lunedì 19 settembre 2011

La strada

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Ricordati che le cose che ti entrano in testa poi ci restano per sempre, gli disse. Forse dovresti rifletterci.
Però certe cose uno se le dimentica, no?
Si, ci dimentichiamo le cose che vorremmo ricordare e ricordiamo quelle che vorremmo dimenticare.

Quella era stata la giornata ideale della sua infanzia. La giornata su cui modellare tutte le giornate a venire.

Mai è un sacco di tempo.

Mai è un sacco di tempo. Ma il bambino la sapeva lunga. E sapeva che mai è l’assenza di qualsiasi tempo.

Domanda: che differenza c’è fra ciò che non sarà mai e ciò che non è mai stato?

Durante la notte sulle montagne sopra di loro si scatenò un temporale che fra tuoni e schianti avanzò cannoneggiando verso valle, mentre il mondo livido e nudo riemergeva a sprazzi dal buio della notte nel chiarore velato dei fulmini.

Le persone che non hanno nessuno farebbero bene a imbastirsi qualche fantasma decente.

Il bambino si strofinò via il sonno dagli occhi con il dorso delle mani.

Ma se uno fosse l’ultimo uomo sulla faccia della terra, come farebbe a saperlo? Disse.
Be’, suppongo che non lo saprebbe. Lo sarebbe e basta.
Non lo saprebbe nessuno.
Non cambierebbe nulla. Quando si muore è come se morissero anche tutti gli altri.

Le cose andranno meglio quando non ci sarà più nessuno.
Davvero?
Certo.
Meglio per chi?
Per tutti.
Per tutti.
Certo. Staremo tutti meglio. Respireremo più facilmente.
Buono a sapersi.
Si, infatti. Quando ce ne saremo andati tutti qui resterà solo la morte, e anche lei avrà i giorni contati. Vagherà per la strada senza niente da fare e nessuno a cui farlo. Dirà: dove sono finiti tutti? Ecco come andrà. E che c’è di male?

Non ci augura nemmeno buona fortuna?, disse l’uomo.
Non so neanche che cosa significhi. Com’è fatta la fortuna? Chi può dirlo?

Il bambino si alzò e lasciò cadere la coperta sulla sabbia, si tolse il giaccone, le scarpe e i vestiti. Rimase lì nudo, con le braccia strette attorno al corpo, saltellando. Poi partì di corsa verso la riva. Così bianco. La spina dorsale tutta nodi. Le scapole che andavano e venivano come lame sotto la pelle candida. Di corsa nudo e ballonzolante e urlante in mezzo alle onde che si srotolavano lente sul bagnasciuga.

Il sapore del sale sulle labbra. L’attesa. L’attesa. Poi il lento boato dell’onda che si abbatte. Il sibilo effervescente dell’acqua che si spande sulla sabbia e si ritira.

Nelle secche a pochi passi dagli scogli un cadavere vecchio di chissà quanto fluttuava tra i pezzi di legno portati lì dalla corrente. Avrebbe voluto nasconderlo al bambino, ma il bambino aveva ragione. Cosa c’era da nascondere?

Una palude morta. Alberi senza vita che spuntavano dall’acqua grigia con barbe di muschio fossile. I soffici mucchietti di cenere contro lo spigolo dell’asfalto. L’uomo si fermò e si sporse dal parapetto di cemento ruvido. Forse, guardandone la distruzione, finalmente sarebbero riusciti a vedere come era fatto il mondo. I mari, le montagne. Il poderoso contro spettacolo delle cose che cessano di esistere. La sconfinata desolazione, idropica e gelidamente terrena. Il silenzio.

Cormac McCarthy

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