mercoledì 7 settembre 2011

Brevi interviste con uomini schifosi

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Quando vennero presentati, lui fece una battuta, sperando di piacere. Lei rise a crepapelle, sperando di piacere. Poi se ne tornarono a casa in macchina, ognuno per conto suo, lo sguardo fisso davanti a sé, al stessa identica smorfia sul viso.
A quello che li aveva presentati nessuno dei due piaceva troppo, anche se faceva finta di si, visto che ci teneva tanto a mantenere sempre buoni rapporti con tutti. Sai, non si sa mai, in fondo, o invece si, o invece si.

E i sogno. Per mesi hai fatto sogni prima impensabili: umidi e intricati e distanti, pieni di curve cedevoli, pistoni impazziti, calore, e una caduta a picco; e sbattendo gli occhi ti sei svegliato con un afflusso e uno zampillo e un tumulto di sensazioni da far arricciare le punte dei piedi e rizzare i capelli sulla testa che venivano da un interno più profondo di quello che sapevi di avere, spasmi di sofferenza dolce e profonda, i lampioni ch attraversano le persiane della finestra esplodevano in stelle aguzze contro il soffitto nero della stanza, e addosso a te un impiastro bianco e denso che sguscia tra le gambe, sgocciola e si appiccica, ti si raffredda addosso, si indurisce e sbiadisce finché la mattina sotto la doccia non restano ch ciuffetti bitorzoluti di bianchi compatti peli animaleschi, e in quel groviglio bagnato un odore puro e dolce che non puoi credere venga da qualcosa che hai prodotto dentro di te.

Le nuvole prendono colore dall’orlo del cielo. L’acqua è tutto un tenue luccichio azzurrognolo, temperatura tiepida da cinque del pomeriggio, e l’odore della piscina, come quell’altro odore, si collega a una foschia chimica dentro di te, un offuscamento interiore che piega la luce ai propri fini, attenuando la differenza fra quello che smette e quello che comincia.

Il fatto che vado via non è una conferma di tutte le tue paure sul mio conto. Non lo è. È a causa delle tue paure. Okay? Lo capisci o no? Sono le tue paure che non riesco a mandar giù. Sono la tua sfiducia e la tua paura che ho cercato di combattere. E non posso più farlo. Si sono scaricate le batterie. Se ti amassi appena un po’ di meno lo manderei giù. Ma questa cosa mi sta uccidendo, la sensazione costane che ti spavento sempre e non ti faccio mai sentire sicura. Riesci a capirlo o no?

Darei qualsiasi cosa per non ferirti. Io ti amo. Ti amerò sempre. Spero che ci crederei, ma mi sono stufato di provare a convincerti. Ti prego solo di credere che ci ho provato.

La persona depressa inseriva mediamente quattro richieste di scuse ogni volta che raccontava al telefono alle amiche di sostegno questo tipo di dolorose e lesive circostanze del passato, nonché una sorta di preambolo dove cercava di descrivere quanto fosse doloroso e spaventevole non sentirsi capace di tradurre in parole neanche il dolore straziante della depressione cronica e dover invece ricorrere al racconto di esempi che potevano risultare, si premurava sempre di ammettere, tediosi o autocommiserativi o farla sembrare una di quelle persone con l’ossessione narcisistica per la propria “infanzia dolorosa” e “vita dolorosa” che sguazzano nelle proprie miserie e insistono a propinarle tirandola noiosamente per le lunghe ad amiche che cercano di dimostrare sostengo e incoraggiamento, e le annoiano e le disgustano.

L’esatta composizione di questo Sistema di Sostegno e i due o tre membri “centrali” più speciali, più fidati, col passare del tempo subirono un certo numero di cambiamenti e di rotazioni, che la terapeuta aveva incoraggiato la persona depressa a considerare come perfettamente normali e positivi, perché era solo assumendosi i rischi e esponendosi alle vulnerabilità necessarie ad approfondire i rapporti di sostegno che un individuo era in grado di scoprire quali amicizie potevano far fronte a quali esigenze e a che livello.

Aveva esternato come si sarebbe sentita incommensurabilmente orribile e patetica se fosse stata al posto dello sconosciuto ragazzo senza nome all’altro capo del filo, un ragazzo che cercava in buona fede di assumersi un rischio emotivo e contattare e cercare di stabilire un legame con la compagna di stanza sicura di sé, inconsapevole di essere un peso non gradito, pateticamente inconsapevole della silenziosa pantomima di noia e disgusto all’altro capo del filo, e come la persona depressa avesse in orrore forse più di qualsiasi altra cosa il fatto di trovarsi nella posizione di essere l’altra presenza nella stanza alla quale devi fare riferimento per aiutarti a escogitare una scusa per riagganciare.

La parola “patetica”, esternò candidamente la terapeuta, a lei spesso faceva l’effetto di un meccanismo auto difensivo che la persona depressa usava per proteggersi dai possibili giudizi negativi di un’ascoltatrice e rivelava chiaramente che la persona depressa si giudicava già molto più severamente di quanto una qualsiasi ascoltatrice avesse il coraggio di fare.

Tali comportamenti, in altre parole, erano primitive profilassi emotive la cui vera funzione era di precludere l’intimità; erano corazze psichiche per mantenere gli altri a distanza in modo che loro (cioè gli altri) non si avvicinassero emotivamente alla persona depressa tanto da infliggerle ferite che potevano fare da eco e specchio alle profonde ferite residuali risalenti all’infanzia della persona depressa, ferite che la persona depressa era inconsciamente decisa a tenere a tutti i costi represse.

Tanto per fare un esempio, esternò la persona depressa in interurbana, aveva scoperto e lottato in terapia per superare la sensazione che fossi ironico e umiliante, vista l preoccupazione disfunzionale dei suoi genitori per i soldi e tutto quanto quella preoccupazione le era costata da piccola, che lei ora, da adulta, si ritrovasse nella posizione di dover pagare una terapeuta 90 dollari all’ora perché l’ascoltasse pazientemente e rispondesse con onestà e partecipazione: cioè, era umiliante e patetico sentirsi costretti a comprare pazienza e partecipazione, aveva confessato la persona depressa alla terapeuta, ed era un’eco angosciosa dello stesso identico dolore infantile che lei (cioè la persona depressa) era così ansiosa di lasciarsi alle spalle.

La persona depressa esternò che l’implicazione più spaventosa di questo (cioè del fatto che, anche quando si concentrava e guardava in profondità dentro se stessa, la persona depressa sentiva di non riuscire a localizzare nessun sentimento vero per la terapeuta in quanto essere umano con un suo valore autonomo) sembrava essere che tutto il suo dolore e la sua disposizione angosciosi dopo il suicidio della terapeuta di fatto erano stati solo ed esclusivamente per se stessa, cioè per la propria perdita, il proprio abbandono, il proprio dolore, il proprio trauma e dolore e sopravvivenza affettiva primordiale. E, la persona depressa esternò che si stava assumendo il rischio aggiuntivo di rivelare, cosa ancora più spaventosa, che quell’insieme di illuminazioni sconvolgentemente terrificanti, ora invece di risvegliare in lei il minimo sentimento di compassione, partecipazione, e dolore etero diretto per la terapeuta come persona, aveva – e qui la persona depressa attese pazientemente che all’amica particolarmente fidata e disponibile passasse un attacco di conati di vomito, così da potersi assumere il rischio di esternarle questa cosa – che quelle illuminazioni sconvolgentemente terrificanti erano sembrate, in modo terrificante aver semplicemente fatto emergere e creato ancora altri e ulteriori sentimenti nella persona depressa riguardo a se stessa.

Chiedeva sinceramente, disse la persona depressa, onestamente, disperatamente: che razza di persona era una che sembrava non sentire niente – niente, sottolineò – per altri che se stessa?

Lei saprà sicuramente, per esperienza, che la reazione inconscia naturale di una persona, quando il linguaggio del corpo di un altro indica un ritrarsi, un farsi indietro, è automaticamente quella di farsi o spingersi avanti, per compensare o mantenere il rapporto spaziale originario.

Avere un atteggiamento stereotipato nei confronti di qualsiasi cosa è un grande errore, questo dico.

Non dico mica che è necessariamente vero ogni volta, ma chi siamo noi per dire in modo stereotipato che non è mai vero?

Da scoprire all’improvviso che il mondo può spezzarti: così.

Non c’è modo più rapido di mettersi l’ansia addosso e stroncare qualsiasi pressione umana nella cosa a cui stai lavorando che cercare di calcolare in anticipo se quella cosa “piacerà”. È semplicemente letale. Una analogia potrebbe essere: immagina di essere andato a una festa dove non conosci quasi nessuno, e poi tornando a casa all’improvviso ti rendi conto che per tutta la festa ti sei talmente preoccupato di capire se piacevi o no ai presenti che adesso non hai la minima idea se a te è piaciuto qualcuno di loro.

La chiave per la soluzione è che dovresti essere onesto al 100%. E questo non significa semplicemente sincero ma pressoché nudo. Peggio che nudo – più disarmato diciamo. Indifeso. “Questa cosa che sento, non so definirla chiaramente ma sembra importante, la senti anche tu?”

Ti piaccio? Vorrei tanto piacerti”, e sai benissimo che il 99% di tutta la manipolazione interumana e degli stronzissimi colpi bassi che avvengono avvengono proprio perché l’idea di dire chiara e tonda una cosa del genere in qualche modo è considerata oscena. In effetti uno dei pochi ultimissimi tabù interpersonali che ci rimangono è questo tipo di interrogazione diretta oscenamente nuda rivolta a un altro.

Nella terminologia profana dello sviluppo psichico, epifania è quando all’improvviso si capisce qualcosa che ti cambia la vita, e spesso catalizza la maturazione emotiva di un individuo. L’individuo, in un lampo accecante, “cresce”, “diventa grande”. “Liquida le cose infantili”. libera illusioni ammuffite e irrancidite dalla stretta degli anni. Diventa, nel bene e nel male, cittadino della realtà.
In realtà, le epifanie autentiche sono estremamente rare. Nella vita adulta contemporanea, maturazione e acquiescenza verso la realtà sono processi graduali, incrementali e spesso impercettibili, non dissimili dalla formazione di un calcolo renale. Nell’uso moderno di solito epifania viene utilizzato come metafora. Di solito è soltanto nelle rappresentazioni teatrali, nell’iconografia religiosa, e nel “pensiero magico” dei bambini che il frutto dell’intuizione è compresso in un unico lampo accecante.

Sopra il Massachusetts il cielo è imbrattato di stelle.

Lei gli chiede di immergersi nella parte più basse.

Sarah intorno a lui è acqua calda nell’acqua fredda.

Durante l’intera conversazione aveva un’espressione divertita che rendeva difficile non ricambiare il sorriso, e il bisogno involontario di sorridere è una delle più belle sensazioni a nostra disposizione, no?

Non credo ci sia bisogno di sottolineare che questa altro non è che una particolare variante femminile del bisogno psicologico di credere che gli altri ti prendono sul serio almeno quanto fai tu. Non c’è niente di male, finché si tratta di bisogni psicologici, dobbiamo però tenere presente che un bisogno profondo di ricevere una qualsiasi cosa dagli altri ci rende facili prede.

La luna tanto piena da sembrare congestionata. E i lunghi capelli sparsi dappertutto, più che… bellissimi capelli lucidi che ti fanno capire perché le donne usano i ristrutturanti. Silverglade, quel simpaticone dell’amico di Tad, mi dice che sembrava come se dai capelli le crescesse la testa anziché il contrario.

E niente risatine. La sua risata era pienamente adulta, piena, faceva piacere sentirla.

Come te la faresti sotto al pari di un ragazzino, su quanto rancore e disprezzo proveresti per quello stronzo perverso e contorto che blatera accanto a te e che uccideresti senza esitazione se potessi ma allo stesso tempo provi senza volerlo il massimo rispetto, una deferenza quasi… il puro potere attivante di uno capace di metterti paura, capace di portarti a quel punto semplicemente volendolo e che ora, se volesse, potrebbe portarti oltre, oltre te stesso, trasformarti in una scoperta agghiacciante, un brutale massacro sessuale, e hai la sensazione che faresti assolutamente qualsiasi cosa, o diresti o baratteresti qualsiasi cosa pur di lasciarti andare, o addirittura torturarti, disposto perfino a mettere sul tavolo delle trattative un po’ di tortura non letale se solo si accontenta di farti male e poi decide per qualsiasi ragione di andarsene lasciandoti ferito e boccheggiante fra le erbacce a singhiozzare al cielo e traumatizzato in maniere irreparabile piuttosto che essere ridotto a nulla, che sarà anche un cliché ma questo deve essere proprio tutto? doveva essere proprio questa la fine?

Mi colpiva che il comportamento da lei avuto durante lo stupro costituiva un modo involontario ma tatticamente ingegnoso in qualche modo di evitarlo, o trasfigurarlo, lo stupro, di trascenderne l’essenza di efferato attacco o violazione, perché se una donna quando uno stupratore le salta addosso e la monta selvaggiamente sceglie in un certo senso di darsi, sinceramente e compassionevolmente, non può essere davvero violentata o stuprata, no? Che con una specie di gioco di prestigio della psiche ora lei si stava dando anziché essere tra virgolette presa con la forza, e che in quel modo ingegnoso, senza opporre nessun tipo di resistenza, aveva negato allo stupratore la facoltà di dominare e prendere.

Diciamo, al momento culminante mentre fai l’amore, il culmine estremo, quando lei comincia a venire, quando ti sta davvero rispondendo e tu glielo leggi in faccia che sta cominciando a venire, gli occhi si ingrandiscono in quel modo che è sia sorpesa sia riconoscimento che non c’p donna al mondo capace di simulare o contraffare se la guardi davvero attentamente negli occhi e la vedi davvero, sa bene di cosa parlo, il momento apicale di massimo contatto sessuale umano quando ti senti più vicino a lei, con lei, tanto più vicino e reale e estatico di quanto vieni tu, che sembra sempre un po’ come mollare la presa della persona che ti ha agguantato per impedirti di cadere, un banalissimo starnuto neurale talmente lontano da lei e da come lei viene da non avere nemmeno lo stesso prefisso di zona, e – e lo so questa come la prenderà ma gliela dico lo stesso – ma come perfino quel momento di massimo contatto e trionfo congiunto e gioia per il fatto di farle cominciare a venire ha in sé questo vuoto di tristezza pungente, di prenderle nei loro occhi mentre i loro occhi si dilatano fino al punto di massima ampiezza e poi quando cominciano a venire quelli cominciano a serrarsi, si chiudono, gli occhi, e tu senti quel famigliare piccolo ago di tristezza dentro la tua esultanza mentre loro si inarcano e chiudono gli occhi e tu senti che hanno chiuso gli occhi per lasciarti fuori, sei diventato un intruso, ora la loro unione è con la sensazione stessa, con l’orgasmo, che dietro quelle palpebre calate ora gli occhi sono completamente arrovesciati e fissano attentamente all’interno, dentro un vuoto dove tu che le hai portate fin lì non puoi seguirle.

David Foster Wallace

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