martedì 23 aprile 2013

Uno schifo

Il problema con lui era che non lo potevi accusare. Ogni sua mossa, ogni sua occhiata, anche la più fastidiosa sbirciata furtiva, poteva essere giustificata da gesti normali piegati quel tanto da rientrare nella quotidianità. Per quanto fosse viscido e tutte noi odiassimo il suo modo di guardarci, non potevamo fare nulla.
Quando ti sentivi osservata e percepivi il suo sguardo scenderti sul culo o accarezzarti il seno, appena ti voltavi o alzavi lo sguardo per coglierlo in fragrante, lo vedevi intento a fare qualcos'altro, qualcosa che lo giustificava per essersi messo in quella posizione tanto assurda da permettergli di intravederti dalla finestra, o per l'inclinazione della sua testa, ai limiti del naturale, che lo portava ad avere una visuale perfetta sulle tue gambe accavallate che, senza neppure rendertene conto, avevano sfasciato le cosce della gonna, lasciando quel tratto alto vicino all'inguine bene in vista: nessuno se ne poteva accorgere, per quanto irrisoria quella piccola innocente nudità, neppure te stessa; lui invece coglieva quell'attimo, i secondi di sospensione durante i quali ogni cosa è successa e ancora non è stata rimediata. Tu ti scrollavi di dosso il suo sguardo, senza riuscire a trattenere un piccolo brivido di disgusto, e scavallavi le gambe rimettendo a posto la gonna, portandola alla sua naturale lunghezza – mini, non micro – lui era già tornato a fare ciò che stava facendo prima di. Aveva succhiato la tua immagine, quella delle tue gambe scoperte, traendone un intimo piacere che magari lo aveva scosso alla spina dorsale di emozioni vagamente sessuali, e ne era uscito per così dire ‘pulito’. Se avesse appoggiato le sue labbra su una cannuccia di plastica, infilata in te ad affondare dentro le tue gambe (sempre le gambe, come se fossero il punto di accesso o l’unica zona indifesa, ma poteva essere una qualsiasi altra parte del tuo corpo, scegli te, quella che ti rende più vulnerabile), nel momento in cui ti volti, quando ti accorgi che qualcuno ti sta aspirando via, lui starebbe lì a due passi da te, vicino, ma senza più la cannuccia in bocca; la sua vicinanza sarebbe a causa di un oggetto caduto per terra e che lui stava raccogliendo, oppure perché doveva accogliere una persona che per puro caso stava arrivando alle tue spalle e di cui tu non ti eri ancora accorta. Non potevi inchiodarlo al muro e urlargli di smettere di fare il maiale (in modo passivo, come i passivo-aggressivi) a voce talmente alta da strappargli via le palpebre. Lui aveva una scusa sempre pronta, e la poteva usare in qualsiasi momento per farti passare per una sciocca paranoica.
Ed era questo che ti opprimeva più di ogni altra cosa: ti violentava senza neppure toccarti, e qualora lo avessi denunciato (in un modo qualunque, non solo a livello penale) faceva in modo di passare pure per vittima. Schifoso.

lunedì 22 aprile 2013

Principianti

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Mi piacerebbe perdonare e dimenticare, sa, ma non ci riesco. Fa ancora male. Il problema è tutto lì: non riesco né a perdonare né a dimenticare.

Sapevamo, senza dovercelo dire, che qualcosa era finito, ma cosa sarebbe cominciato al posto suo, nessuno dei due era ancora in grado di immaginarlo.

All’improvviso, ora gli tornò in mente un periodo ancora precedente in cui aveva pregato con già fervore che mai, quando aveva ventun anni e ancora credeva nel potere della preghiera. Quella volta aveva pregato una notte intera per suo padre, perché si rimettesse da un brutto incidente di macchina. E invece suo padre era morto lo stesso.

Due cose sono sicure: uno, ormai alla gente non gliene frega più niente di quello che succede agli altri; due, alla gente non gliene frega più niente di niente in assoluto.

Aveva avuto un’intuizione quella volta, una rivelazione a proposito di questa seduzione che poi, in seguito, per quanto si sforzi, non riesce più a ricordare.

È una ragazza in gamba, magra, attraente. Il padre ne va fiero, è contento e grato che lei abbia superato l’adolescenza senza danni e sia diventata una giovane donna.

Nella vita ci sono un sacco di contraddizioni. Non si può star sempre a pensare a tutte le contraddizioni.

“In effetti che ne sappiamo noi dell’amore? – ha proseguito Herb. – E quel che dico, be’, lo dico davvero, se volete perdonarmi la franchezza. Ma, secondo me, siamo tutti nient’altro che principianti, in fatto d’amore.

Ci sono altri – non tu, tesoro, non sto parlando di te, naturalmente -, ci sono altri che ci si mettono d’impegno per essere infelici e per rimanere tali.

Raymond Carver

venerdì 19 aprile 2013

Ho Hey

(Ho!) I've been trying to do it right
(Hey!) I've been living a lonely life
(Ho!) I've been sleeping here instead
(Hey!)I've been sleeping in my bed,
(Ho!) I've been sleeping in my bed (Hey!)

(Ho!)

(Ho!) So show me family
(Hey!) All the blood that I would bleed
(Ho!) I don't know where I belong
(Hey!) I don't know where I went wrong
(Ho!) But I can write a song (Hey!)

1,2,3 I belong with you, you belong with me you're my sweetheart
I belong with you, you belong with me you're my sweet (Ho!)

(hey!)
(ho!)
(hey!)

(ho!) I don't think you're right for him
(hey!) Look at what it might have been if you
(ho!) Took the bus to china town
(hey!) I've been standing on Canal
(ho!) And Bowery (hey!)
(ho!) And she'd be standing next to me (hey!)

1,2,3 I belong with you you belong with me you're my sweet heart
I belong with you, you belong with me you're my sweet heart

And love we need is now
Let's hope for some
Cause oh, we're bleeding out

I belong with you you belong with me you're my sweet heart
I belong with you you belong with me you're my sweet (Ho!)

(Hey!)
(Ho!)
(Hey!)

Performed by The Lumineers

mercoledì 17 aprile 2013

Il grande e potente Oz

È abbastanza facile capire la natura di questo nuovo Il grande e potente Oz, basta notare che a produrlo è la stessa persona che stava dietro ad Alice in Wonderland. In entrambi i casi la domanda da porsi è essenzialmente: si sentiva davvero la necessità di fare questo film? Per quanto riguarda il lavoro tratto dalle opere di L. Frank Baum, ovvero questo filmetto targato Sam Raimi, in effetti una certa curiosità di cosa fosse successo prima de Il mago di Oz del 1939, almeno per le mie memorie di bambino, c’è sempre stata, anche perché la pellicola con Judy Garland e le sue scarpette rosse prestava molto il fianco a un possibile prequel e lasciava ampi spazi di manovra. Quindi, almeno per questa iniziale domanda, si, alla base Il grande e potente Oz ha più senso di esistere di Alice in Wonderland.
Dopo aver chiarito questo dubbio bisogna capire se poi tutto il lavoro che sta dietro a un film sia stato svolto diligentemente, almeno da rendere il suddetto film apprezzabile. Sotto questo aspetto mi viene da dire che alla fin dei conti, la pellicola di Raimi e quella di Burton più o meno si eguagliano. Esci dalla sala con la stessa sensazione di avere assistito a uno spettacolo messo su soprattutto per strizzare l’occhio agli spettatori che hanno già visto le storie precedenti. Anche in questo caso si rivedono luoghi cari, si incontrano personaggi che poi verranno ripresi in uno sbalzo temporale passato più avanti, e ci sono dei piccoli omaggi ad altri aspetti già visti.
Il tutto condito da un cast stellare dove James Franco sembra gigioneggiare in modo svogliato, Rachel Weisz intenta a svolgere diligentemente il compitino, una candida Michelle Williams che pare camminare sulle uova, uno Zach Braff liquidato velocemente (almeno a livello visivo), e una Mila Kunis che alla fine sembra essere l’unica che crede un po’ più seriamente a tutto il progetto.
Il film si lascia comunque vedere, nonostante il 3D sia veramente fatto male (almeno nello spettacolo a cui ho assistito, era tutto quanto molto scuro e i colori tendevano a sparire), sfoggiando dei bellissimi abiti di scena e scenografie colorate che in 2D molto probabilmente dovrebbero essere sfavillanti. Si, ok, ma per il resto forse avrebbe fatto bene una virata un po’ più indipendente dal film del ’39 e magari anche un protagonista un po’ più in palla (nel doppiaggio italiano tra l’altro non si capisce mai se il personaggio urla o ride).

martedì 16 aprile 2013

Psicanalizzare in auto

Gli psicanalisti smettono di lavorare alle sei, ma per te faccio un’eccezione e oltre a trasformarmi in, vengo a prenderti a casa cercando di sistemare quanto è possibile sistemare: un fallimento su tutti i fronti, mentre il peso dello sconforto di persone speranzose comincia a schiacciare la schiena con aspettative che non sono riuscito, aimè, a trasformare in realtà.
Cerco di rimediare trasformando il sedile dell’auto in un lettino sul quale farti stendere e farti raccontare la tua infanzia. Ti dico: dimmi: cosa c’è che non va? E poi me ne resto ad ascoltare annuendo di tanto in tanto, incapace di fare niente proprio come avvenuto in casa, solo ora su quattro ruote, mentre la notte avvolge strade che non riconosci più e nelle quale ti perderesti all’istante se lasciata sola. Vorrei fare di più, ma non so proprio come potrei. Aggirare stupidi vincoli familiari ai quali sei legata dalla nascita, tagliare cordoni ombelicali che ti portano a comprare scarpe color salmone appena scesa dall’aereo. E i treni, quelli che ti portano a casa quando vuoi una vacanza che in fondo non è vacanza. Si dovrebbe essere rilassati, no? Continui a domandare.
Io faccio, o cerco di fare, l’unica cosa che credo di fare bene, ovvero: provo a farti ridere. Dimenticare tutto quanto non è la soluzione – né migliore né peggiore, non è la soluzione, punto – ma può aiutare a far scivolare i problemi senza troppo traumi. Così giro scherzosamente il coltello nella piaga e ti chiedo: che lavoro fa?
Tu ridi per un istante, di gusto, di quel riso che prima era più costante e che sentivo spesso al telefono quando mi chiamavi per alleggerire una tensione che non riuscivi più a sopportare. Ridi per un attimo, facendomi sentire quantomeno un poco utile, perché se ridi vuol dire che i problemi ti hanno abbandonato per un poco, giusto il tempo necessario a ridere: è come se il tuo sorriso spazzasse via i problemi. Se ridi la mente è sgombra, non pensi al costo di telefonata internazionali, né all’impossibilità di vedere e/o sentire persone che ti stanno a cuore, né hai tempo per pensare a chi dovrebbe esserti vicino e che invece sembra infischiarsene di tutto mettendoti i bastoni tra le ruote: ridi e basta, e mentre ridi ridi soltanto, non hai preoccupazioni. Il tuo sorriso è il mio traguardo, il segno chiaro che ho raggiunto il mio obbiettivo.
Poi invece mi chiedi un gelato. Non un birra: un gelato. A mezzanotte e quasi, trovare una gelateria aperta, di quelle artigianali, è un’impresa ardua, tanto che giro per le strade senza sapere neppure dove portarti. In su, in giù, a destra, a sinistra. Tutte le serrande sono abbassate, i negozi chiuso. Non c’è vita, dici tu ancora sdraiata sul lettino. Che lavoro fa? Ti chiedo io, e tu riparti.
Raggiungiamo un accordo, dimenticando per un attimo il mio stupido compromesso e la tua insana richiesta (“Dove lo trovo io ora, a quest’ora? Senza preavviso.” “La prossima volta dobbiamo essere preparati.” “A saperlo.” “Chiediamo alle puttane.” E la tua attenzione viene rapita, perché ogni volta che torni le rivedi, le puttane, e ti sembra sempre incredibile vederle lì ai bordi delle strade, tutte svestite in quel modo, loro: le puttane). Ci accordiamo per una pizza, di quelle al taglio comprate in un forno clandestino, che se la guardia di finanza facesse una retata ci porterebbe tutti quanti via.
Prendiamo la pizza e andiamo a casa parlare. Guardiamo viaggi che non abbiamo fatto e ci discutiamo tutti insieme di parrucchieri che non sanno fare il proprio lavoro, o che lo demandano a giovani inesperti. Tutto lì, sulla tua testa, ma c’è sempre di peggio, ricorda: ci sono parrucchieri che ti lascerebbero andare in giro con quei capelli lì, senza dirti niente. Certa gente si dovrebbe rifiutare, invece.
Poi ti riaccompagno a casa, quando tutto è passato, e tra un paio di puttane e un incrocio, un autovelox e due caselli, sei di nuovo via. Chissà quando tornerai per una vacanza che non ha affatto il sapore di una vacanza. Non sai rispondermi e io neppure, nel frattempo ti aspetto preparando il lettino. Spero che tu veda chi vuoi vedere, e tu senta senza spendere troppo.

lunedì 15 aprile 2013

L'amore non guasta

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“La gente dovrebbe pensare molto attentamente prima di parlare.”
“Cioè?”
Robin era proteso in avanti, per la prima volta assertivo e comunicativo.
“Vogli dire che una parola può essere un’arma letale.”

A Natale la gente non sopporta di essere infelice. In qualunque altro periodo dell’anno passi, ma se sono infelici a Natale sanno nel profondo del cuore di essere infelici in modo insanabile.

Fai finta di trascrivere i pensieri dei tuoi personaggi (grazie poi a quale particolare talento introspettivo?) mentre in realtà non sono altro che i tuoi, camuffati appena.

Finisci per non dire mai quello che pensi, e ti limiti a dire quello che credi che l’altro voglia sentirsi dire. Ti fabbrichi una verità diversa per ciascun contesto.

E allora fallo, Emma, per l’amor del cielo fallo. Sii egoista per una volta in vita tua. Da quanto tempo non sei egoista?

C’era Colin Smith – con un nome del genere, come si può non diventare una figura eminente? – che senza dubbio avrebbe fatto molta strada e sarebbe diventato un poeta, un critico, un uomo di lettere stimato universalmente se non avesse avuto il problemino di alzarsi dal letto tute le mattine, e se (questa la devo proprio dire) se si fosse mai abbassato a scrivere almeno una delle cose che era sempre in procinto di scrivere.

Il problema d’inquadrare che tipo d’uomo sarò a quarantasei anni è che non ho idea, veramente non ho la minima idea, di che tipo d’uomo sono ora.

Come molte persone, mi piace trascinarmi questo senso dell’occasione perduta, perché dà alla mia vita una sorta di patina estetica ed è una buona scusa per sentirmi infelice quando le cose non vanno bene.

Robert pensava ogni volta tra sé: “Io non cercherei la guancia, se solo lei mi offrisse le labbra”, mentre Kathleen pensava ogni volta tra sé: “Io le labbra gliele offrirei pure, ma lui è sempre così lesto a cercare la guancia”. Ciò nonostante facevano tesoro di quegl’attimi, malgrado confusioni e tentennamenti.

Il riso femminile e il riso maschile sono completamente diversi. Io credo che il riso delle donne tu non lo capisca affatto: perché è tutt’uno con l alberazione, con il lasciarsi andare.

Tu non hai proprio capito l’essenza dell’amicizia. Tipico degli uomini. Appena cominciano a provare un’amicizia vera per una donna non ce la fanno più a reggerla, e così la convertono in una cosina sentimentale. Ed è allora che va tutto a catafascio.

Tu non puoi vivere secondo certi parametri. Non puoi dare per scontato che le persone si comportino sempre come tu desideri. La vita è caotica. È confusa. Non ci avevi mai fatto caso?

Casa propria può essere il posto più straniero di tutti.

 Jonathan Coe

venerdì 12 aprile 2013

La Festa della Liberazione

La festa della liberazione
Da questa voglia di serenità
E da quelli ubriachi che belle parole
Da quegli sbronzi d’autorità
Come mio nonno minatore di ferri
E congiuntivi di nessuna utilità
Di rispetto per se stessi e per gli altri
Praticamente l’infelicità.
E questi bambini pimpanti codardi che hanno già perso la verginità
L’imene rotto della meraviglia, nessuna scintilla, una sega a metà.

La festa della liberazione
Ce ne son molti di cui mi libererei
A cominciare da quelli di famiglia
Dai tarli che mi han regalato i miei
Dalla voglia di cascare sempre in piedi
Dalla tua scuola, dall’università.
Che ti ha insegnato soltanto ad imparare per imparare e adesso che si fa?
E mia sorella, rizza cazzi per scelta un piercing sull’ombelico e sei una celebrità.
In questo paesino di grandi depressi
Pochi squallidi amplessi, la mediocrità.

La festa della liberazione
Da tutti gli atei compreso il sottoscritto
Io prego molto, ma molto di più
Di chi si inginocchia e prega il soffitto.
E passo ore, giorni, mesi a pensare
Le stelle non guardarle mai
Ho paura di vederlo spuntare, sorride e dice: Appino, che cazzo fai?
E la marcia nuziale di tutti,
E l’aereo che passa e lascia una scia
Che divide il cielo da quelli buoni e da quelli che han bisogno della polizia.

La festa della liberazione
Da questo talento di perdonarmi tutto
E perdono gli altri solo s’è comodo a me.
Dio, quante balle che mi son detto e che ho detto a tutti quanti voi.
Invitati a casa mia e poi lasciati fuori
E mia sorella piange di nascosto
La sua ragazza le ha detto: Muori!
E tutti i maschi del paese sono in tiro
nell’attesa si picchiano per toccarsi un po’.
Quant’è brutta tutta questa campagna, la gente si lagna e nemmeno un falò.
Mentre al centro han rubato il senso, centrare un bersaglio è quello che vorrei
Come mio padre 34 anni fa
Una vita ad allontanarlo e diventare come lui.

Performed by Appino

mercoledì 10 aprile 2013

Upside Down

One shot, one kill. In film come questo Upside Down la cosa più difficile è riuscire a mantenere l’incanto negli occhi degli spettatori, soprattutto quando si decide di introdurre le particolarità fantascientifiche tutte quante insieme all’inizio, attraverso una voce narrante fuori dallo schermo. L’idea è interessante, due mondi uno sopra l’altro, ognuno con una propria forza di gravità, che condividono una porzione di atmosfera. Si ha quindi un mondo di sotto e un mondo di sopra, ed entrambi vedranno l’altro mondo come se fosse a testa in giù, ecco. Ovviamente, per rendere pepata la questione, il mondo di sopra è arrogante e vile, sfrutta il mondo di sotto che al contrario non se la passa molto bene (basti notare la fotografia degli esterni: un freddo celeste per il mondo di sotto, un caldo giallo dorato per il mondo di sopra).
In uno scenario talmente particolare come quello appena descritto, si delinea una storia per niente banale quale l’eterna struggente storia tra un ragazzo di sotto e una ragazza di sopra, una specie di rivisitazione dell’amore proibito di Romeo e Giulietta.
I due giovani hanno i volti di Jim Sturgess, che si conferma ottimo per il ruolo di un innamorato per qualche modo impedito a stare insieme alla sua dolce metà (vedi Across the Universe, dove la vicenda, trasportata nella realtà, è molto simile), e Kirsten Dunst, che qui pare avere firmato per il minimo sindacale, ovvero, nel suo caso, la bellezza.
A livello visivo il film regala alcune belle immagini, ma non abbastanza affascinanti da far rimanere senza fiato e rimanere così impresse da riuscire a definire in toto la pellicola. Sorvolando su alcuni dettagli che già mentre li guardi non sembrano tornare molto, al domanda che rimane alla fine della visione è una, anche se ad alto indice di deficienza: ma come fa un individuo a starsene per ore e ore a testa in giù senza sentire un minimo dolore al cranio e evitare che i piedi gli diventino cianotici nel giro di pochi minuti?

martedì 9 aprile 2013

Due persone e una bomba

Lei ha le dita gonfie. Lo si capisce dal modo in cui non muove le mani. Le lascia appoggiate sul tavolo, spostandole solo di poco ogni tanto per prendere il bicchiere e portarselo alla bocca, bere un breve sorso di caffè lungo americano, arroventato. Di solito gioca con gli anelli, cambiandogli posizione, da un dito all’altro, per mascherare nervosismo o altro; ma ora non lo fa, non può.
Lui non riesce quasi a guardarla, abbassa sempre gli occhi. Sposta la testa come farebbe un cavallo che cerca di ottenere una carezza, puntando lo sguardo verso il basso, quasi volesse superare il tavolino e fissare il pavimento.
A separarli, come un muro invisibile in mezzo a loro, c’è quell’aria che si può respirare un attimo prima dell’esplosione di una bomba. Entrambi sanno bene cosa accadrà quando ci sarà la deflagrazione, e non saranno urla né liti o ferite; sarà uno scoppio buono, se non di amore di qualcosa che gli va molto vicino. Nonostante questo nessuno ha il coraggio di accendere la miccia, di iniziare a parlare, di toccarsi, o anche solo guardare una parte del corpo dell’altro o dell’altra.
Nella caffetteria non c’è molta gente. È ancora presto, le otto del mattino. La gente si sta svegliando in quel momento, nelle proprie case. La domenica mattina e il suo ritmo lento soffocato nel riposo. Solo loro sono già pronti: alzati, svegli, lavati, pettinati. Si sono trovati per strada, mentre giocavano con i propri cellulari, come se non avessero fissato di vedersi. Si sono detti: ciao. Uno ciascuno, lui a lei, lei a lui, quasi in contemporanea.
Sono entrati nel locale uno dietro l’altra, dirigendosi sicuri verso il bancone sapendo già cosa ordinare. Hanno chiesto due caffè normali, senza aggiunte, lunghi e neri. Lui ha preso pure un sandwich da mettere in mezzo al tavolo, come una specie di agnello sacrificale da smangiucchiare un po’ ciascuno. Nessuno dei due però ha fame.
Hanno aspettato che i loro caffè fossero pronti, dopodiché hanno preso posto non molto lontano dall’ingresso. Si sono seduti uno di fronte all’altra, in silenzio, e hanno aspettato che il caffè freddasse un poco. Le ustioni, all’interno della bocca, fanno più male di quanto non si pensi. E liquido caldo a scendere giù lungo l’esofago, sembra lava incandescente.
Poi è entrata una nuova persona, facendo tintinnare un campanello messo in equilibrio sopra la porta. Loro si sono voltati a guardarla, giusto per curiosità o riflesso, non per altro. Non aspettavano nessuno.
Volevo dirti, ha iniziato lui mentre voltava la testa di nuovo verso di lei.
Lei si è sporta sul tavolo verso di lui e senza lasciarlo finire lo ha baciato con fermezza sulla bocca.
Lei aveva gli occhi chiusi. Lui invece, colto di sorpresa, all’inizio li aveva ancora aperti. Ha avuto il tempo di contare, senza rendersene conto, quante persone fossero presenti nella caffetteria: sei, oltre a loro, più tre del personale.
Quanta gente innocente, in mezzo a un attentato premeditato con una bomba.

lunedì 8 aprile 2013

Stupore e tremori

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I sistemi più autoritari provocano, nei paesi in cui vengono applicati, allucinanti casi di devianza – e, per la stessa ragione, inducono a una relativa tolleranza rispetto alle stranezze umane più strabilianti.

Restare in vita è un coraggioso atto di resistenza al tempo stesso disinteressato e sublime.

L’onore consiste il più delle volte nell’essere idioti.

Ogni esistenza vive, un giorno, quel trauma primordiale che divide la sua vita in un prima e in un dopo e il cui ricordo anche furtivo basta a creare un terrore irrazionale, inumano e inguaribile.

È tipico degli essere umani che esercitano un mestiere penoso fabbricarsi quello che Nietzsche definisce sopramondo, un paradiso terrestre o celeste nel quale si sforzano di creder per consolarsi della loro ripugnante condizione.

Mi vide ed esclamò:
“Amélie-san!”
Lo disse in quel modo giapponese formidabile che consiste nel confermare l’esistenza di una persona lanciando nell’aria il suo nome.

Amélie Nothomb

venerdì 5 aprile 2013

Passaporto

Passano le facce grigie della gente
passerà l'inverno come fosse niente
passa- no le mode che ogni stagione
mi aiutano a capire quanto sei coglione
passa l'emicrania, passa il mal di denti
passano veloci i giorni divertenti
passa il 24 mentre sto fumando
poi non passa mai quando lo stai aspettando
passa l'ambulanza e tutti gli altri fermi
passa a miglior vita chi ha fin troppi inverni
passa questa voglia che ti tiene sveglio
passa in fretta e se non passa è meglio
passa questa vita passano gli affanni
passano i minuti e diventano anni
passa come un treno anche la fantasia
passa l'entusiasmo che ti ha reso mia
passa questa voce fuori dalla bocca
non ti passano la palla, ma non importa
passa un po' di vento sopra la mia testa
prenderlo è tutto quello che mi resta
passerà la storia del- la mia famiglia
madre puoi vederla questa qui è mia figlia
niente più di questo posso raccontare
tutto molto bello ed anche un po' banale
un passaporto è tutto ciò di cui ho bisogno
per viaggiarmi dentro e non viaggiarmi intorno
tutto questo tempo speso ad imparare
poi quanto tempo ti rimane per viaggiare
un passaporto è tutto ciò di cui ho bisogno
un lasciapassare per un'altro mondo
se la compagnia lascia a desiderare
partirò da solo tanto so tornare
ti porterò un regalo se me lo ricordo
bacia tutti sulle labbra se non torno
tutto questo tempo speso a lavorare
poi quanto altro ne rimane

Performed by Appino

giovedì 4 aprile 2013

Sulle mura di Lucca

Sulle mure di Lucca partecipiamo a una corsa lenta a piedi dal percorso medioevale: senza bici, senza pattini, senza protezioni. La nostra meta è una pizza persa, proprio mentre comincia a piovere. Allora camminare più veloci con la paura del temporale, sotto gli ombrelli degli altri, per abbandonarsi alla pioggia solo una volta arrivati alla macchina. Casello casello e tuoni.

mercoledì 3 aprile 2013

Anna Karenina

Anna Karenina è il terzo film in cui il regista Joe Wright collabora con Keira Knightley, ponendo l’attrice nel ruolo di protagonista assoluta. Il sodalizio è iniziato nel 2005 con Orgoglio e Pregiudizio ed è continuato nel 2007 con Espiazione. Tutti quanti film in costume, genere che la bella Keira pare prediligere. Dopo due pellicole ambientate in Inghilterra ora la coppia (solo lavorativa) si sposta nella Russia del diciannovesimo secolo, con abbondanza di nomi assai complicati e intrecci familiari di cui a tratti si rischia di perdere il filo. La storia ovviamente è quella del romanzo di Tolstoj, ma quello che più di ogni altra cosa rimane negli occhi e nella testa dello spettatore è la messa in scena di tutta la vicenda. Wright sceglie infatti di raccontare i fatti come se il film fosse girato all’interno di un teatro nel quale vengono messe in scena la varie parti. Una decisione che all’inizio mette in difficoltà chi si trova a guardare il film senza magari conoscere il libro, ma che al tempo stesso potrebbe essere vista come una bella trovata per cercare di modernizzare e rendere particolare una storia già portata al cinema svariate volte. Cosa potrebbe avere di diverso questo adattamento rispetto agli altri già apparsi sul grande e sul piccolo schermo? Qualcuno potrebbe dire gli attori, ma qui la Knightley a tratti sembra recitare la parte di Elizabeth Bennet anziché quella della russa Anna, così come un po’ fuori luogo pare essere la scelta di Aaron Johnson (il protagonista di Kick-Ass) per la parte del protagonista maschile, agghindato in trucco e parrucco per farlo assomigliare, chissà poi perché, al Gene Wilder di Frankenstein Junior. La messa in scena particolare poteva essere la risposta giusta alla domanda del motivo per cui era necessario un nuovo film su Anna Karenina, invece la produzione, o il regista, o entrambi, non hanno avuto il coraggio di osare fino in fondo e si sono fermati a metà strada, aggiungendo qua e là dei suggerimenti su cosa avrebbero potuto fare ma che alla fine hanno preferito non fare. Il pericolo sarebbe stato di apparire come una copia sbiadita di Baz Luhrmann, ma non portando fino in fondo le proprie idee il risultato è un film in cui ci sono dei pezzi un po’ spiazzanti e per il resto più o meno noioso e niente più.

martedì 2 aprile 2013

Thegiornalisti @Tender

Quando arriviamo al Tender, che non si trova in zona stazione come ci avevano detto bensì è esattamente a lato della stazione di Santa Maria Novella, da fuori si sente già qualcuno suonare. Sul palco c’è Caroline Keating, ovvero: musica per pianoforte e violino. Poco importa se sul palco non c’è un imponente pianoforte a coda (non ci sarebbe lo spazio fisico necessario a ospitare uno strumento così ingombrante), la musica ci rapisce all’istante con le sue note vellutate e per niente aggressive.  Al piano c’è questa ragazza dai capelli rossi e la carnagione chiara, occhi vivaci sempre a suggerire un sorriso in rampa di lancio; è accompagnata da un ragazzo asiatico dal fisico asciutto (tale Sebastian Chow degli Island, scopriremo poi), maglia aderente rossa con un profondo scollo a V e capelli ordinatamente pettinati da una parte. In due mettono in piedi uno spettacolo intimo e variegato che, a dispetto della poca strumentazione in scena, riesce a suonare sempre brillante, con canzoni di volta in volta mai uguali a se stesse, vibrando ognuna di una particolare ritmica che ne contraddistingue l’impronta sonora. Un’impronta sonora che si imprime dentro la testa come l’orma di un passo sulla neve: magari non sarà qualcosa di permanente, un segno destinato a durare per l’eternità all’interno della tua memoria, ma riuscirà lo stesso a regalare quel senso di fascinazione e piacere leggero del rumore che il tuo passo si lascia dietro sulla neve, e l’impronta, subito coperta da altra neve che cade giù dal cielo, quel fruscio dal vago sapore frivolo ma che ti fa socchiudere gli occhi e bearti per un attimo, sia questo pure effimero quanto basta, di un sorriso sincero.
L’acustica del Tender in questo caso è perfetta. Accoglie ogni singola nota nel suo ristretto spazio e la ripone con cura su chi si è accalcato al suo interno, sedendosi per terra o appoggiandosi alle pareti. È la musica ideale per una giornata uggiosa piena di pioggia, con la sera e la notte così sprofondate nel loro stringersi fino a diventare una cosa sola, senza farti rendere conto del passaggio dall’una all’altra. Sarebbero necessarie delle sedie sulle quali sedersi, e dei tavolini su cui appoggiare un bicchiere di whiskey da sorseggiare di tanto in tanto, magari tra un applauso e l’altro, mentre si guarda questo duo esibirsi educatamente sul palco a un metro di distanza: una specie di tributo a loro, per farli sentire più a casa, o farci sentire noi più in Canada.
Purtroppo l’acustica non risponde altrettanto bene quando sul palco salgono i Thegiornalisti, quartetto romano per i quali ci siamo presi la briga di scoprire dove si trovasse il Tender. Sarà per il numero maggiore di strumenti on stage, sarà per le sonorità più aggressive, sarà per il fatto che siamo letteralmente a due passi dall’impianto di amplificazione, in bocca al cantante, ma a tratti è davvero difficile distinguere il suono delle chitarre da quello del basso e della batteria, per non parlare della voce del cantante. Il gruppo però non si scompone e mette in scena un concerto dove alterna canzoni del primo e del secondo lavoro, proponendole al pubblico arrangiate un po’ più combattive di quanto non fossero su disco. Laddove la batteria era solo appena accennata, dal vivo acquista un maggiore spessore che contribuisce al ritmo più marcato dell’esibizione. Se ascoltandole a casa, o in auto, o nell’ipod mentre si corre, o dove diavolo volete voi, le canzoni dei Thegiornalisti ti mettevano voglia di canticchiarle tra te e te tanto da strapparti quasi i versi di bocca, in concerto le stesse canzoni ti prendono dentro e, oltre a canticchiarle, ti incitano al ballo, scuotendoti da dentro. Entrano dalle orecchie e scendono lungo il collo fino a metà schiena, a quel punto ti afferrano la colonna vertebrale e ti muovono come una bambola.
Ad aiutare la musica ci pensa anche la fisicità bislacca del cantante e frontman del gruppo, che si agita davanti al microfono come un ossesso, mantenendo una postura ricurva all’indietro che manderebbe nei pazzi qualsiasi pedagogo di vecchio stampo, come se volesse cantare e al contempo partecipare a una gara di limbo.
Visivamente i Thegiornalisti si presentano al proprio pubblico come se fossero l’incarnazione umana di un grafico sull’andamento della moda degli anni ’80, quando in realtà sono dei giovani ragazzi italiani che si divertono con la musica e riescono a conferire alle loro canzoni un misto di magia/romanticismo/umorismo/significato profondo che ultimamente in pochi nel panorama italiano sono in grado di miscelare con così tanta cura. È di questa opinione pure Federico Fiumani che durante il bis di rito accompagna il gruppo sulla conclusiva “Cose in disuso”, cantando con il solito aplomb di pura sincerità nello sviscerare il suo ruolo di rocker e mentore di un’intera generazione di musicisti: un po’ impacciato di fronte al microfono, alle prese con un testo non suo e imparato in fretta e furia, del quale conserva in mano la trascrizione da leggere senza troppo nascondersi quando ha dei dubbi su quale verso venga dopo una determinata parola.
Finisce così, con le parole di Federico rivolte al pubblico a esaltare il gruppo di Roma – e con il gruppo di Roma che si ferma per un attimo a inchinarsi di fronte alla persona che a Firenze viene subito dopo Giotto – un concerto che in canna avrebbe ancora un’altra canzone. Tutti quanti sembrano però già felici, già appagati, così tanto che anche i Thegiornalisti ringraziano Federico, il pubblico, il Tender, e fanno per smontare. Quando si ricordano di avere in scaletta un ultimo pezzo, ormai è tardi, il deejay ha già iniziato a suonare e non rimane far altro che uscire ridendo: loro per la piccola gaffe, noi per la splendida serata.

lunedì 1 aprile 2013

Marzo 2013


“Se glielo si permette, il passato tende a dettare il futuro."

Chuck Palahniuk