mercoledì 28 settembre 2011

Viaggio 2.0

Giulia diceva spesso che non c'era bisogno di viaggiare per averne i ricordi. Io le prime volte le rispondevo: spiegati meglio, non credo di avere capito proprio bene. Vuoi dire, continuavo io con voce un po' incredula, che credi sul serio di poter avere dei ricordi di viaggi che non hai mai fatto?
Certe discussioni nascevano sempre davanti alla tv, quando incappavamo in un programma dove qualcuno di perfettamente normale, come potevamo essere noi, persone qualunque, raccontava il proprio viaggio, di nozze di vacanze o di semplice evasione. Io dicevo che sarebbe stato bello, magari un giorno, riuscire a partecipare a una trasmissione del genere, portare in studio il nostro filmato artigianale e poter dire: siamo stati qui, qua, quo; e tutta la gente in studio ci avrebbe fatto i complimenti.
Lei però smorzava i toni, e diceva appunto che i filmati che andavano in onda non erano per niente affatto artigianali, ma il risultato ultimo di un grande lavoro di regia, montaggio, fotografia. E le persone che lo commentano, controbattevo io, secondo te come la prendono di parlare su delle immagini non proprie? Loro non ci sono neppure stati fisicamente nei posti di cui parlano.
La guardavo con indecisione: non capivo se stesse dicendo sul serio oppure mi stesse semplicemente prendendo in giro. A volte lo faceva, e si giustificava dicendo che le piaceva troppo la faccia che facevo quando cercavo di districare la realtà dalla sua fantasia.
Vuoi dire, abbozzavo io a passi lenti, a tentoni, verificando di avere suolo sotto le scarpe prima di poggiarci il peso; vuoi dire, una specie di televisione del futuro?
La televisione del futuro l'avevamo inventata noi. Una sera stavamo guardando un programma di cucina, dove lo chef di turno ci istruiva su come preparare in modo squisito una torta, o un primo, un secondo, adesso non ricordo bene; e ci dicemmo, molto seri e affamati, che la nostra televisione aveva fatto ormai il suo tempo. Molto presto sarebbero arrivati nei salotti di tutte le famiglie degli apparecchi di nuova generazione. Non sarebbero stati schermi piatti o al plasma, alta qualità delle immagini o del sonoro; ma ci sarebbe stato un cambiamento radicale e profondo. Se avessimo guardando un programma di cucina, come per esempio nel nostro caso, con questi nuovi televisori sarebbe bastato premere un tasto per far apparire davanti ai nostri occhi il piatto pronto da mangiare. Altro che 3D, sarebbe stato un 4-5D. Basta fare accoppiare una tv con un forno, diceva Giulia, e oplà. Ecco cosa era la televisione del futuro.
Nello stesso modo, pensavo, l'evoluzione successiva sarebbe stata quella di permettere di usufruire di una opzione del genere non solo per i programmi di cucina, ma anche per i programmi di viaggio. Premendo un altro tasto del telecomando saremmo stati teletrasportati direttamente nei posti che si vedevamo nello schermo. O qualcosa del genere.
Ma Giulia non intendeva proprio questo. Secondo lei con del semplice esercizio si poteva evitare di spostarsi per viaggiare. Lei lo faceva, ogni sera da quando aveva sette anni. Ecco come: sdraiata a letto, prima di addormentarsi, chiudeva gli occhi e richiamava alla mente tutte le foto che aveva visto, magari nelle riviste sfogliate in sala d'aspetto dal dentista, o nei cartelloni pubblicitari sparsi per strada, oppure ancora i paesaggi di qualche film visto al cinema in una sala buia. Prendeva tutte queste immagini e ne costruiva un modello tridimensionale in cui ci piazzava in mezzo la sua figura astratta. In questo modo poteva visitare Parigi, Londra, Berlino, Dublino e Pechino; perdersi per le strade sconosciute di una chissà sperduta cittadina norvegese, a un passo dal mare freddo e dal vento gelido, e fare pure lunghi viaggi interstellari, quando si sentiva particolarmente fantascientifica. Poteva fare il giro del mondo in meno anche di ottanta giorni, alla velocità di un battito di ciglia.
Guarda che Kerouac il libro lo a scritto a casa, mica fisicamente per la strada, diceva lei in base alla leggenda secondo cui l'autore di On The Road non avesse neppure la patente.
Ma a me la cosa non quadrava poi molto. Mi domandavo che senso avesse viaggiare sottraendo al verbo il suo stesso significato, ovvero il viaggio; cosa volesse dire vedere le cascate del Niagara senza però sentirne gli spruzzi bagnati sulla pelle; o passeggiare per le strade di Barcellona senza avere nel naso l'odore spagnolo dell'asfalto. E ancora: quanto si potesse definire viaggio un viaggio che mancava di strade percorse, o di cieli sorvolati, mari salpati: era ancora un viaggio, arrivare dritti a destinazione, o era qualcosa di simile ma diverso?
Le avrei voluto davvero chiedere tutte queste cose, perché in fondo ero sicuro sarebbe stata capace di dissipare ogni mio minimo dubbio, perplessità, interrogativo; ma ogni volta che ero lì lì vicino a farle presente ciò che non mi tornava, lei mi afferrava la mano, distesa sotto le coperte con ancora gli occhi chiusi, un sorriso disegnato felice sulle labbra, e diceva: guarda! ora siamo in cima alla Tour Eiffel; oppure: abbiamo scalato l'Everest; siamo in Tibet. E tutto quanto veniva spazzato via, non mi importava più di niente, né dei ricordi, del viaggiare o del semplice arrivare; perché ero comunque contento di essere là, qualunque posto fosse, in cima insieme a lei. In un modo o in un altro.

lunedì 26 settembre 2011

parlarepensare

Non alzo mai la voce, eppure parlo parlo, lo faccio di continuo. A volte a vanvera, altre invece con un minimo di senso. Affronto qualsiasi argomento mi passi per la testa, sembra quasi voglia soltanto fare capire a me stesso di essere capace di. Non importa cosa dico, anche se in realtà di importanza ne ha molta seppure poi, qui, poi dica il contrario, è per non prendersi troppo sul serio, ma quello che si dice è sempre importante, altrimenti si muoverebbe solo la bocca; ma io voglio produrre dei suoni, tanto per evitare che le labbra si cicatrizzino. Parlo a voce bassa perché non voglio importunare nessuno, tanto che spesso mi chiedo se ci sia qualcuno capace davvero di ascoltarmi, fisicamente, oltre me, voglio dire: pensare è diverso, parlando si butta fuori tutta una serie di parole, ma se si parla e nessuno ci ascolta, non è un po' come pensare? Solo che il parlare senza essere ascoltati è appesantito da un senso di frustrazione che ti si aggrappa alle spalle con dei piccolo uncini, uno per ogni dita di questa frustrazione. E lo sai, la frustrazione è un'animale strano, ha venti mani e sette dita per ognuna di esse.
Ma se parlo e non mi ascolti, neppure tu, dimmi, che senso ha? Non ne ha molto, perché in tutto questo tempo ho rischiato di precipitare in uno strano stato di incoscienza, di unione, di perdita della propria identità, tipico di chi racchiude dentro un'altra persona ciò che vede, ciò che fa, ciò che desidera, ciò che sogna. Ci confondiamo, o per lo meno io mi confondo in te, mi mimetizzo. Gli altri non mi vedono quando ti guardano ma ci sono pure io tra i tuoi segni e il tuo sorriso, nei tuoi occhi - dietro, non in superficie. Quindi io non esisto più, sono in te. E se te non mi ascolti, se neppure tu mi ascolti, significa che non mi ascolto neppure io. Cos'è allora tutto questo affannarsi? non è parlare perché nessuno mi ascolta, ma non è neppure pensare, perché neppure io stesso mi ascolto. Quindi? Dimmi, dimmi cos'è?

venerdì 23 settembre 2011

Guardia '82

La spiaggia di Guardia rovente
Era piena di gente
Si parlava di sport
di Pertini e Bearzot

Io ignaro di questo, ignaro di tutto
Fabbricavo castelli di sabbia
Con paletta e secchiello
ed in testa un cappello

E lei, stava senza mutande
Ma io non la guardavo neanche
M'infilavo i braccioli e poi dritto nel mare
Non sapevo neanche cosa fosse l'Amore.

Dieci anni più tardi la vidi, vicino a un falò
E bruciava la carne e bruciavano canne
Io stavo seduto da solo a suonar la chitarra
A cantare canzoni, a cercare attenzioni

Ma lei non mi guardava neanche
Ed io facevo finta di niente
Ingollavo Peroni e iniziavo ad urlare
Delle pene che solo ti sa dare l'amore

Sulla spiaggia lattine anni '80
Quando il mare s'incazza e riporta
Ricordi che avevi
coperto di sabbia

Palloni arancioni sgonfiati
Fare "ciao" ad un treno che passa
E guardare nel cielo
la scia di un aereo

E lei, sempre senza mutande
Ed io che non capivo neanche
E scavavo la sabbia cercando tesori
E vedevo la vita soltanto a colori

E poi, di colpo fra le sue braccia
Noi due, stretti sotto la doccia
La paura e la voglia
di fare l'amore

Il 31 d'Agosto
c'è una storia che nasce
e un'estate che muore

Performed by Brunori Sas

mercoledì 21 settembre 2011

Cut

Quando disse per la prima volta che voleva andarsene non lo presi molto sul serio. Era reduce da un’attenta rilettura di “On the road” e i suoi progetti erano intrisi di autostop, lavori saltuari, amori interinali, feste da sballo, bevute di ogni tipo, avventure sessuali, avventure di ragionamento, avventure di discussioni accese al limite delle botte, voglia di comunicare, giovani ragazze dalla pelle chiara, dalla pelle scura, con le lentiggini e i pantaloni stretti strappati sul culo, le cosce lunghe, le camicie con le maniche arricciate, e quintali di sigarette, accendini sprecati, finiti, buttati, tabacco da quattro soldi, birra scura servita in enormi bicchieri di plastica trasparente, musica a tutto volume, case disabitate, arredamenti provvisori, fuochi accesi nei cortili di ville in costruzione, periferie perdute, campagne innocenti, amicizie intercontinentali, parole sconosciute, accenti farfugliati, ginocchia sbucciate e mani consumate, carezze trattenute, sentimenti annodati alla bocca dello stomaco, abbracci avvinghiati sopra materassi sventrati, amori di una notte, amplessi stretti, larghi, sdegnati, senza tatto, urla strozzate in gola, grida disperate, mal di testa mattutini, dopo sbornie assillanti, capi chini su fiotti di vomito marrone, cessi che non scaricano, cessi che si intasano, bagni pubblici e privati, gabinetti sporchi di locali sempre affollati, concerti sold-out tutte le sere, orecchie che fischiano, rumori indecifrabili, note rotonde e ovattate, braccia affusolate, spalle sudate da leccare, baci alla base del collo, lingue di ogni sapore, umori acidi, umori dolciastri, umori liquidi e spaesanti, occhiate nascoste, richieste di compassione, delicatezze lungo i fianchi, colpi forti sulle natiche, violenza richiesta, pugni in tasca, marce di protesta, striscioni fatti con vecchie lenzuola, slogan urlati dentro megafoni, braccia alzate, manganellate prese sulle costole, cariche evitate, fughe incondizionate senza guardarsi indietro, rifugi insperati, letti costruiti con tavolini, cuscini fatti da braccia o culi altrui, notti che iniziano al tramonto, e poi vino, alcool, risate frastagliate in singhiozzi trattenuti; tutto questo e altro ancora. Difficile stargli dietro.
Vado via, disse un giorno. Poi riprese a parlare e tutto quanto si perse tra altre parole, confuse, come sempre. Presi quella sua intenzione come un gioco, uno scherzo, una nuova dissociazione dell’alba. Invece.

lunedì 19 settembre 2011

La strada

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Ricordati che le cose che ti entrano in testa poi ci restano per sempre, gli disse. Forse dovresti rifletterci.
Però certe cose uno se le dimentica, no?
Si, ci dimentichiamo le cose che vorremmo ricordare e ricordiamo quelle che vorremmo dimenticare.

Quella era stata la giornata ideale della sua infanzia. La giornata su cui modellare tutte le giornate a venire.

Mai è un sacco di tempo.

Mai è un sacco di tempo. Ma il bambino la sapeva lunga. E sapeva che mai è l’assenza di qualsiasi tempo.

Domanda: che differenza c’è fra ciò che non sarà mai e ciò che non è mai stato?

Durante la notte sulle montagne sopra di loro si scatenò un temporale che fra tuoni e schianti avanzò cannoneggiando verso valle, mentre il mondo livido e nudo riemergeva a sprazzi dal buio della notte nel chiarore velato dei fulmini.

Le persone che non hanno nessuno farebbero bene a imbastirsi qualche fantasma decente.

Il bambino si strofinò via il sonno dagli occhi con il dorso delle mani.

Ma se uno fosse l’ultimo uomo sulla faccia della terra, come farebbe a saperlo? Disse.
Be’, suppongo che non lo saprebbe. Lo sarebbe e basta.
Non lo saprebbe nessuno.
Non cambierebbe nulla. Quando si muore è come se morissero anche tutti gli altri.

Le cose andranno meglio quando non ci sarà più nessuno.
Davvero?
Certo.
Meglio per chi?
Per tutti.
Per tutti.
Certo. Staremo tutti meglio. Respireremo più facilmente.
Buono a sapersi.
Si, infatti. Quando ce ne saremo andati tutti qui resterà solo la morte, e anche lei avrà i giorni contati. Vagherà per la strada senza niente da fare e nessuno a cui farlo. Dirà: dove sono finiti tutti? Ecco come andrà. E che c’è di male?

Non ci augura nemmeno buona fortuna?, disse l’uomo.
Non so neanche che cosa significhi. Com’è fatta la fortuna? Chi può dirlo?

Il bambino si alzò e lasciò cadere la coperta sulla sabbia, si tolse il giaccone, le scarpe e i vestiti. Rimase lì nudo, con le braccia strette attorno al corpo, saltellando. Poi partì di corsa verso la riva. Così bianco. La spina dorsale tutta nodi. Le scapole che andavano e venivano come lame sotto la pelle candida. Di corsa nudo e ballonzolante e urlante in mezzo alle onde che si srotolavano lente sul bagnasciuga.

Il sapore del sale sulle labbra. L’attesa. L’attesa. Poi il lento boato dell’onda che si abbatte. Il sibilo effervescente dell’acqua che si spande sulla sabbia e si ritira.

Nelle secche a pochi passi dagli scogli un cadavere vecchio di chissà quanto fluttuava tra i pezzi di legno portati lì dalla corrente. Avrebbe voluto nasconderlo al bambino, ma il bambino aveva ragione. Cosa c’era da nascondere?

Una palude morta. Alberi senza vita che spuntavano dall’acqua grigia con barbe di muschio fossile. I soffici mucchietti di cenere contro lo spigolo dell’asfalto. L’uomo si fermò e si sporse dal parapetto di cemento ruvido. Forse, guardandone la distruzione, finalmente sarebbero riusciti a vedere come era fatto il mondo. I mari, le montagne. Il poderoso contro spettacolo delle cose che cessano di esistere. La sconfinata desolazione, idropica e gelidamente terrena. Il silenzio.

Cormac McCarthy

venerdì 16 settembre 2011

Smells like teen spirit

Load up on guns and bring your friends
It's fun to lose and to pretend
She's over bored and self assured
Oh no, I know a dirty word

Hello, hello, hello, how low?
Hello, hello, hello, how low?
Hello, hello, hello, how low?
Hello, hello, hello!

With the lights out, it's less dangerous
Here we are now, entertain us
I feel stupid and contagious
Here we are now, entertain us
A mulatto
An albino
A mosquito
My libido

I'm worse at what I do best
And for this gift I feel blessed
Our little group has always been
And always will until the end

Hello, hello, hello, how low?
Hello, hello, hello, how low?
Hello, hello, hello, how low?
Hello, hello, hello!

With the lights out, it's less dangerous
Here we are now, entertain us
I feel stupid and contagious
Here we are now, entertain us
A mulatto
An albino
A mosquito
My Libido

And I forget just why I taste
Oh yeah, I guess it makes me smile
I found it hard, it was hard to find
Oh well, whatever, nevermind

Hello, hello, hello, how low?
Hello, hello, hello, how low?
Hello, hello, hello, how low?
Hello, hello, hello!

With the lights out, it's less dangerous
Here we are now, entertain us
I feel stupid and contagious
Here we are now, entertain us
A mulatto
An albino
A mosquito
My libido
A denial!!
A denial!!
A denial!!
A denial!!
A denial!!
A denial!!
A denial!!
A denial!!
A denial!!

Performed by Nirvana

mercoledì 14 settembre 2011

PUF!

Per chi interessato, per i pistoiesi o i toscani in generale:

quando a Pistoia viene fatto qualcosa.

Esserci.



PUF! Pistoia Underground Festival

lunedì 12 settembre 2011

David Foster Wallace (1962-2008)

Mi manca chiunque. Ricordo quando ero giovane e avvertivo una sensazione e la identificavo come nostalgia di casa, e poi pensavo che era proprio strano, visto che a casa ci vivevo.

venerdì 9 settembre 2011

La canzone del parco

(Cronaca degli amanti:) lui e lei ridono umidi baciano parole lievi leggère le piume se lui e lei fragili indecisioni al solito posto la solita ora se lei e lui sabato dopo la scuola lo fanno sul serio la colomba vola domani è lontano domani è lontano se mi ami ora se lui e lei ridono umidi baciano parole lievi leggère le piume se lei e lui timidi umidi scrivono platani con incisione di cuori sinceri se dicono 'ti voglio bene' il parco sorride la stagione viene se lei e lui nuvole di desideri si toccano puri Il prato respira domani è lontano domani è lontano se mi ami ora

(il parco:) penso che ho di nuovo i brividi e mi lascio prendere da domande inutili da poeti poveri sui miei rami umidi sulle foglie ultime a che cosa pensano questi umani fragili a che cosa servono i miei rami stupidi a che cosa servono se mi lascio prendere da pensieri inutili posso solo esistere In eterno vivere senza avere gli attimi degli amanti giovani degli amori giovani a che cosa pensano questi umani fragili a che cosa servono i miei rami stupidi a che cosa servono se mi lascio prendere da pensieri inutili a che cosa?

Performed by Baustelle

mercoledì 7 settembre 2011

Brevi interviste con uomini schifosi

More about Brevi interviste con uomini schifosi

Quando vennero presentati, lui fece una battuta, sperando di piacere. Lei rise a crepapelle, sperando di piacere. Poi se ne tornarono a casa in macchina, ognuno per conto suo, lo sguardo fisso davanti a sé, al stessa identica smorfia sul viso.
A quello che li aveva presentati nessuno dei due piaceva troppo, anche se faceva finta di si, visto che ci teneva tanto a mantenere sempre buoni rapporti con tutti. Sai, non si sa mai, in fondo, o invece si, o invece si.

E i sogno. Per mesi hai fatto sogni prima impensabili: umidi e intricati e distanti, pieni di curve cedevoli, pistoni impazziti, calore, e una caduta a picco; e sbattendo gli occhi ti sei svegliato con un afflusso e uno zampillo e un tumulto di sensazioni da far arricciare le punte dei piedi e rizzare i capelli sulla testa che venivano da un interno più profondo di quello che sapevi di avere, spasmi di sofferenza dolce e profonda, i lampioni ch attraversano le persiane della finestra esplodevano in stelle aguzze contro il soffitto nero della stanza, e addosso a te un impiastro bianco e denso che sguscia tra le gambe, sgocciola e si appiccica, ti si raffredda addosso, si indurisce e sbiadisce finché la mattina sotto la doccia non restano ch ciuffetti bitorzoluti di bianchi compatti peli animaleschi, e in quel groviglio bagnato un odore puro e dolce che non puoi credere venga da qualcosa che hai prodotto dentro di te.

Le nuvole prendono colore dall’orlo del cielo. L’acqua è tutto un tenue luccichio azzurrognolo, temperatura tiepida da cinque del pomeriggio, e l’odore della piscina, come quell’altro odore, si collega a una foschia chimica dentro di te, un offuscamento interiore che piega la luce ai propri fini, attenuando la differenza fra quello che smette e quello che comincia.

Il fatto che vado via non è una conferma di tutte le tue paure sul mio conto. Non lo è. È a causa delle tue paure. Okay? Lo capisci o no? Sono le tue paure che non riesco a mandar giù. Sono la tua sfiducia e la tua paura che ho cercato di combattere. E non posso più farlo. Si sono scaricate le batterie. Se ti amassi appena un po’ di meno lo manderei giù. Ma questa cosa mi sta uccidendo, la sensazione costane che ti spavento sempre e non ti faccio mai sentire sicura. Riesci a capirlo o no?

Darei qualsiasi cosa per non ferirti. Io ti amo. Ti amerò sempre. Spero che ci crederei, ma mi sono stufato di provare a convincerti. Ti prego solo di credere che ci ho provato.

La persona depressa inseriva mediamente quattro richieste di scuse ogni volta che raccontava al telefono alle amiche di sostegno questo tipo di dolorose e lesive circostanze del passato, nonché una sorta di preambolo dove cercava di descrivere quanto fosse doloroso e spaventevole non sentirsi capace di tradurre in parole neanche il dolore straziante della depressione cronica e dover invece ricorrere al racconto di esempi che potevano risultare, si premurava sempre di ammettere, tediosi o autocommiserativi o farla sembrare una di quelle persone con l’ossessione narcisistica per la propria “infanzia dolorosa” e “vita dolorosa” che sguazzano nelle proprie miserie e insistono a propinarle tirandola noiosamente per le lunghe ad amiche che cercano di dimostrare sostengo e incoraggiamento, e le annoiano e le disgustano.

L’esatta composizione di questo Sistema di Sostegno e i due o tre membri “centrali” più speciali, più fidati, col passare del tempo subirono un certo numero di cambiamenti e di rotazioni, che la terapeuta aveva incoraggiato la persona depressa a considerare come perfettamente normali e positivi, perché era solo assumendosi i rischi e esponendosi alle vulnerabilità necessarie ad approfondire i rapporti di sostegno che un individuo era in grado di scoprire quali amicizie potevano far fronte a quali esigenze e a che livello.

Aveva esternato come si sarebbe sentita incommensurabilmente orribile e patetica se fosse stata al posto dello sconosciuto ragazzo senza nome all’altro capo del filo, un ragazzo che cercava in buona fede di assumersi un rischio emotivo e contattare e cercare di stabilire un legame con la compagna di stanza sicura di sé, inconsapevole di essere un peso non gradito, pateticamente inconsapevole della silenziosa pantomima di noia e disgusto all’altro capo del filo, e come la persona depressa avesse in orrore forse più di qualsiasi altra cosa il fatto di trovarsi nella posizione di essere l’altra presenza nella stanza alla quale devi fare riferimento per aiutarti a escogitare una scusa per riagganciare.

La parola “patetica”, esternò candidamente la terapeuta, a lei spesso faceva l’effetto di un meccanismo auto difensivo che la persona depressa usava per proteggersi dai possibili giudizi negativi di un’ascoltatrice e rivelava chiaramente che la persona depressa si giudicava già molto più severamente di quanto una qualsiasi ascoltatrice avesse il coraggio di fare.

Tali comportamenti, in altre parole, erano primitive profilassi emotive la cui vera funzione era di precludere l’intimità; erano corazze psichiche per mantenere gli altri a distanza in modo che loro (cioè gli altri) non si avvicinassero emotivamente alla persona depressa tanto da infliggerle ferite che potevano fare da eco e specchio alle profonde ferite residuali risalenti all’infanzia della persona depressa, ferite che la persona depressa era inconsciamente decisa a tenere a tutti i costi represse.

Tanto per fare un esempio, esternò la persona depressa in interurbana, aveva scoperto e lottato in terapia per superare la sensazione che fossi ironico e umiliante, vista l preoccupazione disfunzionale dei suoi genitori per i soldi e tutto quanto quella preoccupazione le era costata da piccola, che lei ora, da adulta, si ritrovasse nella posizione di dover pagare una terapeuta 90 dollari all’ora perché l’ascoltasse pazientemente e rispondesse con onestà e partecipazione: cioè, era umiliante e patetico sentirsi costretti a comprare pazienza e partecipazione, aveva confessato la persona depressa alla terapeuta, ed era un’eco angosciosa dello stesso identico dolore infantile che lei (cioè la persona depressa) era così ansiosa di lasciarsi alle spalle.

La persona depressa esternò che l’implicazione più spaventosa di questo (cioè del fatto che, anche quando si concentrava e guardava in profondità dentro se stessa, la persona depressa sentiva di non riuscire a localizzare nessun sentimento vero per la terapeuta in quanto essere umano con un suo valore autonomo) sembrava essere che tutto il suo dolore e la sua disposizione angosciosi dopo il suicidio della terapeuta di fatto erano stati solo ed esclusivamente per se stessa, cioè per la propria perdita, il proprio abbandono, il proprio dolore, il proprio trauma e dolore e sopravvivenza affettiva primordiale. E, la persona depressa esternò che si stava assumendo il rischio aggiuntivo di rivelare, cosa ancora più spaventosa, che quell’insieme di illuminazioni sconvolgentemente terrificanti, ora invece di risvegliare in lei il minimo sentimento di compassione, partecipazione, e dolore etero diretto per la terapeuta come persona, aveva – e qui la persona depressa attese pazientemente che all’amica particolarmente fidata e disponibile passasse un attacco di conati di vomito, così da potersi assumere il rischio di esternarle questa cosa – che quelle illuminazioni sconvolgentemente terrificanti erano sembrate, in modo terrificante aver semplicemente fatto emergere e creato ancora altri e ulteriori sentimenti nella persona depressa riguardo a se stessa.

Chiedeva sinceramente, disse la persona depressa, onestamente, disperatamente: che razza di persona era una che sembrava non sentire niente – niente, sottolineò – per altri che se stessa?

Lei saprà sicuramente, per esperienza, che la reazione inconscia naturale di una persona, quando il linguaggio del corpo di un altro indica un ritrarsi, un farsi indietro, è automaticamente quella di farsi o spingersi avanti, per compensare o mantenere il rapporto spaziale originario.

Avere un atteggiamento stereotipato nei confronti di qualsiasi cosa è un grande errore, questo dico.

Non dico mica che è necessariamente vero ogni volta, ma chi siamo noi per dire in modo stereotipato che non è mai vero?

Da scoprire all’improvviso che il mondo può spezzarti: così.

Non c’è modo più rapido di mettersi l’ansia addosso e stroncare qualsiasi pressione umana nella cosa a cui stai lavorando che cercare di calcolare in anticipo se quella cosa “piacerà”. È semplicemente letale. Una analogia potrebbe essere: immagina di essere andato a una festa dove non conosci quasi nessuno, e poi tornando a casa all’improvviso ti rendi conto che per tutta la festa ti sei talmente preoccupato di capire se piacevi o no ai presenti che adesso non hai la minima idea se a te è piaciuto qualcuno di loro.

La chiave per la soluzione è che dovresti essere onesto al 100%. E questo non significa semplicemente sincero ma pressoché nudo. Peggio che nudo – più disarmato diciamo. Indifeso. “Questa cosa che sento, non so definirla chiaramente ma sembra importante, la senti anche tu?”

Ti piaccio? Vorrei tanto piacerti”, e sai benissimo che il 99% di tutta la manipolazione interumana e degli stronzissimi colpi bassi che avvengono avvengono proprio perché l’idea di dire chiara e tonda una cosa del genere in qualche modo è considerata oscena. In effetti uno dei pochi ultimissimi tabù interpersonali che ci rimangono è questo tipo di interrogazione diretta oscenamente nuda rivolta a un altro.

Nella terminologia profana dello sviluppo psichico, epifania è quando all’improvviso si capisce qualcosa che ti cambia la vita, e spesso catalizza la maturazione emotiva di un individuo. L’individuo, in un lampo accecante, “cresce”, “diventa grande”. “Liquida le cose infantili”. libera illusioni ammuffite e irrancidite dalla stretta degli anni. Diventa, nel bene e nel male, cittadino della realtà.
In realtà, le epifanie autentiche sono estremamente rare. Nella vita adulta contemporanea, maturazione e acquiescenza verso la realtà sono processi graduali, incrementali e spesso impercettibili, non dissimili dalla formazione di un calcolo renale. Nell’uso moderno di solito epifania viene utilizzato come metafora. Di solito è soltanto nelle rappresentazioni teatrali, nell’iconografia religiosa, e nel “pensiero magico” dei bambini che il frutto dell’intuizione è compresso in un unico lampo accecante.

Sopra il Massachusetts il cielo è imbrattato di stelle.

Lei gli chiede di immergersi nella parte più basse.

Sarah intorno a lui è acqua calda nell’acqua fredda.

Durante l’intera conversazione aveva un’espressione divertita che rendeva difficile non ricambiare il sorriso, e il bisogno involontario di sorridere è una delle più belle sensazioni a nostra disposizione, no?

Non credo ci sia bisogno di sottolineare che questa altro non è che una particolare variante femminile del bisogno psicologico di credere che gli altri ti prendono sul serio almeno quanto fai tu. Non c’è niente di male, finché si tratta di bisogni psicologici, dobbiamo però tenere presente che un bisogno profondo di ricevere una qualsiasi cosa dagli altri ci rende facili prede.

La luna tanto piena da sembrare congestionata. E i lunghi capelli sparsi dappertutto, più che… bellissimi capelli lucidi che ti fanno capire perché le donne usano i ristrutturanti. Silverglade, quel simpaticone dell’amico di Tad, mi dice che sembrava come se dai capelli le crescesse la testa anziché il contrario.

E niente risatine. La sua risata era pienamente adulta, piena, faceva piacere sentirla.

Come te la faresti sotto al pari di un ragazzino, su quanto rancore e disprezzo proveresti per quello stronzo perverso e contorto che blatera accanto a te e che uccideresti senza esitazione se potessi ma allo stesso tempo provi senza volerlo il massimo rispetto, una deferenza quasi… il puro potere attivante di uno capace di metterti paura, capace di portarti a quel punto semplicemente volendolo e che ora, se volesse, potrebbe portarti oltre, oltre te stesso, trasformarti in una scoperta agghiacciante, un brutale massacro sessuale, e hai la sensazione che faresti assolutamente qualsiasi cosa, o diresti o baratteresti qualsiasi cosa pur di lasciarti andare, o addirittura torturarti, disposto perfino a mettere sul tavolo delle trattative un po’ di tortura non letale se solo si accontenta di farti male e poi decide per qualsiasi ragione di andarsene lasciandoti ferito e boccheggiante fra le erbacce a singhiozzare al cielo e traumatizzato in maniere irreparabile piuttosto che essere ridotto a nulla, che sarà anche un cliché ma questo deve essere proprio tutto? doveva essere proprio questa la fine?

Mi colpiva che il comportamento da lei avuto durante lo stupro costituiva un modo involontario ma tatticamente ingegnoso in qualche modo di evitarlo, o trasfigurarlo, lo stupro, di trascenderne l’essenza di efferato attacco o violazione, perché se una donna quando uno stupratore le salta addosso e la monta selvaggiamente sceglie in un certo senso di darsi, sinceramente e compassionevolmente, non può essere davvero violentata o stuprata, no? Che con una specie di gioco di prestigio della psiche ora lei si stava dando anziché essere tra virgolette presa con la forza, e che in quel modo ingegnoso, senza opporre nessun tipo di resistenza, aveva negato allo stupratore la facoltà di dominare e prendere.

Diciamo, al momento culminante mentre fai l’amore, il culmine estremo, quando lei comincia a venire, quando ti sta davvero rispondendo e tu glielo leggi in faccia che sta cominciando a venire, gli occhi si ingrandiscono in quel modo che è sia sorpesa sia riconoscimento che non c’p donna al mondo capace di simulare o contraffare se la guardi davvero attentamente negli occhi e la vedi davvero, sa bene di cosa parlo, il momento apicale di massimo contatto sessuale umano quando ti senti più vicino a lei, con lei, tanto più vicino e reale e estatico di quanto vieni tu, che sembra sempre un po’ come mollare la presa della persona che ti ha agguantato per impedirti di cadere, un banalissimo starnuto neurale talmente lontano da lei e da come lei viene da non avere nemmeno lo stesso prefisso di zona, e – e lo so questa come la prenderà ma gliela dico lo stesso – ma come perfino quel momento di massimo contatto e trionfo congiunto e gioia per il fatto di farle cominciare a venire ha in sé questo vuoto di tristezza pungente, di prenderle nei loro occhi mentre i loro occhi si dilatano fino al punto di massima ampiezza e poi quando cominciano a venire quelli cominciano a serrarsi, si chiudono, gli occhi, e tu senti quel famigliare piccolo ago di tristezza dentro la tua esultanza mentre loro si inarcano e chiudono gli occhi e tu senti che hanno chiuso gli occhi per lasciarti fuori, sei diventato un intruso, ora la loro unione è con la sensazione stessa, con l’orgasmo, che dietro quelle palpebre calate ora gli occhi sono completamente arrovesciati e fissano attentamente all’interno, dentro un vuoto dove tu che le hai portate fin lì non puoi seguirle.

David Foster Wallace

lunedì 5 settembre 2011

Agosto 2011


"Si abbracciarono così stretti che non rimase spazio per i sentimenti."

Stanislaw J. Lec