lunedì 30 gennaio 2012

Se fossi fuoco, arderei Firenze

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E tuttavia a casa sua (Charlotte, NC) posti come questo non ci sono, e questo glamour da poco che, lei lo capisce, i fiorentini guardano ridacchiando, pur facendone parte, un po’ deridono e un po’ disprezza, è glamour.

Avevo davvero una vita sociale quando sono arrivato in questa città o tutte quelle persone erano una specie di comitato di benvenuto?

Vorrebbe sapere da dove vengono, se è questa la gioventù del centro o arrivano da fuori, se sono effettivamente ricchi o se ostentano con sapienza i simboli di una ipotetica gioventù ricca.

Diego sorride e ripensa […] agli anni dell’adolescenza, a quella sua prima dolcissima storia d’amore con Annabel, a quel loro essere follemente, maldestramente, sfacciatamente, disperatamente innamorati, i loro corpi che tuttavia non sapevano rispondere a quella furiosa smania di possesso, che avrebbe trovato forse soddisfazione solo divorando l’uno ogni particella del corpo dell’altra, e dunque, per un lungo anno, lunghe lunghissime serate ad azzardare baci e carezze in camera di lei, serate di poderose congestioni linfatiche.

Un anno di baci e carezze prima di capirsi, di trovarsi, e poi una brevissima stagione di amplessi che finì troncata per l’irrimediabile, inspiegato, lapidario allontanarsi di lei.

- Come va?
- Me ne stavo andando.
- Sarebbe da andarsene, sì. Ma da Firenze. Tu come mai rimani?
Annabel guarda in faccia il compagno.
- Per cominciare, devo ancora finire la tesi. E poi, chi ha detto che me ne voglio andare? Ciao, eh. Ci si vede.
Cos’è questa storia per cui ormai una si deve giustificare se rimane?

Vanni Santoni

mercoledì 25 gennaio 2012

Il tempo è un bastardo

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“Sei felice”, disse Alex.
“Io sono sempre felice”, rispose Sasha. “È che a volte me ne dimentico.”

In verità tutta la casa, che sei anni prima a Sasha era sembrata una tappa intermedia verso una destinazione migliore, aveva finito per solidificarsi intorno a lei, accumulando massa e peso, tanto da farla sentire impantanata e insieme fortunata ad averla, come se non solo non potesse passare oltre, ma nemmeno lo volesse.

Non ho mai visto San Francisco così dall’alto: è di un nero-blu morbido, con le luci colorate e la nebbia che sembra fumo grigio.

Dean, al quale il successo continuerà a sfuggire fino alla mezz’età, momento in cui otterrà la parte di un idraulico panciuto e senza peli sulla lingua in una nota sitcom, andrà a bere un espresso con Louise (attualmente una dodicenne grassoccia della Fazione Phoenix), la quale l’avrà cercato su Google dopo il divorzio. Bevuto il caffè, finiranno in un Days Inn nei pressi di San Vincente a fare del sesso inaspettatamente toccante, quindi a Palm Springs per un weekend di golf, e infine sull’altare, accompagnati dai quattro figli adulti di Dean e dai tre adolescenti di Louise. Ma la loro sarà un’assoluta eccezione: per quasi tutti gli altri, quelle rimpatriate avranno come unica conseguenza la scoperta che aver fatto un safari insieme trentacinque anni prima non equivale ad avere granché in comune, e se ne andranno ciascuno per la sua strada, chiedendosi che cosa, esattamente, si fossero aspettati.

C’erano degli indizi, dettagli che facevano intuire l’esistenza di un’alternativa brutta all’essere vivi (li abbiamo ricordati insieme bevendo il caffè, io e Rhea, prima di venire a trovarlo, guardando le nostre rispettive nuove facce sedute a un tavolo di plastica: lineamenti famigliari risciacquati in una strana età adulta).

Sta diventando una brutta giornata, di quella in cui il sole sembra abbia i denti.

E quando poi successe, nella camera da letto minuscola di Rolph, con il sole che filtrava a strisce dalle veneziane, feci finta che fosse tutto nuovo.

Durante un viaggio a New York, a bordo del traghetto per Staten Island che avevano preso per puro piacere, perché nessuno dei due l’aveva mai fatto, Susan d’improvviso si era voltata e gli aveva detto: “Facciamo in modo che sia sempre così”. E all’epoca i loro pensieri erano talmente intrecciati che Ted aveva capito con esattezza perché l’aveva detto: non perché quel mattino avessero fatto l’amore, né perché a pranzo avessero bevuto una bottiglia di Pouilly-Fuissé, ma perché aveva avvertito il passare del tempo. E allora anche Ted l’aveva avvertito, nello sciabordio dell’acqua marrone, nello sfrecciare delle barche e della brezza – ovunque movimento, caos – e aveva preso la mano di Susan e le aveva detto: “Sempre. Sarà così sempre”.

“Se io credo in una cosa, ci credo. Chi sei tu per giudicare le mie motivazioni?”
“Se le motivazioni sono economiche, non è crederci davvero. È una stronzata.”

Jennifer Egan

lunedì 23 gennaio 2012

L’albatros

di Gianni Biondillo

Venerdì pomeriggio osservavo dagli spalti della piscina comunale mia figlia nuotare, avanti e indietro, vasche su vasche, dorso, libero, delfino. Pensavo, sorridendo, che se si fosse trovata naufraga al largo, a riva ci sarebbe arrivata salva. Non sapevo ancora nulla della Concordia. Vedere alla sera in televisione la nave spiaggiata, come un cetaceo che aveva perso la sua rotta naturale, lì, a poco più di cento metri dalla costa, mi aveva fatto vergognare del mio pensiero così futile, per quanto innocente.
Sono un architetto di formazione. Leggevo da ragazzo le pagine di Le Corbusier che esaltava la vita nei piroscafi, città galleggianti, logiche, macchine da abitare, dove la vita associativa, la comunità, trovava la sua libertà nella convivenza. Un mito macchinistico che nascondeva il risvolto della medaglia: la potenza della modernità, il suo sguardo verso il futuro, assomigliava troppo alle ali dell’albatros della poesia di Baudeleaire: al largo, in volo, tutto pare poesia. Ma è partire, è attraccare, è lì l’impedimento, la gravità del corpo, la difficoltà dell’esistenza.
Prima ancora di Le Corbusier è un altro il mito che ci portiamo dentro, che ha segnato il nostro immaginario collettivo: “Sembrava di essere sul Titanic” ha detto una sopravissuta. Esattamente cento anni fa, prima delle certezze positiviste del razionalismo francese. E cento anni dopo ancora dobbiamo fare i conti con questa dolorosa allegoria. C’è qualcosa di illogico, di innaturale, nella enorme dimensione della Concordia a pochi metri dagli scogli. Sembra quasi un modellino abbandonato, un giocattolo smarrito. La conta delle vittime e dei dispersi, ancora in divenire, ci riporta alla realtà delle cose.
“Quando abbiamo fatto le simulazioni di evacuazione della scuola” mi ha detto mia figlia, di fronte alle immagini della tragedia del Giglio, “il vigile ci ha spiegato che più dell’incendio, può fare il panico.” Le indagini della magistratura ci racconteranno come sono andate davvero le cose. Ma a sentire i superstiti sembra evidente una inadeguatezza, da parte del personale di bordo, a gestire l’emergenza. A gestire il panico. Inadeguatezza dovuta a mille ragioni, ma sembra soprattutto causata da una impreparazione di base: marinai che neppure parlavano l’italiano, incapaci di assistere i passeggeri, cavi che si spezzavano, giubbotti salvagente insufficienti. Tanto non affonda. (Penso a tutte le volte che ho snobbato il personale di volo mentre mi spiegava come comportarmi in caso di emergenza: tanto non cade). La fiducia che riponiamo nella tecnologia, di questi pachidermi dei quali nulla sappiamo – come volino nel cielo, come attraversino i mari – è al limite dell’incoscienza.
Colpisce, fra le tante, l’immagine di un capitano che abbandona la nave prima che tutti vengano messi in salvo. Non poteva accadere, non doveva. Ci sono regole che non possono essere infrante, doveri che non possono essere elusi. Ne va della nostra civile convivenza. Non basta aver simulato in qualche corso d’aggiornamento una emergenza, bisogna dimostrarsi degni del ruolo. Non sopporto l’idea che questa tragedia si dimostri la facile metafora di una società, quella italiana, capace di creare una meraviglia cantieristica come la Concordia ma che allo stesso tempo permetta poi venga governata da addetti manchevoli, inadeguati. So di storie di eroismo, su quella nave, e di egoismi spiccioli. Per ora contiamo le vittime, ma non dimentichiamo troppo in fretta questa lezione.
“In caso di incendio” ha proseguito mia figlia “il vigile mi ha assegnato il compito di capo fila. Porterò io l’intera classe nel punto di raccolta.” So che farai bene il tuo compito. Ho fiducia nelle nuove generazioni. Mi fido di te, capitano. Oh, mio capitano.

Trovato su http://www.nazioneindiana.com/2012/01/17/lalbatros/

venerdì 20 gennaio 2012

Lonely boy

Well I'm so above you
And it's fine to see
But I came to love you anyway
So you tore my heart out
And I don't mind bleeding
Any old time to keep me waiting
Waiting, waiting

Oh, oh-oh I got a love that keeps me waiting
Oh, oh-oh I got a love that keeps me waiting
I'm a lonely boy
I'm a lonely boy
Oh, oh-oh I got a love that keeps me waiting

Well your mama kept you but your daddy left you
And I should've done you just the same
But I came to love you
Any old time you keep me waiting
Waiting, waiting

Oh, oh-oh I got a love that keeps me waiting
Oh, oh-oh I got a love that keeps me waiting
I'm a lonely boy
I'm a lonely boy
Oh, oh-oh I got a love that keeps me waiting

Oh, oh-oh I got a love that keeps me waiting
Oh, oh-oh I got a love that keeps me waiting
I'm a lonely boy
I'm a lonely boy
Oh, oh-oh I got a love that keeps me waiting

Performed by The Black Keys

lunedì 16 gennaio 2012

Tempesta di ghiaccio

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E, guarda caso, Melody si scoprì essere il nome della ragazza, che ci sapeva fare meglio della moglie. Quando venne, fu una vera Melody in fortissimo: “ff” si scrive sulle partiture musicali. La cosa irritante di Melody era proprio quello che aveva di buono. Hood pensò a prostitute, sesso di gruppo, travestiti e sadomasochismo, e ci vide il richiamo dell’ignoto, il richiamo della barbarie sessuale. Calmandosi, Melody batté nuovamente la testa. Contro il tetto dell’auto. Lui venne. La vita gli sgorgò via tutta. E poi l’atmosfera mutò. Veramente. Per un secondo, gli parve che tutto sapesse di triste e di buono. Come dopo un acquazzone. La tenne tra le braccia. La Melody dell’ufficio, che avrebbe inevitabilmente rivisto dopo la settimana bianca con al famiglia nel Berkshire, subito dopo aver visto il padre, il suo solitario padre, dopo essersi rilassato per una settimana. L’avrebbe rivista e non avrebbe saputo che cosa dirle. Avrebbe dimenticato di essere stato felice lì, in quel posto, per un secondo.

L’erotismo dell’adulterio è ben documentato. Ripensandoci, nella stanza degli ospiti, Hood si scolò un altro sorso. Forse facendo così intendeva onorare la moglie, magari lo faceva per lei. forse scopava per protestare contro l'idea d’ famiglia, per sfuggirne le costrizioni. Forse ommetteva adulterio in virtù del suo profondo senso estetico. Forse lo faceva per celebrare la libertà della nuova sessualità. Oppure per umiliarsi, o per ferire Janey Williams, o per fare del male al marito – erano tutt’e due molto più attraenti di lui, molto più disinvolti. Forse era il marito che avrebbe voluto scopare – e questo era un segreto così terribile e oscuro da restare celato perfino a Hood stesso. Forse voleva farsi scoprire. Forse lo faceva per scappare, dal lavoro, dalle ansie, dalle malattie psicosomatiche. Forse lo faceva perché anche i suoi genitore lo avevano fatto (o così supponeva) e il desiderio di tradire gli ribolliva nei geni. O forse, alla fin fine, lo faceva semplicemente perché voleva quello che non poteva avere.

Era appena finita una lunga giornata di lavoro in ufficio, pensò Wendy. La battaglia quotidiana era terminata.

Sicché l’amore era uno scambio di persona. Anche Erich Fromm e C.S. Lewis e Paul Tillich erano d’accordo. L’amore gettato al vento. L’amore che andava oltre il proprio bersaglio. E allora forse Benjamin aveva ragione, forse gli adulti degli anni settanta avevano ragione a malriporre il proprio affetto tra fantasmi ed estranei e ricordi di desiderio. Quest’uomo al volante della macchina si scaccolava il naso esattamente come l’uomo che lei aveva sposato, e si grattava il culo allo stesso modo, e stava ore e ore sotto la doccia, ma non era lo stesso uomo. Di lui Elena ricordava cose che lui stesso non avrebbe mai più ricordato. Com’era scoppiato in lacrime nel patetico zoo per cuccioli che erano andati a vedere coi bambini a Bridgeport; come gli era piaciuto leggere Colazione da Tiffany; il suo smarrimento davanti all’infarto della madre. Aveva un sorriso pieno di tramonti da quattro soldi e di Natali solitari. La sua rabbia poteva essere tagliente. Cose che lei avrebbe ricordato sempre. Tradiva Benjamin con la sua stessa giovinezza perduta.

La cosa migliore dell’iniziazione era che si trattava di una specie di privazione, di mancanza. Mancanza di sicurezza, di fiducia.

Del resto, Paul non sapeva bene nemmeno lui che cosa voleva, o come convincerla. Sapeva solo che non voleva andarsene da quel letto, dal fianco di Libbets per tornare nella gabbia della sua educazione. Pensava che forse voleva qualche contatto, qualche contatto scioccante e duraturo. Voleva essere attaccato chirurgicamente a Libbets, cucito, suturato a lei; oppure voleva uno di quei baci demenziali che erano come una scossa, come morire sulla sedia elettrica. Voleva che quel momento sul letto fosse il tempo zero assoluto dei fumetti Marvel. Lei ignorava la magia della loro difficile situazione, le conseguenza per gli altri personaggi del fumetto. Lei non capiva che Paul stava lottando tutto solo contro la minaccia di crescere.

La rivelazione della morte era che Mike Williams sarebbe stato morto per tutto il tempo in cui Benjamin Hood fosse rimasto in ginocchio accanto a lui. Nessuno dei rimedi di Hood avrebbe funzionato, e nemmeno nessuno dei suoi desideri, dei suoi ardenti desideri. Mike sarebbe stato morto quel pomeriggio e anche quello successivo. Era questo il miracolo. La morte era terribilmente duratura. Era l’idea più ostinata del mondo. Un corpo era morto, ed entro poco tempo non sarebbe stato più nemmeno un corpo, solo un mucchio di elementi. Un cumulo di sostanze, comunque morto.

A volte la perdita si trova molto lontano da dove si manifesta, all’estremità opposta della casa.

Rick Moody

venerdì 13 gennaio 2012

As is

You can't hide
Behind social graces
So don't try
To be all touchy feely
Cause you lie
In my face of all places
But I've got no
Problem with that really

What bugs me
Is that you believe what you're saying
What bothers me
Is that you don't know how you feel
What scares me
Is that while you're telling me stories
You actually
Believe that they are real

And I've got
No illusions about you
And guess what?
I never did
And when I said
When I said I'll take it
I meant,
I meant as is

Just give up
And admit you're an asshole
You would be
In some good company
I think you'd find
That your friends would forgive you
Or maybe I
Am just speaking for me

Cause when I look around
I think this, this is good enough
And I try to laugh
At whatever life brings
Cause when I look down
I just miss all the good stuff
When I look up
I just trip over things

And I've got
No illusions about you...

You can't hide
Behind social graces
Cause I don't buy it
Like everyone else
And you can lie
In my face of all places
Just don't
Lie to yourself

Cause I've got
No illusions about you
And guess what?
I never did
And when I say
When I say I'll take it
I mean,
I mean as is...

...as is...

Performed by Ani DiFranco

mercoledì 11 gennaio 2012

Super 8


Super 8 non poteva che essere un film di J.J. Abrams. Basta prendere la scena del deragliamento per capirlo: anche se forse un po’ troppo fracassona, un deragliamento del genere è proprio fantascientifico, ma in più o meno dieci minuti (durata da ritenersi comprensiva pure del preambolo, ovvero l’arrivo del treno etc etc) il regista riesce a infilarci dentro ben tre misteri! Per fortuna questi misteri non vengono sciolti come è avvenuto in Lost, anche se a dire il vero nelle sue uscire cinematografiche il vecchio Abrams non è fatto poi tutte queste vaccate.
La storia è quella di un gruppo di ragazzini impegnati a girare un film in super 8 sugli zombi, ambientato in una provincia americana nella quale guarda caso vivono. Il destino vuole che siano anche testimoni di un incredibile incidente ferroviario dopo il quale in città iniziano ad accedere cose assai strane. Anche l’esercito se ne accorge, o per meglio dire: lo sa.
Questo è quanto di contorno, o la linea guida attorno alla quale si intrecciano le varie sotto trame, a partire dalla storia tra il protagonista e la brava Elle Fanning, o il lutto della famiglia per la madre scomparsa. Non è solo una storia di pura fantascienza, dove i personaggi devono scappare dalla minaccia e poi magari risolvere gli enigmi creati durante la narrazione, c’è anche molto altro, tra cui per esempio la passione per gli anni ’70 e un periodo magico per i cineasti allora bambini, una storia comunque di crescita dall’età fanciullesca ad almeno quella adolescenziale o adulta, saltando proprio quella di mezzo.
Nel tam tam pubblicitario il film è stato paragonato a Stand by me, ma forse sotto alcuni aspetti è più paragonabile a un Goonies degli anni 2000, dove il gruppo di ragazzi protagonisti vivono avventure (qui come già detto forse un po’ troppo esplosive, ma siamo pur sempre nell’era degli effetti speciali) ma non per questo incapaci di fare ridere e sorridere con battute di secondo piano, oppure fare tenerezza con sguardi, atteggiamenti o situazioni piccole ma delicate.
Da vedere. Una bella sorpresa.

lunedì 9 gennaio 2012

Un paese di scrittori

di Anna Maria Ortese

Questo e altri vecchi interventi della Ortese si possono trovare oggi raccolti nel volume “Da Moby Dick all’Orsa Bianca”, edito da Adelphi

Non c’è forse, dopo l’Italia, un altro Paese al mondo dove ciascun abitante abbia come massima ambizione lo scrivere, e ce n’è pochi altri dove quel che ciascuno scrive – pura smania di dilettante o regolarissima professione – scivoli, per così dire, sull’ attenzione dell’ altro, come la pioggia su un vetro. Ma scivola è un’ espressione indulgente: inquieta, offende, avvilisce, si vorrebbe dire. Ogni abitante-scrittore se ne sta sul suo manoscritto come il bambino, a tavola, col mento nella sua scodella, sogguardando la scodella, cioè il manoscritto, dell’ altro: e se quello è più colmo, sono occhiatacce, lacrime… si sente parlare del tale, del tal altro che ha pubblicato o sta per pubblicare un nuovo libro. Subito, chi ha questa italianissima passione dello scrivere, o dello scrivere ha fatto il suo mestiere, si precipita a vedere di che si tratta, e in che cosa il rivale si mostri inferiore a quel che se ne dice, o si temi.

Se il sospetto, la paura, si rivelano infondati, è un sollievo tinteggiato di nobile comprensione: «Un buon libro… Hai letto l’ultimo libro di T.? Certo potrebbe far meglio… L’ho sfogliato appena – e me ne dispiace – ma non ho mai il tempo di leggere…». Ed è vero: perché se appena alle prime pagine il rivale appare quel che si desidera – un mediocre – cessato l’ allarme, la sua modesta fatica non interessa più. Quando già alle prime pagine, invece, lo scrittore-lettore si rende conto di trovarsi di frontea un’ autentica novità e forza, il colpo che ne riceve è così brusco che, lì per lì, non riesce a fiatare, e se ne sta zitto e disfatto nel suo angolo. Di continuare non se ne parla, prova una specie di nausea. In un secondo momento, però, scoppia la reazione: si tratta di un’ opera indegna, una vera truffa letteraria, «ma dove andiamoa finire di questo passo… vedrai che a quello gli danno un premio…», e così via. E il premio qualche volta arriva, e allora è un dolore, un lutto generale, e si cominciano a scrivere articoli abilissimi dove si parla perfino del primissimo elzeviro dello studente di Caltagirone, o si elevano entusiastiche lodi all’ingegno di V., che, novantenne, ha ristampato l’intera mole delle sue opere, insipide e pesanti come patate: e solo si tace il nome del vero colpevole, l’ultimo arrivato, che nonè stato al gioco d’infilare le parole l’una dopo l’altra, semplicemente, ma ha «adoperato» la parola, l’ha mortificata mettendola al servizio di alcuni interessi.

Interessi! Non è che gli scrittori italiani non ne abbiano, e anche belli e vivi: ma nulla, ad essi, per tradizione e per gusto, è più caro del piacere di scrivere; e si sa come gli interessi, le passioni, le ire, la costante ricerca di una verità che non sia soltanto quella della nostra pelle, ma la verità tua e mia, siano contrari a questo raffinatissimo tipo di piacere. Raffinatissimo per i vecchi, naturalmente. Per i giovani, e non mi riferisco, s’intende, a una giovinezza di soli anni, scrivere, se ci sono delle passioni o delle collere da raccontare, è anche un piacere, ma per caso. Non scrive per provare piacere, insomma, un giovane: scrive per farsi uomo, uomo che esprime gli altri, che riveli in sé gli altri, che sia un’ aggiunta al patrimonio degli altri. Si capisce così, data questa tendenza degli italiani a concepire lo scrivere come un piacere, perché da noi tutti scrivano e nessuno legga, e quello che minaccia di farsi leggere dagli altri che non siano gli scrittori colleghi sia considerato un intruso e gli si tolga magari il saluto (…); si capisce perché la nostra letteratura sia in genere un soliloquio, uno sfogo forbito oppure curioso, mai un’autentica voce, un richiamo, un grido che turbi, una parola che rompa la nebbia in cui dormono le coscienze, il lampo di un giorno nuovo. Noi scriviamo per piacere a noi stessi, nel migliore dei casi; nel peggiore, agli altri: quando avremmo bisogno ogni giorno di ripeterci che siamo la più fastidiosa espressione della nullità, nella più arretrata e insignificante delle nazioni.

Esemplare espressione di un costume e anche di un Paese dove le lettere, nella loro generalità, non furono mai finia se stesse, ma modo di esprimersi di quegli interessi e passioni che, soli, fanno umana la vita dell’ uomo, e proprio per questo diventano a volte altissima letteratura,è il carteggio M. Gorki – A. Cechov. (…) Cechov e Gorki non erano soltanto due illustri letterati, in certo senso non lo erano affatto, erano due enormi scrittori, non vivevano per scrivere, ma scrivevano per vivere normalmente, per divenire, per realizzarsi come uomini veramente liberi, come spiriti in cui moltitudini di uomini si sarebbero ritrovati, riconosciuti, e sarebbero a loro volta divenuti sinceri, onesti, liberi.E per questo, perché essi non avevano altro scopo, i libri e le regole dello studio, del mestiere di scrivere, ritornavano, come dovrebbe essere, al ruolo di secchi strumenti, e per la vita guardata allo specchio non c’ era posto. Contava la vita nuda. Contava l’ immersione continua nel mare doloroso del mondo, contava il coraggio con cui si affrontava la vista di tutto il male, le sofferenze, le vergogne possibili; e il collega era semplicemente, nella grande lotta contro tutto ciò che opprime l’ uomo, un compagno, la cui opera, a quel fine, era importante quanto la propria. Perché si proponeva qualche fine, allora, l’ intelligenza. Un fine superiore al piacere, alla pelle. Ed ecco l’ interesse profondo di uno per l’altro, il rispetto, l’ammirazione, la solidarietà, il bene. Cose che fanno sorridere, adesso. Ma a leggere, in segreto, questo carteggio, ecco che il cuore si mette a battere, e non siamo più nel nostro Paese, e neppure nel nostro tempo, siamo molto lontano, non si vedono manifesti, ma si odono voci: e gli occhi splendono, le mani ardono.

Trovato qua: http://www.minimaetmoralia.it/?p=6068

mercoledì 4 gennaio 2012

Dicembre 2011


"Spesso una buona domanda conta più di una risposta esatta."

Tommaso Pincio