lunedì 30 aprile 2012

Musica per un incendio

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Se tutti i nostri amici sono disgustosi vuol dire che lo siamo anche noi?

Quando uno degli amici cambia, quando qualcosa è diverso, si innervosiscono tutti, come se fosse contagioso, come se quella botta di malasorte o di sfortuna dovesse toccare automaticamente a tutti loro.

Sabato sera al barbecue grandi scende di felicità nel rivedersi, malgrado siano già stati tutti insieme la sera prima. E forse non sono nemmeno scene. Forse sono davvero felici di rivedersi. Forse è stata davvero dura essere abbandonati a se stessi per ventiquattr’ore.

La loro nudità sembra uno scherzo studiato a bella posta per farli apparire più esposti, ma non funziona, la loro pelle è solo un ennesimo strato male assortito, come i vestiti. Ha perso la memoria; il paesaggio del corpo è sbrindellato, informe. Non si sforzano di coprirsi, di nascondersi, e in fondo bisogna riconoscere l’onestà, l’estrema umanità di tutta quella carne debole. È straziante.

“Non si può collezionare tutto,” dice Pat buttando il vestito sul mucchio dei regali. “La vita non è un hobby.”

“Chi ci dà il permesso di odiare? Chi può permettersi di pensare cose tanto orribili? Credi di essere tenuta ad avere sentimenti su qualsiasi cosa? Non hai nessun bisogno di tutti questi sentimenti.” Sospira. “Tu ti fai delle fantasie su come dovrebbero andare le cose. Smettila di sognare a occhi aperti. Chiediti che cos’è che vuoi, e vai a prendertelo. Ma devi farlo da sola; nessuno lo farà per te. Tu devi farti la tua vita.”

Sono soli, sulla strada che porta da Pat e George. Procedono in silenzio. Non il silenzio metallico della collera, né quel censurato della frustrazione, ma il semplice silenzio di una pausa, di un momento da soli, della calma tranquilla.

Il bacio, di una fragilità insostenibile, una fitta di sensazioni, la scuote dalle fondamenta. Tutto quel che Elaine pensa su di sé, su chi è, su che cosa è, diventa irrilevante. Non ci sono parole, soltanto una sensazione, una sensazione di morbidezza. Di tenerezza, come il solletico della lingua di un gattino. Elaine si sente debolissima e improvvisamente stordita. Pat la sta baciando. Lei sta baciando Pat. Sono in piedi in mezzo alla cucina, dando e ricevendo ogni bacio che hanno mai dato e ricevuto; baciano a memoria. Il bacio: rapido, intenso, profondo, frenetico, lungo e lento. Assaporano le labbra, la bocca, la lingua. Elaine porta le mani al viso di Pat, sente la morbidezza della sua pelle; l’assenza della ruvidezza scabrosa di guance mal rasate è talmente poco familiare da sembrarle impossibile. Pat struscia il viso contro quello di Elaine carezzandole la guancia, gli zigomi alti e luminosi, stuzzicandole l’orecchio, la linea sottile delle sopracciglia e concludendo con uno sbattere di ciglia come un battito d’ali di farfalla.

La vista di Pat provoca in Elaine una violenta vampata che l’aggredisce all’inguine.

Si baciano. Condividono il sapore dello scotch, la lingua ispessita. Lui la bacia come non può più baciare Elaine, un bacio profondo, pieno di bisogno e di desiderio.

“Se dovessi avere un altro figlio, sarà meglio che sia femmina.”
“Ci stai pensando?”
“A volte.” Dice lei.
“E di chi vorresti che fosse?” chiede lui, geloso e possessivo.
“Smettila.” Dice lei alzandosi. Va in bagno, e chiude la porta. È da questo che si capisce che sono amanti: chiudono la porta.

“Sei depresso?” chiede Elaine a suo padre sottovoce, per non farsi sentire dalla madre.
Lui le si accosta. “Come faccio a saperlo?” Sussurra a sua volta.

Si chiede perché tutto le sembri catastrofico, perché sia sempre con il fiato sospeso, in attesa di qualcosa che le cambi la vita.

Sono sospesi in un’insolita luce dorata, quello strano dilagare del tempo all’inizio dell’estate, quando i pomeriggi si allungano tenendo a distanza il crepuscolo.

A. M. Homes

venerdì 27 aprile 2012

Launch yourself

I've been trying, fixing the problem
You pressed the button
To launch yourself while I was outside

I heard a spark ignite
I saw a ball of light
I watched you lifting off
There could be no mistake
My hope and faith misplaced
I saw you lighting off

You pressed the button
To launch yourself , while I was outside
You left me standing
While you broke through the atmosphere

I guess you thought you'd start
A new clean sheet and heart
From when you lifted off
I watched you disappear
A ringing in my ear
From when you lifted off

You pressed the button
To launch yourself while I was outside
You left me stranded
While you broke through to other worlds

You left me stranded
While you broke through to other worlds
You pressed the button
To launch yourself while I was outside
You left me stranded
You launched yourself while I was outside
You pressed the button
To launch yourself while I was outside
You left me stranded
You launched yourself while I was outside

Performed by Adem

mercoledì 25 aprile 2012

Super

Ci sono strani periodi durante i quali può capitare che escano due film molto simili, per quanto riguarda la trama o lo spunto, e che solo uno dei due venga preso in considerazione delle persone, lasciando inevitabilmente l’altro ad invecchiare in un angolo buio chiamato dimenticatoio. Questa è la sorte di Super che vede nel ben più patinato (ma non troppo) Kick Ass la sua controparte più famosa e più conosciuta. Le due pellicole hanno in comune un protagonista “normale” che decide di trasformarsi in supereroe, per diverse ragioni, e dopo una prima fase di esaltazione durante la quale tutto gli viene facile arriva a dovere affrontare cattivi “veri”. Alla fine tutto quanto si risolverà, anche se non senza difficoltà o sofferenza. Cos’è quindi che differenzia i due film? Come mai uno (Kick Ass) ha avuto fortuna con il pubblico e l’altro (Super) ne ha avuta meno? È difficile rispondere, almeno alla seconda domanda, anche perché Super possiede un cast davvero super, almeno nei nomi: Rainn Wilson, Liv Tyler, Ellen Page, Kevin Bacon. Forse paga un po’ la vena leggermente religiosa, giusto un accenno, e alcuni punti dove perde un po’ aderenza con il terreno, tipo la fine del poliziotto. Per il resto Super è un film che si lascia vedere, con alcune parti leggermente violenti e crude, magari non adatte a un pubblico giovanissimo (ma anche Kick Ass non è tutto rosa e fiorellini), e quando inizi a pensare che il personaggio di Rainn Wilson sia un po’ strano, arriva una Ellen Page sopra le righe che ti fa capire cosa significa essere completamente pazzi ed esaltati.

lunedì 23 aprile 2012

La vita dopo un suicidio

"Prima che David morisse stavo lavorando ad alcune macchine con un bambino di cinque anni, il figlio di un amico che aveva una galleria nella stessa strada della mia". Una di queste serviva a ricreare un maiale a partire dalla pancetta, mentre un'altra era il prototipo di un'ingegnosa macchina per snocciolare datteri. Il giorno in cui suo marito si è impiccato, Karen Green stava lavorando a una "macchina politica", che prevedeva, tra le altre cose, un colorato tendone da circo, con elefanti e asini. Dopo, racconta, per molto tempo non è più riuscita a creare nulla, e si è chiesta se ne sarebbe mai più stata in grado, ma con il tempo, in via del tutto sperimentale, ha cominciato a sviluppare l'idea per un congegno della riconciliazione. "La macchina del perdono era lunga circa due metri. Pesava da morire". L'idea era la seguente: scrivevi la cosa che volevi perdonare, o per la quale volevi essere perdonato, e un aspiratore risucchiava il foglietto da un'estremità, per poi restituirlo dall'altra fatto a brandelli. Oplà. Green ha esposto la macchina in una galleria di Pasadena, vicino a Claremont, il sobborgo di Los Angeles in cui lei e Wallace sono vissuti durante i quattro anni del matrimonio. Era affascinata dall'effetto che aveva sulle persone che la utilizzavano. "Era strano", accenna. "Lì per lì sembravano divertite, ma quando arrivava il momento di introdurre il messaggio diventavano ansiose. Come a dire: "E se poi funziona, e devo davvero perdonare quei mostri dei miei genitori?"". Lei, alla fine, la macchina non l'ha mai usata, se non per inserirvi qualche messaggio di prova. "Temevo non riuscisse a funzionare nemmeno per le quattro ore dell'inaugurazione. Me la facevo anche un po' sotto all'idea di dover affrontare l'inaugurazione in sé. Vedere gente, parlare. Non un po', tantissimo. Credevo di non farcela". Nemmeno la macchina ha retto: non riuscendo a elaborare tutte le richieste, alla fine è stata smantellata. "Perdonare non è mai semplice come vorremmo", osserva. "Mi dicono che un sacco di persone hanno pianto". Nel suo studio, oggi, Kareen Green ci ripensa sorridendo, con tutta la stanchezza di chi negli ultimi tempi ha pianto più di quanto si dovrebbe fare in una vita intera. È energica e vitale, si sforza di ridere, azzarda persino, parlando degli ultimi due anni e mezzo, qualche freddura, nel tentativo di distrarsi da quella che sarebbe l'alternativa. I suoi occhi raccontano una storia diversa. "Non so se i genitori di David provino rabbia nei suoi confronti. Ma ho parlato con altre persone che hanno perso nello stesso modo un marito, una moglie, un padre o una madre, e la rabbia è un sentimento perfettamente legittimo: ecco perché la macchina del perdono". Se per Green il marchingegno non ha potuto compiere la sua artigianale magia, quantomeno è riuscito a riportarla nel suo studio, da dove sta cercando di affrontare (o di proteggersi) la realtà della sua vita. "Il giorno prima fai parte di una coppia, vivi nella tua casetta e ti riguardi il cofanetto di The Wire per la terza volta con i cani che giocano intorno, e quello dopo di colpo sei la vedova del grande scrittore. Non la vivevamo così, quando David c'era ancora. Io, con lui, avevo la sensazione di essere sposata a un gentile maestro delle elementari. Tutto il resto l'ho ignorato per molto tempo. Fino a oggi, in realtà". "Oggi" significa anche sapere che il romanzo incompiuto di Wallace, The Pale King, sta per essere pubblicato in pompa magna in tutto il mondo. The Pale King era la "cosa grossa" a cui Wallace aveva lavorato nell'ultimo decennio della sua vita (lo scrittore è morto a 46 anni). Nelle intenzioni, avrebbe dovuto essere l'attesissimo seguito di Infinite Jest, l'affollato capolavoro di oltre mille pagine dalla cupa ironia, grazie al quale Wallace si è affermato come il più credibile candidato a ridefinire la portata e la voce del romanzo americano. Ero venuto in California per incontrare Green dopo aver corrisposto con lei per un po' di tempo via email. Si era perlopiù parlato del suo lavoro di artista, che a me sembrava esprimere in modo profondo e crudo gli estremi del dolore e del lutto. Alcuni dei suoi lavori più recenti sono appesi alle pareti dello studio: paesaggi ad acquarello sbiaditi fin quasi al candore, sui quali ha scritto, in una stratificazione di fogli di carta di riso, minuziose righe e colonne di parole. Parole che provengono, mi spiega mentre tento di decifrarle, da lettere d'amore e d'odio, immaginarie sedute dallo psichiatra, frammenti di scrittura di Wallace e dei diari della stessa Green, passaggi dei Dolori del giovane Werther di Goethe, estratti di referti ospedalieri dalla lingua asettica. Inciampano gli uni negli altri, in uno smarrimento di senso continuo. A questa serie di dipinti lavora in genere di mattina presto. Le sere sono più difficili. Green è sempre andata a caccia di vecchie lettere nei mercatini dell'antiquariato, piccoli resti di billet-doux e atti di proprietà, vaghe tracce di speranze umane dimenticate trascritte in bella grafia, inchiostri scoloriti fino a toni di bruno e grigio. Ora, dice, "ho materiale mio in abbondanza". Su un paio di dipinti ha applicato piccole porzioni chiare di risonanze magnetiche cerebrali, sezioni di lobi frontali e cervelletti che trasfigurano in volti spettrali. L'anno prima che Wallace morisse - quando, dopo un cambio di medicinali, la depressione di cui aveva sofferto fin da ragazzo si era ripresentata più violenta che mai - Green era diventata un'esperta nel linguaggio diagrammatico dei referti psichiatrici: "Quello è il cervello di una persona depressa", dice accennando a una serie di macchie in Technicolor. "Funziona secondo un codice diverso". Green respinge l'idea che il suicidio sia in alcun modo un atto significativo, e meno ancora comprensibile in termini artistici - il mito della depressione romantica - come tanti, fra i tantissimi che si sono espressi sulla morte di Wallace assimilandola a quella di Kurt Cobain, hanno talvolta voluto intendere. "È stato un giorno tra i tanti della sua vita, e uno tra i tanti della mia. Più complesso, per me, è lo stress post-traumatico che deriva dal trovare una persona che ami in quelle condizioni. È una cosa concreta. Un cambiamento reale che avviene nel cervello, a livello cellulare, pare. Mi dicono che avrei dovuto essere preparata, per via dei trascorsi di David con la depressione. Ma ovviamente non lo ero affatto. Mai, mai lo avrei lasciato in casa da solo, se avessi pensato che potesse succedere una cosa del genere". L'appropriazione estremamente pubblica che si è fatta di quel definitivo gesto privato ha reso molto più difficile elaborarlo. Lui era ovunque. Ancora oggi Green si tiene alla larga da Google: "Cos'altro puoi fare, quando il referto dell'autopsia di tuo marito è su internet e la gente ritiene di doverlo trasformare in un cazzo di argomento di critica letteraria?". Se adesso si sta lasciando intervistare, dice, è in parte perché sente il dovere di sostenere la pubblicazione di The Pale King, e in parte perché ha la sensazione che raccontare la sua esperienza possa essere d'aiuto ad altri che, come lei, sono stati abbandonati e costretti a convivere con la realtà deformata del suicidio. Su molti aspetti della morte di suo marito non ha certezze, ma di una cosa è sicura, ed è la prima che le chiedo: Wallace avrebbe voluto che The Pale King fosse pubblicato, anche nella sua forma incompiuta. "Gli appunti che aveva preso per il libro e i capitoli già completati erano impilati ordinatamente sulla scrivania del garage dove lavorava. E sopra c'erano le sue lampade, a illuminarli. Per cui non ho il minimo dubbio sul fatto che lo desiderasse. David non aveva mai lasciato nulla in così perfetto ordine". Nello shock immediato del dolore, Green e la storica agente di Wallace, Bonnie Nadell, hanno passato al vaglio qualunque altro suo scritto che sembrasse in linea con il romanzo. Tutto il materiale - dischi rigidi, file, bloc notes, floppy disk - è stato consegnato a Michael Pietsch, amico ed editor dello scrittore presso la casa editrice americana Little Brown, che se l'è portato via in due borsoni e due sacchi rigonfi. "So che voleva lo curasse lui", dice Green. "E se lei avesse visto quelle altre pagine capirebbe che l'esistenza di questo libro nel mondo è una specie di miracolo". The Pale King parla della noia, e dei modi in cui un gruppo di giovani americani tenta di mitigarne gli effetti per sopravvivere al proprio lavoro (come scrittore, Wallace non si è mai tirato indietro davanti alle sfide). È ambientato perlopiù negli uffici dell'agenzia delle entrate a Peoria, Illinois. Conoscendone la sostanza, e sapendo che Wallace aveva cominciato a scriverlo prima di conoscerla, Green si era chiesta se il libro avrebbe parlato anche dei cambiamenti che la loro relazione aveva portato nella vita dello scrittore, cosa che però non ha trovato. "Ero curiosa di sapere come avrebbe trattato la noia nel matrimonio", dice con un sorriso. "Dopo quattro anni, aveva davvero cominciato a capire come funziona. Diceva: "Quando mi hai detto che stavi tornando a casa, mi sono ricordato di metterti su l'acqua per il tè", cose così. Selvatico com'era, andava fiero di essersi fatto addomesticare". La critica più comunemente rivolta all'opera di Wallace è che, pur pirotecnica come nessun'altra, manchi di cuore. Che sia letteratura per giovani maschi vittime della loro stessa intelligenza, scritta da un maschio non più giovanissimo e molto, troppo vittima della sua. Quando chiedo a Green se Wallace sia sempre riuscito a far affiorare il meglio di sé nella scrittura, lei riflette. "Dipende da cosa si intende per "meglio di sé"", dice infine. "Ma io credo di no. La voce dello scrittore assumeva una vita propria, che sono convinta lui avvertisse come un forte limite. Penso che parte della sua fatica fosse legata al tentativo di modificare questa voce. L'intelligenza, specie per una persona intelligente come David, è la cosa più difficile a cui rinunciare. È come ritrovarsi nudi, o come sposarsi rispetto all'avere storie di una notte. Le persone non vogliono passare per sentimentali. Gli scrittori di sicuro no". In proposito, Green e Wallace portavano avanti da tempo uno scherzoso diverbio, sul fatto che lo scrittore dovesse o meno permettere alla sua "parte stupida" di filtrare nella prosa. "Io pensavo che quella parte, ogni tanto, dovesse essere lasciata libera di esprimersi", ricorda lei. "Era meravigliosa. Gli dicevo che a volte, quando un testo o un'opera d'arte è troppo intelligente, perde la capacità di stabilire un contatto. È evidente che David stesse facendo qualche tentativo in quel senso, e sono quelle le parti del libro che ho amato di più". A far conoscere Karen Green e David Foster Wallace è stata l'attività artistica di lei. "Mi sono imbattuta per caso nel suo libro Brevi interviste con uomini schifosi, trovato in un negozietto dell'usato a un dollaro", racconta. "All'epoca lavoravo a opere in cui prendevo testi scritti da qualcun altro, li scomponevo in riquadri e li trasformavo in qualcos'altro. In quel libro ho letto il racconto La persona depressa, e mi è venuta voglia di usarlo per una di quelle opere". Via fax, scrisse a Wallace per sapere se l'idea gli andava. Lui, sempre via fax, rispose di no, approfittandone per correggerle la grammatica. Terminata l'opera, Green la portò a Los Angeles per mostrargliela. "Gli piacque il fatto che una sconosciuta avesse deciso di editarlo, credo. Fu gentilissimo. Io mi ero davvero ammazzata, tentando di cavare dalle sue parole una serie di haiku. Le avevo rielaborate in forma di denti, trentadue denti disposti a reticolo. Una faticaccia". In seguito, racconta, "per un po' siamo stati amici, dopodiché siamo diventati molto amici". Capì che era amore quando Wallace, all'inizio della relazione, accettò di andare con lei alle Hawaii. Le Hawaii incarnavano due fra tante fobie: il viaggio in aereo e l'eventualità di ritrovarsi a nuotare in mezzo agli squali. Quando Green entrava in acqua, Wallace di solito se ne stava sulla battigia a gridarle dati statistici sulle aggressioni agli esseri umani da parte di squali. Nel 2004 si sposarono a Urbana, cittadina natale dello scrittore nell'Illinois, alla presenza dei genitori di lui e del figlio, già grande, avuto da un matrimonio precedente di lei. Wallace aveva nel frattempo accettato un posto da docente di scrittura creativa presso il Pomona College di Claremont, in California. Scelsero un ranch nei dintorni e vi andarono a vivere. Dietro la casa in cui Green vive oggi scorre un fiume, costeggiato da vecchie fattorie, macchinari industriali e capannoni. Un tempo, Petaluma era il principale centro di produzione di uova della California. Andiamo a fare due passi lì, e lei mi mostra alcuni dei posti che ha dipinto nei suoi acquarelli. Non sa perché sia finita qui, dopo l'accaduto, ma aveva bisogno di andarsene da Claremont. Piano piano si sta facendo degli amici. Nel 2007 lo scrittore assumeva lo stesso farmaco, il Nardil, da 20 anni. Era convinto che quelle pillole stessero cominciando ad avere brutti effetti collaterali. Faticava a mangiare, ma riteneva anche che il farmaco stesse intralciando la scrittura. Su consiglio di un medico, smise di prendere il Nardil. Nel giro di poco tempo diventò estremamente instabile. Disperato, Wallace ricorse alla terapia elettroconvulsivante, l'elettroshock, che intorno ai vent'anni l'aveva aiutato a superare le crisi peggiori. Green rimase al suo fianco per tutti i mesi della terapia, arrivando a non uscire di casa anche per nove giorni di fila. "È stato terribile", ricorda. "Credo che il suo panico all'idea che non funzionasse ne abbia in un certo senso vanificato gli effetti". Uno dei tanti timori di Green riguardo la pubblicazione di The Pale King è che venga interpretato come la lunga lettera d'addio di un suicida, una specie di spiegazione del finale che Wallace ha deciso di darsi. A un certo punto, durante la nostra conversazione, le chiedo se ha mai pensato che la malattia e la scrittura provenissero dalla stessa fonte, che l'una non si potesse avere senza l'altra. "Io non credo", risponde lei, che pure riceve le email di lettori ostinatamente affezionati al mito del genio tormentato. "La gente non si rende conto di quant'era malato. Era un mostro che lo divorava per intero. E a quel punto tutto il resto passava in secondo piano, rispetto alla malattia. Non soltanto la scrittura. Tutto: il cibo, l'amore, la casa...". In un passaggio che viene spesso citato nei coccodrilli dei giornali, Wallace una volta disse che avrebbe cercato di "comunicare come ci si sente a essere umani, o che sarebbe morto nel tentativo di farlo". La scrittura, l'arte, possono valere più della vita? Così da vicino, la risposta è certamente no. Il giorno dopo, spedisco via email a Green un paio di domande allo scopo di chiarire alcune dichiarazioni. Mi risponde subito, e con quella che immagino voglia considerare la sua ultima parola al riguardo: "L'opera di David è qualcosa di straordinario, che va giustamenhttp://www.blogger.com/img/blank.gifte celebrato, ma non per me. La sua morte la rende emotivamente più intensa? Sì. Ritengo che, se fosse sopravvissuto, avrebbe potuto stabilire lui la misura di quest'intensità? Sì. Ecco perché io non posso "celebrarla"". La mail si chiude su un ricordo del loro primo incontro, la speranza di altri destini. "Il fatto è che io, un finale diverso (per lui, per me) ce l'avrei ancora: quello in cui riesce a controllare la sua maledettissima intensità, e mi dà anche il bacio della buonanotte".

di Tim Adams (Traduzione di Matteo Colombo)

trovati qui: http://d.repubblica.it/dmemory/2011/05/07/attualita/attualita/088sui74188.html

venerdì 20 aprile 2012

These lights are meaningful

I know that I've not been the same
Since the day we walked around and marveled at the firmament
Both wrapped up in a blanket that was handed down
And it struck me like a meteor, oh
And it's hard to explain
So it's hard to explain how I'm so sure

These lights are meaningful
We've got to understand
And work out what they say
These lights are meaningful
They'll tell what we forgot
We have a mission here
These lights are meaningful
We must translate them now
Else we'll just roll around
We have a reason here
Something beyond ourselves
These lights are meaningful

I needed purpose, I was given one
To find the reasons for life etched between the distant suns
And the zodiac in blues, to the wealth of all the ones we knew
Join silver dots set against the midnight blue, oh
And it's hard to explain
So it's hard to explain how I'm so sure

These lights are meaningful
We've have forgot ourselves
We drift on oblivious
These lights are meaningful
Our message write out large
Lest we forget ourselves
These lights are meaningful
This is our final chance
We had a mission here once
They're not just pretty sparks
They're more than tiny stars
These lights are meaningful
We have a reason here
We must resolve ourselves
These lights are meaningful

Maybe I got it wrong
Maybe I'm just alone
Anything to feel alive
Take my hand and take me home
Make me feel like I'm not alone
It's what I need

Performed by Adem

mercoledì 18 aprile 2012

One day


One day, tratto dal romanzo omonimo di David Nicholls ruota tutto quanto attorno appunto a un giorno, quello durante il quale i due protagonisti si incontrano per la prima volta (o almeno, la prima volta che lui si ricorda, in quanto i due a sentire i racconti di lei si erano già visti e lui l’aveva scambiata per un’altra). La loro storia pare vivere solo durante quel singolo giorno, nel quale i due si incontrano, si scontrano, litigano, si riappacificano e si allontanano per poi ritrovarsi.
Niente di nuovo sotto il sole, anzi. A tratti si ha pure l’impressione che tutto quanto sia proprio troppo tirato via, come per esempio nell’incontro parigino, dovuto soprattutto a questa cadenza temporale che non aiuta ad approfondire i personaggi e a delinearne le vicende che portano alle loro azioni. Non so se questo sia un difetto che la pellicola si porta dietro dal libro (non l’ho letto e non credo che lo leggerò, almeno non a breve termine), ma se anche fosse non sarebbe certo una scusante: può avere origine da qualsiasi luogo (libro o sceneggiatura) ma pur sempre un difetto rimane.
La sensazione che si ha arrivati alla fine è di un film che gira su se stesso a vuoto, senza uno scopo preciso o un motivo valido, dove il passare del tempo si manifesta in modo diverso a seconda del sesso: lui, anno dopo anno, invecchia con capelli grigi e poi bianchi, rughe attorno agli occhi, mentre lei invece invecchia soltanto accorciando la lunghezza dei capelli, tant’è che Anne Hathaway parte un po’ racchia e finisce assai più bella. In più, l’unico a cambiare è il protagonista maschile (e meno male, visto che all’inizio risulta proprio odioso al massimo esponente possibile e immaginabile) mentre lei resta tale e quale nonostante non solo il passare del tempo ma anche le diverse fortune e sfortune.
Un film romantico. Triste, ma non proprio eccelso.

lunedì 16 aprile 2012

Come diventare se stessi

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L’aria ha quel grigiume da lavagna cancellata di quando si prepara un temporale.

Il suicidio è una fine potentissima: si ripercuote all’indietro e rende confuso l’inizio. Ha una sua forza di gravità sugli eventi. Alla fine, ogni ricordo e ogni impressione viene trascinato in quella direzione lì.

La domanda peggiore che si potesse fare a David nell’ultimo anno era: “Come stai?” Ma è quasi impossibile parlare con qualcuno che non vedi regolarmente senza fargli quella domanda. Lui era molto onesto. Rispondeva: “Non sto bene. Ci sto provando a stare bene, ma non sto bene.”

I libri sono un sostituto dell’interazione sociale: gli autori che leggiamo sono persone che, a un certo livello, ci piacerebbe frequentare. I capitoli, le pagine ,i racconti, gli articoli sono il miglior surrogato.

Quello su cui si trovarono d’accordo – dietro suggerimento iniziale di Dave – fu che lo scopo dei libri era combattere la solitudine.

L’equazione di Henry Ford sui viaggi on the road: due uomini entrano sempre in confidenza se devono percorrere insieme una distanza superiore ai sessanta chilometri.

Be’, penso che essere timidi significhi sostanzialmente essere talmente concentrati su se stessi che diventa difficile stare in compagnia della gente. Per esempio, se passo del tempo con te, non riesco a capire se mi stai simpatico o antipatico, perché sono troppo occupato a chiedermi se io sto simpatico a te. È stressante e odioso, tutto quello che vuoi. Ma io ho in me degli elementi di questo tipo di timidezza.
Eppure, allo stesso tempo… Insomma, è un po’ come essere cleptomani e agorafobici. Allo stesso tempo, credo che per gran parte della gente che – ma interrompimi se non sei d’accordo, eh, perché sto parlando con uno del mestiere – credo che per chi scrive, parte della motivazione stia nel fatto di imporre se stesso e la propria coscienza agli altri. C’è un’arroganza incredibile anche solo nel provare a scrivere qualcosa; figuriamoci nell’aspettarsi che qualcuno paghi dei soldi per leggere quello che hai scritto. Quindi alla fine ti ritrovi a, mmh… Ecco, secondo me gli esibizionisti che non sono timidi si ritrovano a salire su un palco. Finiscono per fare il proprio mestiere alla presenza diretta di altra gente.

Certo, esiste una forma di insicurezza utile. Ma poi c’è l’insicurezza nociva, paralizzante, come una banda di beduini che ti stupra la psiche.

Ma insomma, dicevo, secondo me c’è un altro pericolo, e cioè che se uno riceve valanghe di apprezzamenti per il primo libro, poi gli verrà molto difficile scrivere qualcos’altro. Cioè, ci sarà una parte di te che vorrà scrivere a ripetizione quella stessa cosa, per continuare a ricevere le mollichine di elogio. Ed ecco l’ennesima ragione per cui tutto questo è nocivo.

A me sembra che la vita sia simile a una luce stroboscopica, e che mi bombardi di input. E gran parte del mio lavoro consiste nell’imporre a tutto questo un certo ordine, trovarci un senso. Mentre il modo in cui… forse sono molto ingenuo, ma immagino Lev che si alza al mattino, si infila un paio di scarponi fatti in casa, esce a fare due chiacchiere con i servi che ha liberato, e così via. Si siede nella sua stanza silenziosa, affacciata su dei giardini molto ben tenuti, tira fuori la penna d’oca e… nella più profonda tranquillità, comincia a ricordare delle emozioni.
E non so come la vedi tu, ma per quanto mi riguarda… quel tipo di letteratura mi piace leggerla, ma non mi sembra per niente vera. la leggo per trovare sollievo da ciò che è vero. La leggo per trovare sollievo dal fatto che, per dire, oggi ho ricevuto cinquecentomila informazioni distinte, delle quali forse venticinque sono importanti. E come faccio a distinguere quali? Mi spiego?

La normalità non si può coltivare, così come, e lo sottolinea lo stesso David nei suoi libri, non si può provare a essere sinceri. O si è sinceri, o no: ma dev’essere qualcosa che si fa spontaneamente.

E penso che le persone come me e te siano fortunate sul serio se nella vita ottengono un po’ di successo quasi subito, e riescono a capire quasi subito che quel successo non ha nessun valore. Il che equivale a dire che riescono a mettersi quasi subito a riflettere su cosa invece abbia valore.

Non sto dicendo che nell’intrattenimento ci sia qualcosa di sinistro, di orribile o di sbagliato. Sto dicendo che è… sto dicendo che è un continuum con diversi livelli. E se il libro ha un argomento, l’argomento è questa domanda: perché guardo così tanta merda? Il problema non è la merda in sé; sono io. Perché lo faccio?

È questo il problema: che l’intrattenimento rientra nel continuum della dipendenza. E per adesso ancora ci salviamo, perché la qualità non è altissima.
Ma se ci fai caso… se guardo la tv per cinque o sei… se mi alieno davanti alla tv per cinque o sei ore, poi mi sento depresso e vuoto. Mi domando perché. Mentre se mangio caramelle per cinque o sei ore, e poi mi sento male, il motivo lo so.

Avrò come al solito quella sensazione tremenda di quando ti senti battere forte il cuore e ti sembra che lo sentano anche tutti gli altri.

Guarda, io personalmente ho il sospetto che per le domande veramente profonde non ci siano risposte, perché le risposte sono individuali, capisci?

La cosa che mi fa paura è che, quando arriveremo noi al potere, quando saremo noi quelli di quarantacinque, cinquant’anni, non ci sarà nessuno… nessuno più anziano… non ci saranno persone più anziane di noi che si ricorderanno la Grande Depressione, o la guerra, persone che hanno alle spalle sacrifici considerevoli. E non ci sarà più nessun limite ai nostri, come dire, appetiti. e anche alla nostra smania di sperperare le cose. E mi rendo conto… lo ripeto, sto parlando da privato cittadino, non conosco nessun’altra generazione, sto parlando di una specie di sensazione che provo a livello profondo, viscerale…

Il trucco, quando si scrive roba del genere, è farla risultare sincera, ma anche molto più interessante. Perché la maggior parte dei nostri pensieri non sono poi tanto interessanti. Perlopiù sono soltanto confusi.

Be’, per quanto mi riguarda, come maschio americano, il volto che do a quel terrore è la nascente consapevolezza che nulla è mai abbastanza, mi spiego? Che il piacere non p mai abbastanza, che ogni traguardo raggiunto non è mai abbastanza. Che c’è una sorta di strana insoddisfazione, di vuoto, al cuore del proprio essere, che non si può colmare con qualcosa di esterno. Secondo me funziona così da sempre, fin da quando gli uomini primitivi si picchiavano con le clave. Anche se si può descrivere in mille parole e in mille gerghi culturali diversi. E la sfida che ci si prospetta, in particolare, sta nel fatto che non c’è mai stata così tanta roba, e di qualità tanto alta, proveniente dall’esterno, che sembra tappare provvisoriamente quel buco, o nasconderlo.

David Lipsky - David Foster Wallace

venerdì 13 aprile 2012

Let Me Drown

Stretch the bones over my skin
Stretch the skin over my head
I'm going to the holy land
Stretch the marks over my eyes
Burn the candles deep inside
Yeah you know where I'm coming from

Give up to greed, you don't have to feed me
Give up to fate, you don't have to need me
So let it go, let it go, won't you let it
Drown me in you, drown me in you, drown me in you

Slip down the darkness to the mouth
Damn the water burn the wine
I'm going home for the very last time

So throw it away, you don't have to take me
Make no mistakes I'm what you make me
So let it go, let it go, won't you let it
Drown me in you, drown me in you, drown me in you

I see you turn around and burning down
The feeling starts to sink
I feel the hurt surround me
Please dissolve me
She's resolved to be

Heal my wounds without a trace
Seal my tomb without my face
I'm going to the lonely place

Give up to greed, you don't have to feed me
Give up to fate, you don't have to need me
So let it go, let it go, won't you let it
Drown me in you, drown me in you, drown me in you

Performed by Soundgarden

mercoledì 11 aprile 2012

Real steel


Ogni generazione ha un film del genere, almeno per quanto riguarda l’ossatura della trama. Un padre molto assente, per motivi che possono variare, si riconcilia con il figlio in un momento critico, che può variare anch’esso. All’inizio i due non vanno d’accordo ma con il passare del tempo e grazie anche all’attività o hobby del padre i due si avvicinano e ristabiliscono un rapporto che, solitamente nell’ultima scena della pellicola, porterà il figlio a chiamare papà il genitore.
Real Steel non fa differenza, se non per adattare questo plot all’attuale sistema cinematografico che vuole a tutti i costi l’ostentazione degli effetti speciali. Per questo l’attività del babbo Hugh Jackman diventa il manipolatore (quale altro termino potrebbe essere corretto?) di giganteschi robot che hanno sostituito gli uomini negli incontri di boxe. La carriera non va certo a gonfie vele, ma alla fine riuscirà, grazie anche all’aiuto del figlio, a combattere per il titolo contro il campione imbattibile di turno.
La trama ricorda più di un film e non è un caso che sia proprio la boxe lo sport/lavoro del protagonista. Il film è un incrocio di due film di Stallone: Rocky, ovviamente, e il meno famoso Over the top. All’epoca noi, ragazzi della mia generazione, passavamo gli intervalli scolastici a giocare a braccio di ferro, i ragazzi di oggi dopo aver visto questo film cosa faranno?

lunedì 9 aprile 2012

Un uomo sulla soglia

Quando infine cala il silenzio, ci rialziamo e marciamo per dare l’assalto al punto zero. Mille uomini, i rilevatori di radiazioni arrossiti e scarlatti, come ragazze che sono appena state baciate.

Aveva cercato di spiegarlo ad Anna dopo aver riscoperto, con il tempo, il significato del verbo dimenticare; non somigliava all’amputazione di un arto, che lascia nel cervello il formicolio di un dito fantasma. Era un annientamento completo, l’eliminazione della memoria e della sua eco, ed era proprio questo che Anna non riusciva a capire, la mancanza di rimpianti. Ma com’è possibile rimpiangere ciò che per la mente non è mai esistito? Persino ricorrere al concetto di perdita risultava inadeguato, perché cos’è la perdita senza la consapevolezza di quanto si è perduto?

Capitava che certi malati ricordassero il passato più lontano, le spiegarono. Come se le tracce dei primi anni di vita fossero così cruciali da doverne affidare la protezione a un’altra facoltà della mente, in grado di preservarle intatte anche quando tuto il resto della memoria veniva distrutto da un trauma cerebrale. Sembrava proprio questo il caso di Samson, i cui ricordi successivi ai dodici anni d’età sbiadivano nel futuro, simili a orme che si perdono in lontananza.

“Me la cavovo bene a letto?”
La domanda sorprese entrambi. Lei schiuse le labbra in uno strano sorriso e sollevò il mento. Da vicino, i contorni del suo volto persero nitidezza e la bocca era calda e sapeva di arance.

“Sai, a volte penso che siamo solo un insieme di abitudini” aveva aggiunto Anna. “I gesti che ripetiamo di continuo non esprimono altro che il nostro bisogno di essere riconosciuti.” Teneva gli occhi fissi sul televisore, come se stesse leggendo dei sottotitoli. “Voglio dire, senza quei gesti perderemmo la nostra identità. Saremmo costretti a reinventarci ogni minuto.”

C’era qualcosa di affascinante nello sconcerto che manifestava di fronte agli interventi altrui quando era tutto preso da un discorso. Come se la capacità di conversare non fosse una dote innata, ma un’abilità che aveva imparato a imitare faticosamente, alla strega di una scimmia in cattività addestrata a esprimersi a gesti e a dispensare abbracci, senza per questo riuscire a superare le proprie indecisioni.

Samson desiderava un segno che gli dimostrasse di essere speciale per lei e non solo un’altra persona capitata incautamente nella sua vita, vittima del suo fascino.

“Se l’hai amata una volta puoi amarla ancora.”
“Non è così semplice.”
“Non lo è mai.”

“Mi sono sentito solo dal momento in cui sono venuto al mondo, da quando riesco a ricordare, fin dall’infanzia. A volte trovarsi in mezzo alla gente peggiora la situazione.”
“Davvero? Perché invece sembrerebbe…” Ray lo fissò, in attesa. “E sua moglie? Non mi aveva detto di essere stato sposato?”
“Da giovani ci si illude di risolvere il problema con l’amore. Ma non succede mai. Essere vicino, il più vicino possibile, a un’altra persona serve solo a sottolineare la distanza invalicabile che ci separa dagli altri.”

Samson riappoggiò il fermacarte sulla scrivania e guardò Ray. “Non lo so. Se innamorarsi rende la nostra solitudine ancora più profonda, perché tutti lo disideriamo tanto?”
“Per via delle illusioni che suscita in noi. L’amore è inebriante e per un breve periodo ci induce a credere che siamo davvero una cosa sola con il nostro partner. La fusione delle anime e così via. Siamo convinti che non ci sentiremo mai più soli. Però non dura e presto ci rendiamo conto di poterci avvicinare a un’altra persona solo fino a un certo punto e non oltre: finiamo vittime di un brutale disinganno e ci ritroviamo più soli che mai, perché i sogni e le speranze cui ci eravamo aggrappati per tanti anni si sono infranti miseramente.”

La lezione con la quale gli aveva insegnato a toccare e percepire le diverse realtà del mondo, a impararne l’aspetto e il nome, e poi a sentirne la presenza persino a occhi chiusi, in modo da saperle riconoscere anche una volta svanite, dalla forma della loro assenza. In modo da poter continuare a possedere la perdita, perché è l’assenza l’unica entità costante.

“Che ci facevi in India?”
“Mm? Oh, sa com’è, cosa si fa di solito in India? Si frequentano gli ashram, si leggono le Upanishad. Si cerca di rintracciare un guru che secondo qualcuno è proprio quello giusto. Si va in giro per i ghat di Varanasi, sulle rive del Gange, a vedere le cremazioni. A respirare il profumo del legno di sandalo e l’odore della carne umana bruciata. Lei l’ha mai sentito?”

La madre di Pip, che passava i suoi gironi in una camera con le tende tirate a metà a fumare sigarette e bere bibite dietetiche, a rimpiangere tante cose, tra cui quella bambina di sei anni battezzata Patricia che era entrata così trionfalmente nel mondo dei bicchieri da cocktail sotto l’allegro nome di Pip.

L’infelicità degli altri è solo un concetto astratto. Poiché è impossibile comprendere e sentire in se stessi il dolore altrui senza metterlo in relazione con il proprio.

A volte un’immagine del passato dura più a lungo di ogni altra, anche se nessuno può sapere in anticipo quale sarà.

Voglio dire, in quante persone differenti ci si può trasformare nel corso di un’esistenza? La vita non è poi così lunga, vero, Max?

Esiste forse un sapere esente dal rischio di generare nuove idiozie, di innescare mali peggiori? si domandava. E se avessimo permesso a certe paure di fermarci, dove saremmo adesso? La conoscenza umana progredisce in ogni caso, trascinata dal suo stesso slancio irrefrenabile. Se non si tu a cavalcare la cresta dell’onda, sarò qualcun altro a prendere il tuo posto.

Una coppia con anni di dialogo alle spalle, per cui una singola parola alludeva a vasti temi, e la minima variazione di tono bastava a comunicare impercettibili cambiamenti d’umore.

Più tardi nel pomeriggio eravamo a letto. Avevamo appena fatto l’amore e lui mi aveva toccata come se si fosse ricordato all’improvviso che esistevo e non riuscisse a saziarsi di me. Mi guardava in un modo, con gli occhi più azzurri che mai: ricordo di aver pensato che gli avrei perdonato qualsiasi cosa. Dopo, rimanemmo sotto le lenzuola. Lui mi teneva tra le braccia, il viso girato verso la finestra: non ci fu bisogno di sottolineare che quel momento possedeva il peso indelebile della bellezza.

Nicole Krauss

venerdì 6 aprile 2012

Prophecies and Reversed Memories

You've dreamt this all before
You've sang this song before
You've seen it all before
It was just a little different that's all

You've dreamt this all before
You've sang this song before
You've seen it all before
It was in another world that's all

Long, long, long, long ago
Long, long, long, long ago

You've dreamt this all before
You've sang this song before
You've seen it all before
It was in another world that's all

(Prophecies of memories of prophecies my love)

You've dreamt this all before
You've dreamt this all before
You've dreamt this all before
It was in another world that's all

Long, long, long, long ago
Long, long, long, long ago

(Prophecies of memories of prophecies my love)

You've dreamt this all before
You've dreamt this all before
You've dreamt this all before
It was in another world that's all

Long, long, long, long ago
Long, long, long, long ago

Performed by Mum

mercoledì 4 aprile 2012

L'ultimo terrestre


L’ultimo terrestre è di Gianni Pacinotti. Gianni Pacinotti è Gipi. O meglio: Gipi è Gianni Pacinotti. Per il suo esordio al cinema ha scelto il nome vero, forse perché ci si poteva aspettare che il nome Gipi venisse accostato a una pellicola per la sceneggiatura, o per un film tratto da un suo libro. Invece in questo caso il buon pisano si mette pure dietro la macchina da presa, rendendo il suo esordio in campo cinematografico un vero e proprio esordio, e non solo un semplice accostamento di nome. Per la storia però non si affida a una delle sue, ma ne prende in prestito una da Giacomo Monti: il film è liberamente ispirato alla graphic novel “Nessuno mi farà del male”, di (appunto). I personaggi però sembrano essere proprio usciti dalla penna di Gipi, non tanto per i comportamenti (il protagonista solo a tratti) quanto piuttosto proprio nei lineamenti fisici.
Nel film viene presentato un microcosmo nel quale ci si appresta ad accogliere sul più ampio pianeta Terra una specie aliena non meglio definita. Cosa comporta questo macroavvenimento al nostro suddetto microclima? Apparentemente niente da un lato, apparentemente un ribaltamento totale dall’altro. Ma a parte la giusta punizione e il giusto premio per i buoni e i cattivi (in questo caso siamo tutti alieni in quanto non sono solo loro a capire chi sia buono e chi sia cattivo all’interno della storia, dove l’unico tono grigio potrebbe essere visto nel protagonista: è facile giudicare quando l’oggetto del giudizio si trova a uno dei due estremi, ben più difficile quando si trova in una via di mezzo) il fulcro della storia ruota attorno a ben altro che gli alieni. Gli alieni, o l’aliena femmina, è solo un modo per arrivare all’illuminazione. In fondo gli alieni sono solo un modo per vedere le cose sotto un’altra prosepittiva.

lunedì 2 aprile 2012

Marzo 2012


"Per qualche motivo che ignoro, mi piaci moltissimo.
Molto, niente di irragionevole, direi quel poco che basta a far si che di notte, da solo, mi svegli e, non riuscendo a riaddormentarmi, inizi a sognarti."

Franz Kafka