lunedì 30 dicembre 2013

Il padre d'inverno

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Ora lui era lì, in un caldo pomeriggio, a osservare le foglie gialle sparse sul terreno simili alla luce del sole.

Immaginò Robin che verniciava i muri accanto a lui, il rumore delle loro pennellate regolare come il battito dei loro cuori.

Lei gli scriveva lettere d’amore. Non erano profumate, ma avrebbero potuto benissimo esserlo. Nelle pagine di queste lettere lui ritrovava il silenzio dei tardi pomeriggi d’estate, sulla veranda della casa di lei, sentiva lo scricchiolio della catena dell’altalena su cui sedevano sempre, e da dove forse aveva anche scritto. Avvertiva il profumo della sua pelle pulita, dei suoi capelli, e quello del cespuglio di lillà dietro il portico. Leggendo quelle lettere, toccandole, a volte rimanendo a osservare ogni pagina, dopo averle lette, come se si trattasse di fotografie, sentiva di amarla profondamente. Avrebbe potuto piangere. E voleva abbracciarla. Eppure sentiva anche, e con una certa paura, la grande distanza che li separava.

Attendere significa osservare il tempo e, di solito, esserne vinti, mentre in quelle mattine godeva del tempo e si lasciava trasportare da esso.

Era divertente anche la storia di suo zio Johnny, i cui due cani avevano scavalcato il recinto e lo avevano seguito, o inseguito, fino a una stanza da letto a qualche isolato da casa e si erano messi ad abbaiare fuori dalla finestra; una stanza da letto dove lo zio Johnny non avrebbe dovuto trovarsi, anche perché, cosa peggiore, per essere lì aveva lasciato una stanza da letto che invece non avrebbe dovuto lasciare.

Giugno?”
“Non è iniziata allora.” Teneva il viso leggermente abbassato, ma gli occhi erano fissi, e c’era qualcos’altro che brillava in essi: provava vergogna ma non rimorso, e la voce era quella inconfondibile di una donna innamorata. I suoi occhi non erano mai stati così seri, mai così minacciosi e lui si sentì assalire da immagini di Leslie che faceva l’amore con un altro uomo.

Si sbottonò e slacciò la gonna, la lasciò cadere sulla sabbia; si abbassò le mutandine e se le sfilò. Si tolse il maglione e la camicia e, tremante, li lasciò cadere. Poi con le mani cercò la chiusura del reggiseno e lo slacciò. Camminò in mezzo alla sabbia bagnata, verso il margine impetuoso del mare. Attraversò un’onda che si infrangeva, con la sabbia che scorreva sotto i suoi piedi, la corrente che la tirava e la spingeva sempre più lontano; ci si abbandonava, con l’acqua che giungeva fino al suo petto, guardando la luce che veniva dallo strato più leggero del cielo.

Si chiese se avesse l’aspetto di un uomo sopravvissuto a un incidente in cui altri erano rimasti uccisi.

Dobbiamo controllare il nostro piacere nel dare dolore, gli disse.

Se aveva paura, allora ci sarebbe voluto coraggio. E se ci voleva coraggio, allora doveva trattarsi di qualcosa di giusto.

Si chiamava Mary Ann, ma il cognome continuava a passargli di mente. Si occupava di ricerche di mercato, e come molte persone che Peter conosceva, sembrava rifiutare il proprio lavoro, anche se dava l’idea di essere brava nel suo campo. Ciò per cui si sentiva portata era il tempo libero: sciava dappertutto, faceva escursioni, pattinava, andava in tenda, correva e nuotava. Lui cominciò a immaginare di fare quelle cose con lei, e il pensiero gli sembrò più insidioso di immaginare un rapporto fra loro.

Lui e Norma si erano fatti male in modo profondo, e i loro corpi avevano assorbito quel dolore: lo stomaco stringeva, le mani tremavano, il seno si gonfiava e poi si contraeva. Ora, senza la presenza fisica, loro potevano parlare per telefono, anche con calore, forse un residuo di quando i loro corpi erano a proprio agio insieme.

Andre Dubus

lunedì 23 dicembre 2013

Un antidoto contro la solitudine

 
A nessuna domanda veramente interessante si può dare una risposta soddisfacente all’interno delle restrizioni formarli (ad es. la lunghezza di un articolo, la durata di un programma radiofonico, il pubblico decoro) imposte da un’intervista.

Credo che per quelli della mia generazione […] un certo tipo di sgangheratezza […] viene associata non tanto all’ingenuità o alla goffaggine, quanto alla sincerità […] essere genuino e fatto in casa invece che essere […] tale e quale a un prodotto industriale.

“Quando scrivete”, spiega nel dare il suo giudizio su un racconto che parla di una bambina, suo zio e il malocchio, “state raccontando una bugia. È un gioco, ma dovete presentare con precisione i fatti. Il lettore non vuole che gli si ricordi che è tutto finto. Il racconto dev’essere convincente, altrimenti nella testa del lettore non decollerà mai.”

È difficile provare a capire quali esperienze familiari sono universali e quali idiosincratiche.

Una delle cose che voi due scoprirete, una volta usciti dall’università, è che riuscire a vivere davvero come un essere umano, e contemporaneamente a produrre qualcosa di valido, con quel grado di ossessività che è necessario per farlo, è veramente complicato.

C’è qualcosa, quantomeno nei romanzi e nei racconti, che ti permette di entrare in intimità con il mondo, e con un’altra mente, e con certi personaggi, in un modo in cui non puoi proprio farlo nel mondo reale. Io non so cosa stai pensando. Non so molto di te, così come non so molto dei miei genitori, della mia ragazza o di mia sorella, però un brano di letteratura che sia davvero sincero ci permette di entrare in intimità con… non voglio dire che la gente, ma ci permette di entrare in intimità con un mondo che assomiglia al nostro quanto basta, a livello di dettagli emotivi, perché le varie sensazioni che proviamo possano poi reverberarsi anche nel mondo reale.

Per me, il cinquanta per cento delle cose che scrivo sono brutte, punto, e sarà sempre così, e se non son capace di accettarlo vuol dire che non sono tagliato per questo mestiere. Il trucco è capire quali sono i tuoi difetti e fare in modo che il lettore non li veda.

Uno dei miei insegnanti, che stimavo molto, diceva sempre che il compito della buona letteratura è tranquillizzare chi è turbato e turbare chi è tranquillo. Secondo me il compito della letteratura alta consiste in gran parte nel dare al lettore, che come tutti noi è un po’ impantanato dentro la propria testa, nel dargli accesso, dicevo, tramite l’immaginazione, alla vita interiore di altri individui. Dato che una parte ineluttabile dell’essere umano è la sofferenza, ciò che noi esseri umani cerchiamo nell’arte è anche un’esperienza di sofferenza: che sarà necessariamente un’esperienza mediata, o per meglio dire una generalizzazione della sofferenza. Capisci cosa intendo? Nel mondo reale tutti soffriamo da soli; la vera empatia è impossibile. Ma se un’opera letteraria ci permette, grazie all’immaginazione, di identificarci con il dolore dei personaggi, allora forse ci verrà più facile pensare che altri possano identificarsi con il nostro. Questo è un pensiero che nutre, che redime: ci fa sentire meno soli dentro. Magari è tutto qui, semplicemente. Però a questo punto tieni presente che la tv e il cinema commerciale  e tante forme di arte “bassa” – ossia arte il cui scopo principale è fare soldi – sono redditizi proprio perché capiscono che il pubblico preferisce un cento per cento di piacere alla realtà che tende a essere fatta per il 49 per cento di piacere e per il 51 per cento di dolore. Mentre l’arte “alta”, quella che non punta principalmente a farti sborsare dei soldi, è più probabile che ti causi malessere, o che ti costringa a faticare per arrivare ai suoi piaceri, proprio come nella vita reale il vero piacere è in genere un derivato della fatica e del disagio. Perciò è difficile per il pubblico dell’arte, specialmente quello più giovane, che è stato educato ad aspettarsi che l’arte susciti piacere al cento per cento, e senza nessuno sforzo, leggere e apprezzare la letteratura alta. E questo è un male. Il problema non è che i lettori di oggi sono stupidi, non penso che sia così. È solo che la tv e la cultura commerciale di massa li hanno addestrati a essere piuttosto pigri e infantili nelle loro aspettative. E questo rende più difficile che mai cercare di coinvolgere i lettori di oggi, sia a livello intellettuale che di immaginario.

Mi sembra che la grossa distinzione fra grande arte e arte mediocre stia nello scopo da cui è mosso il cuore dei quell’arte, nei fini che si è proposta la coscienza che sta dietro il testo.

Quasi tutti gli scrittori che conosco sono strani ibridi. C’è una forte vena di egomania accoppiata con una timidezza estrema. Scrivere è una specie di esibizionismo privato. E c’è pure una strana solitudine, e il desiderio di avere un qualche dialogo con la gente, ma senza la capacità vera di farlo di persona.

Ci vuole un enorme coraggio per mostrarsi deboli.

Alle elementari ci costringono a diventare platonici perché è il modo più semplice per capire i numeri. Nessuno vuole spiegare a un bambino di quarta elementare la metafisica del numero intero 3, così ci siamo convinti che il 3 è una cosa. Ma i numeri non sono cose. Anche se sei un platonico – e cioè, anche se credi che i numeri siano reali in un qualche senso metafisico, cioè allo stesso modo in cui lo sono gli alberi o come lo sei tu, Caleb, rispetto al matematicamente reale – la ragione per cui ne sei convinto è che in realtà non ci pensi mai. Insomma, se sono reali, dove sono? Che aspetto hanno? Cos’è il 3?

Penso che in un paese in cui la vita è così facile come da noi, uno dei veicoli più importanti della paura sia la noia.

Se riuscissimo a descrivere con sufficiente esattezza la sensazione provata da qualcuno per qualcosa, avremmo una chiave davvero straordinaria per capire come funziona il mondo.

Il trucco era far risultare quella roba sincera, ma anche interessante: perché la maggior parte dei nostri pensieri non sono poi tanto interessanti. Essere sinceri quando dietro c’è un motivo.

Penso che essere timidi significhi sostanzialmente essere talmente concentrati su se stessi che diventa difficile stare in compagnia della gente. Per esempio, se passo del tempo con te, non riesco neanche a capire se mi stai simpatico o antipatico, perché sono troppo occupato a chiedermi se io sto simpatico a te.

Penso che uno dei veri aspetti sotto cui sono diventato più intelligente sia che mi sono reso conto di non essere tanto più intelligenti degli altri.

David Foster Wallace

martedì 17 dicembre 2013

Non mi chiamo Ted - Parte III

Giro di boa per il discorso che il protagonista del racconto dovrà tenere su L'undici - Informazione pura.
E' online la terza parte, con riflessioni e pensieri vari:
Non mi chiamo Ted - Parte III 

lunedì 16 dicembre 2013

Istruzioni per l'odio

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Mi vergogno, io non guardo telenovelas o reality, però ci sono cascato lo stesso. Ci sono cascato, e aspettando la sua caduta, sua di Berlusconi, sono caduto io.

“Cosa gli faccio fare?” pensa lo scrittore, e poi rincula e pensa di scrivere di uno che pensa di scrivere perché sa, avendoci pensato a lungo, che oggi onestamente è impossibile pensare e poi scrivere ma è possibile pensare di scrivere e con un po’ di fortuna scriverne.

Mi turba tantissimo l’idea che delle scelte casuali possano influire sul mio destino più delle scelte fatte in piena coscienza.

Quindi, dopo una settimana di serie riflessioni, riuscisti a riassumere le tue nuove conoscenze con l’idea che in fin dei conti non c’era molta differenza tra acquistare un’azione e scommettere sulle partite di calcio. Le assicurazioni in sostanza scommettono tutti i giorni con i soldi che noi gli diamo, e se vincono ci restituiscono i soldi che gli abbiamo dato e se perdono le cose si mettono che c’è la crisi economica. Così chiedono aiuto allo Stato, lo Stato dice che lo Stato siamo noi e per farla breve tramite tasse e tagli vari ai servizi sociali finisce che noi restituiamo a noi stessi i nostri soldi che altri hanno sputtanato in scommesse.

Tendiamo spesso a pensare che sono i grandi shock, le grandi scelte, le giornate speciali quelle che in un attimo ti cambiano la vita, ma non è così.

Penso ai soldati, ai nonni, i bisnonni che il secolo scorso combattevano le guerre e io in confronto sono una merda. Pensi che quelli morivano come fosse niente, noi invece viviamo come se fossimo niente, ma un pensiero troppo complicato.

Avverti un senso inesprimibile di solitudine che non genera tristezza. Si tratta di abitudine alla tristezza. Ti sei immunizzato alla tristezza, così la tristezza è come se fosse privata del dolore e non si dà sintomi, si va a nascondere e si perde. Sai di essere triste ma non sai con cosa prendertela, non hai dolori scaturiti da qualcosa, hai solo mancanze, le mancanze delle cose che non hai.

“Mi ami ancora?”
“No.”
“Io sì” le rispondi e piangete insieme a dirotto. Almeno te sai che è vero, la ami, ma di lei non sa più dire. Anche lei piange ma non piange perché ti ama, piange perché non ti ama ma vorrebbe amarti e non riesce.

Simone Montella

giovedì 12 dicembre 2013

Novembre 2013


"Quando si rimanda il raccolto, i frutti marciscono; ma quando si rimandano i problemi, essi non cessano di crescere."

Paulo Coelho