et cetera
Fads for whatever
Fifteen steps
Then a sheer drop

How come I end up where I started?
How can I end up where I went wrong?
Won't take my eyes off the ball again
You reel me out and you cut the string

Performed by Radiohead

mercoledì 5 settembre 2012

Benvenuti al nord

Un episodio capace purtroppo di far rivalutare anche quello precedente. A quanto sembra, dopo la visione di questo Benvenuti al nord, la parte frizzante, divertente e simpatica del suo predecessore, ovvero la fatica al contrario rivolta verso il sud, era ottenuta grazie agli sforzi dei francesi autori di Giù al nord, alla quale Benvenuti al sud era liberamente tratto.
In questo nuovo capitolo le scenette sono forzate, così come la piega che prende la trama verso la metà del film, e i luoghi comuni sono portati ai massimi estremi, caricati all’inverosimile per far nascere situazioni capaci di strappare un seppur flebile sorriso dovuto a passaggi caricaturali elevati all’ennesima potenza. Il risultato è che tutta la trama si basa su fatti inverosimili, sia a livello di vita che soprattutto a livello lavorativo.
Non riesce neppure il gioco di riportare le gag del sud al nord, con il giacchetto antiproiettile trasformato in un impensabile giacchetto antinebbia, e infatti gli stessi autori sembrano averci per fortuna rinunciato, lasciando l’episodio sopra riportato come unico esempio di quanto non andava fatto.
A sorreggere il film, più che l’accoppiata Bisio-Siani ci pensa Angela Finocchiaro, in solitaria, visto che la presenza sullo schermo della sua controparte femminile Valentina Lodovini è dosata con il contagocce.

martedì 4 settembre 2012

Tempo

Ho speso tempo, nel tempo. Con il trascorrere dei minuti, delle ore, per non parlare dei giorni. Giorni interi a spendere il tempo come se fosse denaro, vile e semplice. L'ho passato, il tempo, a scambiarlo con altro di cui, in quel momento (altro tempo), sentivo la forte necessità. L’urgenza di avere qualcosa, di vedere qualcosa (di sbagliato).
Ho trascorso il tempo, il mio e anche un po' di quello degli altri, a vederlo scorrere, come se fosse un fiume. E ogni secondo una diversa goccia d'acqua persa nel corso. Seduto sulla riva a non fare nulla. Neppure pescare, nel tempo. Magari avrei avuto la possibilità di ritrovare un determinato ricordo, di tempo, qualcosa passato (tempo) e che per magia si sarebbe potuto ripresentare nel presente, io, tempo.
Non si può dire che non abbia avuto una mano fortunata. Ne ho avuta più d'una, in successione. Ho sbirciato le carte per un istante (anche questo tempo) e ho fatto la mia scelta. Ho deciso di passare quando avrei dovuto puntare tutto (il mio tempo), e ho deciso di rimanere a giocarmi il tempo quando invece avrei fatto meglio a passare (tempo).
Ho sperperato, in modo vile e al contempo (con-tempo) urgente, tutto quanto avessi per le mani, o allacciato su un polso. Ho barattato orologi per sorrisi e seni e corpi affusolati in perfetta armonia. Ho perso, non solo il tempo, ma anche l'occasione di avere qualcosa da raccontare, in un minuto o anche per ore e ore e ore. Ora (adesso, tempo) mi trovo a contare gli errori e le omissioni, trasformando il tempo trascorso in un mostro che mi perseguita.
Il tempo, normale, è un'affascinate astrazione di cui non si può fare a meno: ci attraversa e ci circonda, senza possibilità di fuga o di diniego. Il tempo, quando non lo si sevizia o lo si violenta, rimane buono e ci guarda, si lascia guardare, si lascia riempire. Invece io l'ho torturato, il tempo, andando a gonfiarlo di niente e nulla e vuoto. Mi ritrovo così ora (tempo) ad accorgermi di averlo accumulato senza senso, in un capannone gigante, nel quale ci sono un sacco di scatole dalle dimensioni esagerate, ma tutte quante con dentro assolutamente niente, ovvero: il mio tempo, buttato.

lunedì 3 settembre 2012

Agosto 2012


"Ci si aspetta di tutto, ma non si è mai preparati a nulla."

Anne Sophie Swetchine