mercoledì 31 agosto 2011

Vocazione

Vocazione era la parola che stava cercando, mentre si fasciava i piedi, seduta per terra, con il nastro adesivo bianco, stretto talmente stretto da sembrare un’ingessatura. Vocazione era la parola che l'aveva spinta fino a quel punto, ad assaporare l'aria come una specie di cibo speciale, bere acqua, moltissima acqua, quasi per spegnere un incendio scoppiato dentro di sé. Stringi lo scotch più stretto, fai aderire le dita dei piedi, sempre più attaccate una all'altra, rimargina quella sorta di ferita tra dita e dita, l'insenature ricoperte di pelle, niente unghie. Il piede deve essere un tronco, senza spaccature, nessuna infiltrazione nella sua vita, alcuna distrazione.
È strano, pensò lisciandosi le calze bianche sulle gambe magre, ancora seduta per terra, appoggiata un poco con la schiena allo specchio alla parete, la sua immagine riflessa al contrario, le sue due sé a darsi le spalle a vicenda. È strano come lei alla fine si sarebbe trovata a imitare quella parola, vocazione, con le braccia alzate e leggermente divergenti, i palmi delle mani rivolte al soffitto in un vago tentativo di ave al cielo, e le gambe unite, più dritte possibili, un unico piedistallo, sulle punte dei piedi, gli stessi che si stava fasciando in quel momento. Forse era per questo che quel giorno stava cercando così tanto quella parola, vocazione.
Calza le scarpe. Non devono essere larghe, altrimenti c'è il rischio di cadere. Le scarpe devono essere scarpe ma devono fare parte anche di te, devono essere adese al piede, diventare una parte stessa del piede. Eppure i suoi piedi iniziavano talmente tanto sotto che difficilmente riusciva a sentire il pavimento, almeno con il tatto vivo, e sotto le fasciature, e sotto le scarpe, i suoi piedi pulsavano del sangue che cercava di risalire le vene con estrema cocciutaggine. Un poco aiutava a non sentire il dolore.
Di solito lo provava solo all'inizio, quando ancora aveva un vago ricordo di cosa erano davvero i suoi piedi, i piedi con i quali per il resto del giorno camminava, saltava, correva. Poi poco a poco se ne dimenticava del tutto, persa nel vortice della musica bassa dentro la sua testa, intenta a contare i secondi in silenzio, o i passi, i vari pezzi in cui aveva diviso il tutto, brevi spezzoni non troppo lunghi da riuscire a ricordare alla perfezione senza commettere errori. Ci sono vari modi per contare i minuti mentre il tempo sembra sciogliersi lento nel suo interminabile scorrere. Lei chiudeva gli occhi, anche se gli occhi in realtà li aveva aperti, chi la guardava poteva benissimo vederli aperti, ma dentro di lei gli occhi li teneva chiusi, non dal dolore, non dal dolore ai piedi perché come già detto quello spariva dopo pochi passi o al massimo al suo secondo volteggio, ma teneva chiusi gli occhi con una così soave tranquillità che chi fosse riuscito a vederla, lei con gli occhi chiusi dentro se stessa e non la lei di fuori, il lato sbagliato di quel suo vestito, non avrebbe esitato a definirla in pace, con pure accenno di sorriso tratteggiato sulle labbra.
Per tutto il tempo della sua esibizione, o delle prove, o del riscaldamento, uno qualsiasi di questi suoi momenti, i piedi non erano più piedi, o se lo erano non erano più i suoi. Il nastro adesivo appiccicato in segmenti precisi, con maniacale dedizione, ogni volta la stessa quantità, ogni volta la stessa angolazione, poteva aiutare a farla staccare con la mente dai suoi naturali piedi, ma questo in fondo non era tutto, lei lo sapeva. I piedi riprendevano a farsi sentire non appena riapriva gli occhi, non appena dentro di lei riapriva gli occhi e si inchinava non al suo immaginario pubblico ma sotto il peso della fatica, curva più che intenta a un inchino. C'era una lei dentro di lei che quando ballava chiudeva gli occhi e ballava a sua volta, mentre lei stessa ballava a occhi chiusi o a occhi aperti, non fa differenza, e mentre questa sua lei interna ballava lei stessa riusciva a ballare senza sentire niente se non l'armonia dei suoi movimenti, le curve geometriche perfette che le braccia e tutto il suo corpo tracciavano nell'aria tutt’attorno. Non c'era niente oltre ai tagli recisi con decisione allo spazio vicino a lei, quasi a volersi costruire una propria dimensione e incastonarsi con violenza sopra, una volta che tutti questi ritagli confusi appiccicati con colla invisibile dentro una scatola a decoupage in bianco e nero si fossero trasformati in una porzione tridimensionale del suo mondo, chiuso proprio come una scatola, il coperchio a creare il buio quando la musica, fino ad allora percepita lontana, si fosse alla fine conclusa. I piedi riacquisivano sensibilità, tornavano a essere suoi, quando la scatola si chiudeva, al buio, senza avere la possibilità di controllare se fossero tutti interi o se ci fosse del sangue a grondare da ferite aperte. Iniziava a sentirne in qualche modo il peso, quasi fosse il suo corpo a doverne sopportare la gravità e non viceversa. Prendevano a bruciare, scalfire la pelle con microgranuli di punture sottocutanee proprio lungo tutta la pianta, e le dita rannicchiate in uno spazio ristretto sembravano volersi stirare allungare il più possibile quanto invece non era permesso loro proprio dal. Il nastro adesivo in quel momento era ancora attaccato, non lo aveva strappato a forbici violente furiosa di liberarsi da quella morsa ossessiva, eppure i piedi li sentiva. Era la vocazione che li tagliava via dalle sue gambe.

lunedì 29 agosto 2011

Non lasciarmi

More about Non lasciarmi

Forse era decisa a ricordare tutti noi come persone molto più complesse e profonde di quanto non fossimo realmente.

Credo di essere cresciuto. E forse con me anche tutti gli altri. Non si può andare avanti sempre nello stesso modo. Dopo un po’ ci si annoia.

Il fatto era che la mia mente si muoveva in diverse direzioni contemporaneamente.

Ancora oggi sono sconcertata dalla violenza dell’emozione che mi sopraffece quando la udii pronunciare quelle parole.

Perché mi ero comportata in maniera tanto ostile quel giorno con Moira B., quando lei, in realtà, avrebbe dovuto essere la mia naturale alleata? Ciò che avvenne, immagino, fu che Moira mi stava suggerendo di oltrepassare una linea di confine insieme a lei, e io non ero ancora pronta. Credo di essermi resa conto che al di là di quella linea si trovasse qualcosa di più terribile e oscuro, e che non volevo in nessun modo. Non per me, per nessuna di noi.

Il sesso influenza le emozioni in modiche non vi aspettereste mai.

Quando qualcuno vi supplica di fare qualcosa per lui, è molto difficile dire di no.

Il punto è, immagino, che a quell’epoca eravamo trascinati da correnti impetuose, e c’era soltanto bisogno di un’opportunità come quella per portare a termine il lavoro iniziato. Se allora l’avessimo capito – chissà – forse ci saremmo tenuti più stretti l’uno all’altra.

Su di me cominciò ad aleggiare l’idea che molte delle cose che avevo sempre creduto di poter fare, pensando di avere tutto il tempo a mia disposizione, in realtà avrei dovuto farle in fretta, altrimenti le avrei perdute per sempre.

Eravamo circondati dal silenzio, e quando ci avviammo in direzione della barca, sentimmo il rumore del fango appiccicaticcio sotto le scarpe.

Credo che ai vecchi tempi fosse un bagno, poiché l’unica finestra esistente aveva il vetro satinato ed era posizionata in alto, vicino al soffitto. Era possibile guardare fuori soltanto se si saliva su una sedia e si teneva aperta la lastra di vetro, e da lì non si veda altro che il fitto boschetto sottostante

Era davvero straordinario, il modo in cui gli anni sembravano annullarsi, e noi ci trovavamo così a nostro agio insieme.

- Sicuri? – Era la prima volta che apriva bocca dopo non so quanto tempo, e tutti e due facemmo un piccolo sobbalzo, sorpresi. – Dite di essere sicuri? Sicuri di essere innamorati? Come fate a saperlo? Pensate che l’amore sia così facile? Quindi sareste innamorati. Innamoratissimi. È questo che mi state dicendo?

Dovete accettare il fatto che qualche volta è così che vanno le cose in questo mondo. Le opinioni della gente, i loro sentimenti, spirano in una direzione, poi in un’altra. E capitano semplicemente che voi siate cresciuti in un particolare momento di questo processo.
- Può anche essere stata una moda passeggera, - dissi. – Però per noi rappresentava la nostra vita.
- Si, è vero. Ma pensateci bene. Avete avuto una vita migliore di molti di quelli che vi hanno preceduto. E chissà cosa dovranno affrontare quelli che verranno dopo di voi.

Kazuo Ishiguro

venerdì 19 agosto 2011

Il passo silenzioso della neve

Mi vesto come un angelo che sa
che nelle ali ha nuove libertà
e mi abbandono al gesto di volare via da te
ma non c'è traccia che ti lascerò
non c'è commedia in cui mi applaudirai
il cuore ha il passo silenzioso della neve ormai

Le tue mani mai
il tuo corpo mai
la tua mente mai più
Il tuo nome mai
i tuoi occhi mai
la tua voce mai più

Nessuna estate canterà il tuo addio
da questa spiaggia in bianco e nero ed io
coloro le mie labbra con un'altra identità
Per implorarti di lasciarmi qui
in questo freddo innaturale che
cancella case strade e non ha più pietà per te

Le tue mani mai
il tuo corpo mai
la tua mente mai più
Il tuo nome mai
i tuoi occhi mai
la tua voce mai più

Come sabbia sei nel mio pensiero
aquila che ormai non ha più cielo
e cade in volo
il cuore ha il passo silenzioso della neve ormai

Performed by Valentina Giovagnini

martedì 9 agosto 2011

A occhi chiusi (senza occhi)

Ricordo quando ancora avevi gli occhi per guardare. Li appiccicavi ovunque, come figurine per completare un album. Erano: castani, verdi, celesti, qualche fugace striatura di un giallo fioco tendente al bianco. Li aprivi e li chiudevi, i tuoi occhi, come fanno tutti, ma con quella tua particolare esperienza con la quale gli facevi cadere con lentezza le palpebre sopra, intrecciando le ciglia per pochi brevi attimi in modo da diventare una specie di roccaforte inespugnabile: tu cieca, per breve tempo, non più capace di decidere dove andare e cosa vedere.
Il mondo era diverso allora, non solo per te ma anche per gli altri. Prendi me, per esempio. Credi davvero che sia la stessa cosa ora rispetto a quando eri tu a guidarmi per le strade, i vicoli delle città, per i parchi, e mi dicevi: guarda quel piccolo scorcio di vita, annusa l'aria, muoviti tutto intorno agli alberi, vivi quello che c'è da vivere. Ora sei muta e sono io a guidarti. Il problema è che non credo di essere ancora pronto, per guidare qualcuno. Non hai neppure più le palpebre tu. Non hai gli occhi, non porti gli occhiali. A coprirti le orbite hai uno strato di pelle tirata, nessuna cicatrice. Sembra quasi che le ciglia si siano chiuse per l'ultima volta, saturando una ferita che non doveva rimarginarsi, trasformandosi in punti interni che neppure si vedono. Non si capisce dove potevano esserci gli occhi. Se non fossimo così abituati a vedere le facce altrui con gli occhi incastrati nella loro naturale posizione, non riusciremmo neppure a immaginarci dove Dio avrebbe potuto metterli, gli occhi, sopra la tua faccia o sulla faccia di chiunque.
Immagina se tutti quanti non avessero mai avuto gli occhi, se per caso la nostra natura avesse deciso di non darci la possibilità di guardare al di fuori di noi stessi. Magari tutta la geografia della faccia poteva essere diversa, rivoluzionata completamente. Le sopraciglia non avrebbero avuto modo di esistere, e se fossero esistete avrebbero avuto un altro nome visto che le ciglia non ci sarebbero state e allora sopra a cosa? La bocca invece di essere sopra il mento avrebbe potuto essere al posto degli occhi, a chiudere la fronte, oppure sarebbe rimasta esattamente dov'è adesso ma tutta la faccia sarebbe stata ridimensionata, in grandezza intendo. Via gli occhi sarebbe avanzato spazio, quindi via anche quello spazio. Inoltre sarebbe cambiata tutta la storia dell'arte: ogni riferimento allo sguardo, alla sua profondità, sarebbe sparito, cancellato quest'ultimo dai dipinti, dalle sculture, dalle fotografie. Qualsiasi cosa avrebbe perso un punto di vista, se non tutti i punti di vista, visto che non sarebbe esistita la vista. Non trovi?
Immagina se nessuno potesse vedere, ti dico, proprio come non puoi vedere te. Sarebbe un mondo completamente diverso, ti dico.
Tu volgi la testa verso di me. Il tuo volto senza occhi ma con bocca, guancie, naso, sopracciglia, fossette quando ridi, broncio quando sei triste. Non essere sciocco, rispondi: io non ho gli occhi ma ci vedo lo stesso. E appoggi la tua mano delicata sulla mia guancia destra, a chiudermi i pensieri in una breve carezza.

lunedì 8 agosto 2011

Soffocare

More about Soffocare

L’arte non nasce mai dalla felicità.

Soltanto anni dopo, quando il piccolo idiota sfigato uscì dal college col massimo dei voti e si fece in quattro per entrare alla University of South California e studiare medicina – quando ebbe ventiquattro anni e fu al secondo anno di medicina, quando diagnosticarono la malattia alla madre e lui fu nominato suo custode – soltanto allora quel bamboccio si rese conto che diventare grandi e ricchi e intelligenti non era che metà della storia.

Immaginati una persona che cresce tanto stupida da non sapere che la speranza non è che una delle tante fasi che prima o poi si superano.

Perché a quanto si dice chi dimentica il passato è condannato a riviverlo.

Finché non trovi qualcosa per cui lottare ti accontenti di qualcosa contro cui lottare.

La tortura è vera tortura e l’umiliazione è vera umiliazione soltanto quando si sceglie di soffrire.

Esiste il contrario del deja vu. Lo chiamano jamais vu. È quando incontri le stesse persone o visiti gli stessi posti in continuazione, ma ogni volta è come fosse la prima. Tutti sono sconosciuti, sempre. Niente risulta mai familiare.

Mi piacerebbe tanto un bel giorno riuscire a vivere facendo cose giuste invece di limitarmi a non fare quelle sbagliate.

Nessuna donna è davvero bella come lo è nella tua testa. Niente è eccitante quanto la tua fantasia.

Le leggi che ci permettono di vivere sicuri sono le stesse che ci condannano alla noia.
Se non possiamo accedere al caos autentico, non avremo mai autentica pace.
Se le cose non hanno la possibilità di peggiorare, non miglioreranno.

Gli dissi che quando un maschietto e una femminuccia copulano, la punta del pene di lui si gonfia, e i muscoli della vagina di lei si dilatano. Dopo aver fatto sesso i cani rimangono bloccati l’uno dentro l’altra, e per un tempo generalmente breve non possono fare altro se non restare in quella posizione infelice.
La Mamma disse che la descrizione poteva adattarsi perfettamente a buona parte dei matrimoni.

La voce gracchiante e lontana di mia madre dice: “Lei come ha deciso di diventare medico?”
Paige si stringe nelle spalle. “A un certo punto bisogna pur barattare la propria giovinezza con qualcos’altro…”

“Lo faccio e basta” dice, “perché appena uno trova una buona ragione per farle, le cose perdono il loro fascino.”

Non c’è via di fuga per chi vive in fuga.

La realtà non arriva mai dove può spingersi l’immaginazione.

Possiamo passare la vita a farci dire dal mondo cosa siamo. Sani di mente o pazzi. Stinchi di santo o sesso dipendenti. Eroi o vittime. A lasciare che la storia ci spieghi se siamo buoni o cattivi.
A lasciare che sia il passato a decidere il nostro futuro.
Oppure possiamo scegliere da noi.
E forse inventare qualcosa di meglio è proprio il nostro compito.

Chuck Palahniuk

venerdì 5 agosto 2011

Insect Kin

Iron lung I know you well
Deal with you like a bad spell
See the trail moon burns
Red stripe and vicodin

You were the only one, You were the censor
You'll never people me, I'm not defenceless
In the afternoon as the light dims
Build a life out of all of all this semtex
You're the brightest one, You were the center
The perfect opposite of of what you asked for

It's not just one way
A negative factor
With all of these wasps out
I'd better take cover, better take cover

Copper tongue beam me up
Lonely without my amphetamins
Start to save what we used to steal
Walking on gelatine

I never noticed you, You were the brightest one
You were wide of me, Just like the English sun
You caught the light again in a perfect way
The biggest threat of all is in the alleyway
You're the demon seed, You're the factor
It feels better with a little bit of plaster

It's not just one way
A negative factor
With all of these wasps out
I'd better take cover, better take cover

There's all the pain in the way she talks
There's all the pain in the way she walks
There's all the pain in her wave goodbye
All the pain in the way she smiles
There's all the pain in her fatal charm
All the pain in her arms

Performed by Bush

giovedì 4 agosto 2011

Tra sogno e sveglia

Nel sogno eri arrabbiata, non mi volevi parlare. Almeno un attimo prima che mi svegliassi. All'inizio invece ti avvicinavi leggiadra, quasi muovendoti su onde di un mare sereno. Sorridevi, alzando quasi un poco la gonna con i pollici e gli indici a pizzicotti, su entrambi i lati, come se stessi facendo un inchino. Ci presentavamo perché ancora non ci conoscevamo. Strano, vero? Tornare distanti e poi sognare di incontrarci di nuovo, anche se poi, nella realtà, non ci siamo mai conosciuti davvero così in fondo.
Eravamo in un parco, per strada, in una casa. Non so. Il luogo era così offuscato, oppure più semplicemente non me lo ricordo. Di solito dei sogni io non ricordo niente. Li faccio, o spero di farli, almeno ogni sera - altrimenti sarebbe davvero triste, una notte intera senza sogni - ma la mattina non riesco mai a ricordarmi cosa abbia davvero sognato. Faccio fatica a differenziare i sogni, quelli veri, dai sogni miei, quelli fatti un attimo dopo avere spento la luce e chiuso gli occhi, in quel lasso di tempo durante il quale non sto ancora dormendo ma tutto il mio corpo è propenso a farlo, e con la testa, a cervello spento, cerco di pensare a quello che vorrei vivere durante la notte. Quelli sono i miei sogni, brevettati. Invece i sogni, quelli veri, sono un rimescolio continuo di immagini prese a caso dalla memoria, a breve o a lungo termine, a cui viene data la possibilità di movimento, di parola; sono un film psichedelico di cose mai accadute, unite le une alle altre da piccoli ponti di sottile casualità. Per questo forse ci sei finita tu dentro il mio sogno, uno dei pochi di cui abbia la possibilità di ricordare, e i nostri litigi, e i nostri momenti, e le nostre parole non dette ma espresse con gli occhi: il nostro tutto.
Quando mi sono svegliato tu eri seduta sul letto, a gambe incrociate, già vestita. Una canottiera gialla a pois bianchi ti scendeva dalle spalle arrivando a coprirti fino a metà coscia alta. Non sembravi avere altro, ma non posso dirlo con sicurezza. Avevo sonno, ero ancora mezzo addormentato. Tu invece sembravi esserti alzata già da qualche ora. Forse avevi fatto colazione, eri andata in bagno, ti eri lavata la faccia, i denti, le mani, camminando scalza per casa, con i tuoi piedi che per prenderti in giro definisco sempre arricciati all'insù; poi magari ti sei seduta sul letto, nella stessa posizione in cui ti ho trovata quando mi sono svegliato, e hai iniziato a guardarmi dormire. Mi hai fissato intensamente, così tanto che probabilmente è per questo motivo che ti ho sognata, mi sei entrata dentro il sogno con determinazione. Mi hai guardato, hai controllato se stessi ancora dormendo sul serio o se facessi solo finta, mi hai fatto le smorfie addosso, la linguaccia, da vicino, quasi faccia a faccia, per poi allontanarti quando hai capito che no, non stavo fingendo, stavo davvero dormendo. In questo modo mi hai aspettato, piegando un poco le gambe: te le sei abbracciate, non strette ma con le mani appoggiate sopra gli stinchi, lasciandoti lo spazio per respirare tranquilla.
Quando mi sono svegliato mi sei venuta incontro con la testa. Mi hai aiutato in qualche modo ad aprire gli occhi. Hai aspettato ti focalizzassi, mi hai dato il tempo per vederti i capelli caderti sulle spalle e abbracciarti il collo, incorniciarti la testa. Mi hai sorriso, hai detto: buongiorno.
Io avevo l'alito cattivo, i capelli arruffati dalla notte, la maglietta con la quale dormo tutta stropicciata e annodata attorno al petto, una posa scomposta e poco elegante: le mutande arricciate, le braccia e le gambe piegate in un'arrampicata dilettantesca sul cuscino e il materasso.
Buongiorno, ti ho detto, e mi hai sorriso. In quel momento non mi sono più ricordato per quale motivo avessimo litigato nel sogno. Lo potevo intuire, ma non me lo ricordavo. Sfiorandolo con le dita, con la mente, non riuscivo ad afferrarlo.
Chissà cosa avevi sognato tu, quella notte.

mercoledì 3 agosto 2011

Bugiardi e innamorati

More about Bugiardi e innamorati

Avevo scoperto, o riscoperto, che il pianto è un piacere: che può essere un piacere al di là di ogni immaginazione se hai la testa premuta contro la cintola di tua madre e lei ti tiene le mani sulla schiena e, guarda caso, indossa abiti puliti.

Ma nostra madre era nostra; noi eravamo suoi; e ci adattammo a questa consapevolezza mentre rimanevamo lì sdraiati ad ascoltare il rumore debole, debolissimo, di milioni di persone.

A vent’anni, durante la primavera del suo secondo anno di collage, Susan Andrews disse con grande calma a suo padre che non gli voleva più vene. Quasi subito rimpianse di averlo detto, almeno di aver usato quel tono, ma era troppo tardi: lui rimase seduto con aria sbalordita per qualche istante e poi cominciò a piangere, tutto ingobbito per non farle vedere la faccia, mentre con mano tremante cercava di tirar fuori il fazzoletto dalla tasca della giacca scura. Era uno dei cinque o sei ematologi più rispettati d’America, e una cosa del genere non gli succedeva più da moltissimi anni.

se si affrontava il mondo con chiarezza non c’era mai niente da ritrattare.

“Non c’è un perché”, rispose Susan, contenta del fatto che la sua voce le fosse venuta fuori normale. “Non si smette di amare per un motivo, proprio come non si ama per un motivo. Direi che questo lo capiscono quasi tutte le persone intelligenti.”

“Va bene, magari hai ragione”, rispose lui mentre la sorella riponeva il portafogli, e la fissò negli occhi. “Però senti: sei innamorata di qualcuno di questi tizi?”
“Oh, be’, certo, immagino di si”, rispose lei. “Ma del resto è facile, no?”
“Cosa è facile?”
“Innamorarsi di qualcuno, se è simpatico e ti piace.”
E questo gli diede parecchio da pensare, per tutto il giorno dopo.

Fu una litigata di quelle grosse, altroché. Andò avanti fino a svegliare i vicini, e non si risolse mai, come non si risolvevano mai le nostre liti peggiori. Le nostre vite, ormai, sembravano tutte nervi lacerati e ferite aperte

“Come puoi fare il padre”, chiese, “se sembri ancora un figlio?”

“Ok, allora”, disse lei. “Addio. Lo sai una cosa buffa? Abbiamo continuato a dirci addio da sempre, fin dalla prima volta che sono uscita con te, perché, insomma, l’abbiamo sempre saputo che non avevamo molto tempo, perciò è come se la nostra storia abbia girato fin dall’inizio intorno al dirsi addio, no?”

Poi si accesero altre luci e altre ancora, stanze su stanze, mentre Sally si addentrava sempre più nella casa che aveva sempre adorato e che probabilmente avrebbe adorato per sempre.

Richard Yates

martedì 2 agosto 2011

Luglio 2011


"Scese, evitando di guardarla a lungo, come si fa col sole, ma vedeva lei, come si vede il sole, anche senza guardare."

Lev Tolstoj