lunedì 30 dicembre 2013

Il padre d'inverno

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Ora lui era lì, in un caldo pomeriggio, a osservare le foglie gialle sparse sul terreno simili alla luce del sole.

Immaginò Robin che verniciava i muri accanto a lui, il rumore delle loro pennellate regolare come il battito dei loro cuori.

Lei gli scriveva lettere d’amore. Non erano profumate, ma avrebbero potuto benissimo esserlo. Nelle pagine di queste lettere lui ritrovava il silenzio dei tardi pomeriggi d’estate, sulla veranda della casa di lei, sentiva lo scricchiolio della catena dell’altalena su cui sedevano sempre, e da dove forse aveva anche scritto. Avvertiva il profumo della sua pelle pulita, dei suoi capelli, e quello del cespuglio di lillà dietro il portico. Leggendo quelle lettere, toccandole, a volte rimanendo a osservare ogni pagina, dopo averle lette, come se si trattasse di fotografie, sentiva di amarla profondamente. Avrebbe potuto piangere. E voleva abbracciarla. Eppure sentiva anche, e con una certa paura, la grande distanza che li separava.

Attendere significa osservare il tempo e, di solito, esserne vinti, mentre in quelle mattine godeva del tempo e si lasciava trasportare da esso.

Era divertente anche la storia di suo zio Johnny, i cui due cani avevano scavalcato il recinto e lo avevano seguito, o inseguito, fino a una stanza da letto a qualche isolato da casa e si erano messi ad abbaiare fuori dalla finestra; una stanza da letto dove lo zio Johnny non avrebbe dovuto trovarsi, anche perché, cosa peggiore, per essere lì aveva lasciato una stanza da letto che invece non avrebbe dovuto lasciare.

Giugno?”
“Non è iniziata allora.” Teneva il viso leggermente abbassato, ma gli occhi erano fissi, e c’era qualcos’altro che brillava in essi: provava vergogna ma non rimorso, e la voce era quella inconfondibile di una donna innamorata. I suoi occhi non erano mai stati così seri, mai così minacciosi e lui si sentì assalire da immagini di Leslie che faceva l’amore con un altro uomo.

Si sbottonò e slacciò la gonna, la lasciò cadere sulla sabbia; si abbassò le mutandine e se le sfilò. Si tolse il maglione e la camicia e, tremante, li lasciò cadere. Poi con le mani cercò la chiusura del reggiseno e lo slacciò. Camminò in mezzo alla sabbia bagnata, verso il margine impetuoso del mare. Attraversò un’onda che si infrangeva, con la sabbia che scorreva sotto i suoi piedi, la corrente che la tirava e la spingeva sempre più lontano; ci si abbandonava, con l’acqua che giungeva fino al suo petto, guardando la luce che veniva dallo strato più leggero del cielo.

Si chiese se avesse l’aspetto di un uomo sopravvissuto a un incidente in cui altri erano rimasti uccisi.

Dobbiamo controllare il nostro piacere nel dare dolore, gli disse.

Se aveva paura, allora ci sarebbe voluto coraggio. E se ci voleva coraggio, allora doveva trattarsi di qualcosa di giusto.

Si chiamava Mary Ann, ma il cognome continuava a passargli di mente. Si occupava di ricerche di mercato, e come molte persone che Peter conosceva, sembrava rifiutare il proprio lavoro, anche se dava l’idea di essere brava nel suo campo. Ciò per cui si sentiva portata era il tempo libero: sciava dappertutto, faceva escursioni, pattinava, andava in tenda, correva e nuotava. Lui cominciò a immaginare di fare quelle cose con lei, e il pensiero gli sembrò più insidioso di immaginare un rapporto fra loro.

Lui e Norma si erano fatti male in modo profondo, e i loro corpi avevano assorbito quel dolore: lo stomaco stringeva, le mani tremavano, il seno si gonfiava e poi si contraeva. Ora, senza la presenza fisica, loro potevano parlare per telefono, anche con calore, forse un residuo di quando i loro corpi erano a proprio agio insieme.

Andre Dubus

lunedì 23 dicembre 2013

Un antidoto contro la solitudine

 
A nessuna domanda veramente interessante si può dare una risposta soddisfacente all’interno delle restrizioni formarli (ad es. la lunghezza di un articolo, la durata di un programma radiofonico, il pubblico decoro) imposte da un’intervista.

Credo che per quelli della mia generazione […] un certo tipo di sgangheratezza […] viene associata non tanto all’ingenuità o alla goffaggine, quanto alla sincerità […] essere genuino e fatto in casa invece che essere […] tale e quale a un prodotto industriale.

“Quando scrivete”, spiega nel dare il suo giudizio su un racconto che parla di una bambina, suo zio e il malocchio, “state raccontando una bugia. È un gioco, ma dovete presentare con precisione i fatti. Il lettore non vuole che gli si ricordi che è tutto finto. Il racconto dev’essere convincente, altrimenti nella testa del lettore non decollerà mai.”

È difficile provare a capire quali esperienze familiari sono universali e quali idiosincratiche.

Una delle cose che voi due scoprirete, una volta usciti dall’università, è che riuscire a vivere davvero come un essere umano, e contemporaneamente a produrre qualcosa di valido, con quel grado di ossessività che è necessario per farlo, è veramente complicato.

C’è qualcosa, quantomeno nei romanzi e nei racconti, che ti permette di entrare in intimità con il mondo, e con un’altra mente, e con certi personaggi, in un modo in cui non puoi proprio farlo nel mondo reale. Io non so cosa stai pensando. Non so molto di te, così come non so molto dei miei genitori, della mia ragazza o di mia sorella, però un brano di letteratura che sia davvero sincero ci permette di entrare in intimità con… non voglio dire che la gente, ma ci permette di entrare in intimità con un mondo che assomiglia al nostro quanto basta, a livello di dettagli emotivi, perché le varie sensazioni che proviamo possano poi reverberarsi anche nel mondo reale.

Per me, il cinquanta per cento delle cose che scrivo sono brutte, punto, e sarà sempre così, e se non son capace di accettarlo vuol dire che non sono tagliato per questo mestiere. Il trucco è capire quali sono i tuoi difetti e fare in modo che il lettore non li veda.

Uno dei miei insegnanti, che stimavo molto, diceva sempre che il compito della buona letteratura è tranquillizzare chi è turbato e turbare chi è tranquillo. Secondo me il compito della letteratura alta consiste in gran parte nel dare al lettore, che come tutti noi è un po’ impantanato dentro la propria testa, nel dargli accesso, dicevo, tramite l’immaginazione, alla vita interiore di altri individui. Dato che una parte ineluttabile dell’essere umano è la sofferenza, ciò che noi esseri umani cerchiamo nell’arte è anche un’esperienza di sofferenza: che sarà necessariamente un’esperienza mediata, o per meglio dire una generalizzazione della sofferenza. Capisci cosa intendo? Nel mondo reale tutti soffriamo da soli; la vera empatia è impossibile. Ma se un’opera letteraria ci permette, grazie all’immaginazione, di identificarci con il dolore dei personaggi, allora forse ci verrà più facile pensare che altri possano identificarsi con il nostro. Questo è un pensiero che nutre, che redime: ci fa sentire meno soli dentro. Magari è tutto qui, semplicemente. Però a questo punto tieni presente che la tv e il cinema commerciale  e tante forme di arte “bassa” – ossia arte il cui scopo principale è fare soldi – sono redditizi proprio perché capiscono che il pubblico preferisce un cento per cento di piacere alla realtà che tende a essere fatta per il 49 per cento di piacere e per il 51 per cento di dolore. Mentre l’arte “alta”, quella che non punta principalmente a farti sborsare dei soldi, è più probabile che ti causi malessere, o che ti costringa a faticare per arrivare ai suoi piaceri, proprio come nella vita reale il vero piacere è in genere un derivato della fatica e del disagio. Perciò è difficile per il pubblico dell’arte, specialmente quello più giovane, che è stato educato ad aspettarsi che l’arte susciti piacere al cento per cento, e senza nessuno sforzo, leggere e apprezzare la letteratura alta. E questo è un male. Il problema non è che i lettori di oggi sono stupidi, non penso che sia così. È solo che la tv e la cultura commerciale di massa li hanno addestrati a essere piuttosto pigri e infantili nelle loro aspettative. E questo rende più difficile che mai cercare di coinvolgere i lettori di oggi, sia a livello intellettuale che di immaginario.

Mi sembra che la grossa distinzione fra grande arte e arte mediocre stia nello scopo da cui è mosso il cuore dei quell’arte, nei fini che si è proposta la coscienza che sta dietro il testo.

Quasi tutti gli scrittori che conosco sono strani ibridi. C’è una forte vena di egomania accoppiata con una timidezza estrema. Scrivere è una specie di esibizionismo privato. E c’è pure una strana solitudine, e il desiderio di avere un qualche dialogo con la gente, ma senza la capacità vera di farlo di persona.

Ci vuole un enorme coraggio per mostrarsi deboli.

Alle elementari ci costringono a diventare platonici perché è il modo più semplice per capire i numeri. Nessuno vuole spiegare a un bambino di quarta elementare la metafisica del numero intero 3, così ci siamo convinti che il 3 è una cosa. Ma i numeri non sono cose. Anche se sei un platonico – e cioè, anche se credi che i numeri siano reali in un qualche senso metafisico, cioè allo stesso modo in cui lo sono gli alberi o come lo sei tu, Caleb, rispetto al matematicamente reale – la ragione per cui ne sei convinto è che in realtà non ci pensi mai. Insomma, se sono reali, dove sono? Che aspetto hanno? Cos’è il 3?

Penso che in un paese in cui la vita è così facile come da noi, uno dei veicoli più importanti della paura sia la noia.

Se riuscissimo a descrivere con sufficiente esattezza la sensazione provata da qualcuno per qualcosa, avremmo una chiave davvero straordinaria per capire come funziona il mondo.

Il trucco era far risultare quella roba sincera, ma anche interessante: perché la maggior parte dei nostri pensieri non sono poi tanto interessanti. Essere sinceri quando dietro c’è un motivo.

Penso che essere timidi significhi sostanzialmente essere talmente concentrati su se stessi che diventa difficile stare in compagnia della gente. Per esempio, se passo del tempo con te, non riesco neanche a capire se mi stai simpatico o antipatico, perché sono troppo occupato a chiedermi se io sto simpatico a te.

Penso che uno dei veri aspetti sotto cui sono diventato più intelligente sia che mi sono reso conto di non essere tanto più intelligenti degli altri.

David Foster Wallace

martedì 17 dicembre 2013

Non mi chiamo Ted - Parte III

Giro di boa per il discorso che il protagonista del racconto dovrà tenere su L'undici - Informazione pura.
E' online la terza parte, con riflessioni e pensieri vari:
Non mi chiamo Ted - Parte III 

lunedì 16 dicembre 2013

Istruzioni per l'odio

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Mi vergogno, io non guardo telenovelas o reality, però ci sono cascato lo stesso. Ci sono cascato, e aspettando la sua caduta, sua di Berlusconi, sono caduto io.

“Cosa gli faccio fare?” pensa lo scrittore, e poi rincula e pensa di scrivere di uno che pensa di scrivere perché sa, avendoci pensato a lungo, che oggi onestamente è impossibile pensare e poi scrivere ma è possibile pensare di scrivere e con un po’ di fortuna scriverne.

Mi turba tantissimo l’idea che delle scelte casuali possano influire sul mio destino più delle scelte fatte in piena coscienza.

Quindi, dopo una settimana di serie riflessioni, riuscisti a riassumere le tue nuove conoscenze con l’idea che in fin dei conti non c’era molta differenza tra acquistare un’azione e scommettere sulle partite di calcio. Le assicurazioni in sostanza scommettono tutti i giorni con i soldi che noi gli diamo, e se vincono ci restituiscono i soldi che gli abbiamo dato e se perdono le cose si mettono che c’è la crisi economica. Così chiedono aiuto allo Stato, lo Stato dice che lo Stato siamo noi e per farla breve tramite tasse e tagli vari ai servizi sociali finisce che noi restituiamo a noi stessi i nostri soldi che altri hanno sputtanato in scommesse.

Tendiamo spesso a pensare che sono i grandi shock, le grandi scelte, le giornate speciali quelle che in un attimo ti cambiano la vita, ma non è così.

Penso ai soldati, ai nonni, i bisnonni che il secolo scorso combattevano le guerre e io in confronto sono una merda. Pensi che quelli morivano come fosse niente, noi invece viviamo come se fossimo niente, ma un pensiero troppo complicato.

Avverti un senso inesprimibile di solitudine che non genera tristezza. Si tratta di abitudine alla tristezza. Ti sei immunizzato alla tristezza, così la tristezza è come se fosse privata del dolore e non si dà sintomi, si va a nascondere e si perde. Sai di essere triste ma non sai con cosa prendertela, non hai dolori scaturiti da qualcosa, hai solo mancanze, le mancanze delle cose che non hai.

“Mi ami ancora?”
“No.”
“Io sì” le rispondi e piangete insieme a dirotto. Almeno te sai che è vero, la ami, ma di lei non sa più dire. Anche lei piange ma non piange perché ti ama, piange perché non ti ama ma vorrebbe amarti e non riesce.

Simone Montella

giovedì 12 dicembre 2013

Novembre 2013


"Quando si rimanda il raccolto, i frutti marciscono; ma quando si rimandano i problemi, essi non cessano di crescere."

Paulo Coelho

venerdì 29 novembre 2013

Suddenly

Crawling out, you need to protect me
I'm calling out, find me a stronger hand

I stand on the edge of silence
Better confess, it tastes like I'm leaving

Suddenly I'll leave it all behind

Tell your heart to jump to another
But darkness grows and oh, a never-ending night

I stand on the edge of silence
Better confess, it tastes like I'm leaving

Suddenly I'll leave it all behind

Ashes to ashes, it leaves me with nothing
I'm falling away, well, if you want it
The touch and the spell, her eyes are so wild

We stand on the edge, it tastes like I'm leaving

Suddenly I'll leave it all behind

Performed by Anna Calvi

martedì 26 novembre 2013

Di carne e di nulla

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Senza offesa. Nessuno direbbe che un’epidemia letale è una cosa buona. Niente di quanto viene dalla natura è brutto o cattivo. Le cose naturali sono e basta; le uniche cose buone e cattive sono le scelte delle persone poste di fronte a ciò che è.

Per quanto (potesse sembrare) scontato, la vera sessualità riguardo lo sforzo di stabilire un contatto fra noi, di erigere ponti sui baratri che separano un io dall’altro. La sessualità riguarda, in definitiva, l’immaginazione. grazie alle persone coraggiose che hanno riconosciuto nell’Aids un fatto della vita, cominciamo a capire che il sesso molto intenso può avvenire nei tantissimi modi che avevamo dimenticato o trascurato – sfiorando parti che non sono i genitali, al telefono o per posta; nella sfumatura di una conversazione; in un’espressione; nella postura di un corpo, nella pressione esercitata stringendosi la mano. Il sesso può essere ovunque siamo noi, sempre.

Perché uno scrittore non sa fare a meno di ritenere che il lettore sia in una certa misura come lui: avendo già visto, fino alla nausea, com’è la vita, gli interessa molto di più com’è avvertita quale mezzo per indicare che cosa significa.

Il punto generale è che il filtro/vaglio professionale è un tipo di servizio dal quale noi cittadini e consumatori dipendiamo sempre più, e in modi sempre più numerosi, visto che la quantità disponibile di informazioni, prodotti, arte, opinioni, scelte e tutte le relative complicazioni e ramificazioni si espandono all’incirca alla velocità della legge di Moore.

In sostanza, cercare davvero di essere informati e colti oggi significa sentirsi quasi sempre stupidi, e aver bisogno di aiuto.

A me sembra che quasi tutte le cose interessanti e vere nella mia vita e in quella dei miei amici implichino doppi vincoli o trappole in cui ti vengono offerte due alternative che si escludono a vicenda e tutt’e due implicano sacrifici che sembrano inaccettabili.

Secondo me l’arte seria dovrebbe farci affrontare cose che sono difficili dentro di noi e nel mondo. E il pericolo è che se ci esercitiamo ad affrontare sempre meno e a provare sempre più piacere, la daremo vinta alle cose commerciali.

David Foster Wallace

venerdì 22 novembre 2013

Let the records play

When the Kingdom comes
He puts his records on 
And with his blistered thumb hits play 

And with the volume up he goes and fills his cup
And lets the drummer's drum take away the pain

Breaking, Forsaken...
What's that you're taking?
Aaw, needing the feeling 
He lets the records play

Should the future dim
A cigarette lights hymn
Vaporized a green light grin

And when the shotglass talks
He knows to listen up
Until he's nice and numb again

Shakened, Awakened
Not one for faking 
Kneeling, his healing
He lets the records play 
There's wisdom in his ways

I been down and I fell so hard and far from grace
I been hurt and I still recall the flaws on her face
I been off, but I'm on, up above my feet, my feet again

Shaken, Foresaken
What's that your taking?
Aaw, needing the feeling
He lets the records play

Shakened, Awakened 
Not one for faking
Kneeling, his healing 
He lets the records play
There's wisdom in his ways

Performed by Pearl Jam

mercoledì 20 novembre 2013

Riflessione su Wallace, leggere, ascoltare, e altre cose come perdersi in mare‏

La scorsa settimana ho cercato di ordinare un po’ i pensieri sparsi in testa dopo la partecipazione (da spettatore) ad alcuni eventi presentati all'interno della rassegna Questa è l’acqua di Pistoia.
Il risultato è una riflessione che parte come una conversazione telefonica ma che poi parla in realtà di David Foster Wallace e della sua opera.
Tutto il ragionamento è stato gentilmente pubblicato dal sito Archivio David Foster Wallace Italia, con il quale sono orgogliosissimo di avere collaborato.
Invito tutti quanti a leggerlo, non solo il mio pezzo ma anche tutti gli altri articoli presenti nel sito. Il web è pieno di contributi di David Foster Wallace e di spunti a lui dedicati o lui ispirati, ma l’Archivio è davvero un punto di riferimento per tutti gli amanti italiani del grande scrittore americano.

Una telefonata in mezzo al mare (La differenza tra reading e lettura)

lunedì 18 novembre 2013

Un momento

Se ci fosse un momento, uno soltanto, nel quale tutti i momenti di tutti i giorni di tutti gli anni, e mesi e inverni, primavere estati autunni, convergono in uno solo, un solo unico momento preciso, idilliaco, uno di quelli perfetti che non riescono mai una seconda volta e che se ne stanno lì in vetrina quasi fossero uno spettacolo da mostrare e di cui vantarsi, un momento magico capace di risplendere e illuminare con la propria luce tutti gli altri momenti accanto a lui, e insegnargli come essere per essere come lui (o almeno cercare), e spiegare agli altri le parole che loro non conoscono, indicare la via che dovrebbero percorrere per essere (punto, solo essere). Questo momento maestro e di gran luce, un momento del quale dopo averlo assaporato e provato e vissuto non si può più fare senza e si cerca in tutti i modi di ritrovarlo, di riviverlo di nuovo, riviverlo, riviverlo e riviverlo ancora, allungandolo fino all’inverosimile, per quarantatré anni e altri mille di questi giorni, come si suol dire. Se ci fosse questo momento magico e perfetto, questo momento maestro dentro cui tutti gli altri momenti cadono e si perdono confondendosi con esso, sono sicuro che sarebbe da cercare in uno qualsiasi di questi giorni che cadono il diciotto novembre, tra il millenovecentosettanta e questo duemilatredici, perché in uno preciso di questi giorni tra questi due anni, tu l’hai trovato e lo hai fatto tuo, in modo da diventare tu quel momento e splendere come lui essere magico come lui. Buon compleanno momento che insegna e indica la strada.

venerdì 15 novembre 2013

Infallible

Keep on locking your doors
Keep on building your floors
Keep on just as before

Pay disasters no mind
Didn't get you this time
No prints left at the crime

Our ships come in 
And its sinking

Of everything that's possible
In the hearts and minds of men

Somehow it is the biggest things 
That keep on slipping
Right through our hands

By thinking we're infallible
We are tempting fate instead

Time we best begin 
Here at the ending

Wanna third second chance
Put your faith in big hands
Pay no more than a glance

All good things come to an end
This could be good as it gets
How's the view from the fence?

You think we been here before
You are mistaken

Of everything that's possible
In the hearts and minds of men

When progress could be plausible 
In reverse we curse ourselves

By thinking we're infallible
We are tempting fate instead

Time we best begin
Here at the ending

Of everything that's possible 
In the hearts and minds of men 

Somehow it is the biggest things
That keep on slipping 
Right through our hands

By thinking we're infallible
We are tempting fate instead

Time we best begin 
Here at the ending

Keep on locking your doors
Keep on building your floors 
Keep on just as before

Performed by Pearl Jam

mercoledì 13 novembre 2013

Non mi chiamo Ted - Parte II

Continua su L'undici - Informazione pura la pubblicazione del racconto "Non mi chiamo Ted", una storia nata integra e poi successivamente divisa in quattro.
Se lo leggete, a fine di questa puntata sarete arrivati più o meno a metà.
Ricomponete il racconto, pezzo per pezzo, leggendolo:
Non mi chiamo Ted - Parte II

lunedì 11 novembre 2013

L'uomo autografo

Più riguardo a L'uomo autografo
Alex ha la capacità di immaginarsi come un episodio secondario nella vita degli altri.

Lo ha sorpreso scoprire che quando si elimina i litigi, ciò che resta è l’amore, una immensa quantità di amore, che trabocca fuori di te.

Li-Jin scopre che la morte ha una duplice natura: sembra essere contemporaneamente ovunque e da nessuna parte.

La grande tragedia del suo cuore era che aveva sempre bisogno che qualcuno gli raccontasse una storia.

Le donne non dicono mai la verità su se stesse. Sull’amore, sul modo in cui amano. Oppure la verità è assolutamente pura, senza ripensamenti… nel qual caso, chi la sopporterebbe?

A volte devi anche distogliere lo sguardo da un’amante, o non tornerai mai a casa da tua moglie

Era così bella! Solo guardarla provocava disastri

Il nirvana non si dovrebbe giudicare dalla qualità delle passioni più volgari, ma dal riposo successivo.

Quando sarai stato con tutte quelle che vuoi, quando ti sarai stancato, quando ti accontenterai di me. Le persone non si accontentano. Decidono di stare con qualcun altro. Ci vuole fede. Tracci un cerchio nella sabbia, e decidi che lì dentro vuoi stare, e in quello devi credere. È fede, idiota che non sei altro.

Aveva noleggiato il sorriso di qualcun altro, ma gliel’avevano dato della misura sbagliata.

Quando stai per andartene ti tornano le stesse gambe di quando eri bambino, ma queste non possono più portarti da nessuna parte.

Così sono i rapporti: una commedia che prosegue all’infinito, finché non perde ogni traccia di vita e restano solo i gesti.

Zadie Smith

venerdì 8 novembre 2013

Sirens

Hear the sirens
Hear the sirens

Hear the sirens
Hear the circus so profound

I hear the sirens
More & more in this here town

Let me catch my breath & breathe
And reach across the bed 

Just to know we're safe
I am a grateful man

The slightest bit of light
And I can see you clear

Have you take your hand, and feel your breath
For fear this someday will be over

I pull you close, so much to lose 
Knowing that nothing lasts forever

I didn't care, before you were here
I danced in laughter with the everafter

But all things change
Let this remain

Hear the sirens
Covering distance in the night

The sound echoing closer
Will they come for me next time?

For every choice mistake I've made 
It's not my plan 

To send you in the arms of 
Another man

And if you choose to stay I'll wait 
I'll understand

It's a fragile thing 
This life we lead 

If I think too much I can get over
Whelmed by the grace

By which we live our lives 
With death over our shoulders

Want you to know
That should I go I always loved you

Held you high above, true

I study your face
And the fear goes away

It's a fragile thing 
This life we lead

If I think too much I can get over 
Whelmed by the grace

By which we live our lives
With death over our shoulder

Want you to know
That should I go I always loved you
Held you high above, true

I study your face
And the fear goes away
The fear goes away
The fear goes away 

Aah ah, oh oh
Aah ah, oh oh 


Performed by Pearl Jam

giovedì 7 novembre 2013

Intervista a D.T. Max a Pistoia

Si è tenuto ieri sera a Pistoia, l’incontro dedicato al noto scrittore David Foster Wallace scomparso cinque anni fa. L’editrice di minimum fax, Martina Testa e lo scrittore Alessandro Raveggi, hanno intervistato il giornalista Daniel T. Max, autore di Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi, in collegamento da New York.

Raveggi apre il dialogo chiedendo: “Perché hai deciso di fare questo libro?”
D.T. Max: “Ci sono varie ragioni, una di queste è dire alle persone cosa è accaduto dopo la morte di David. Racconto sempre che il mio romanzo preferito è La scopa del sistema, dopo la sua morte ho scoperto che in una lettera a un suo amico, Wallace scriveva che quel romanzo non gli piaceva più, a quel punto, la lettura del libro è diventata per me un’opportunità per conoscere meglio questo autore e affondare nella sua letteratura. Dopo la sua morte, Wallace ha goduto di una stima sempre maggiore come persona, se ne è fatto quasi un santo laico. Invece, io ho l’impressione che la sua opera sia stata un po’ fraintesa, con il mio libro ho voluto dare una visione un po’ più realistica”.

"Riguardo a questa figura del santo, – continua Raveggi – che deve essere ridimensionato, penso a quando in Italia si è letto Wallace. Dal mio punto di vista, David Foster Wallace era un po’ un santo di una generazione paraintellettuale. Ti chiedo: com’era il rapporto di Wallace con i suoi lettori?"
D.T. Max: "Era molto a disagio rispetto ai suoi lettori, era teso e angosciato nel rapportarsi a loro. Aveva paura che confondessero le sue opere con la sua persona. Più cresceva il pubblico, più tendeva ad allontanarsi, preferiva avere un rapporto con i lettori attraverso i libri, non diretto e personale".

Martina Testa interviene a questo proposito raccontando un aneddoto inerente ai suoi incontri con Wallace: “La mia impressione era che fosse una persona molto ritrosa all’esporsi davanti a un pubblico. Quando parlava con i giornalisti faceva molte domande, cercando di instaurare un rapporto diretto e autentico con chi aveva davanti”.
"Qual è stata la reazione al suo libro negli Stati Uniti?" chiede ancora Raveggi.
D.T. Max: "Ero molto preoccupato della reazione dei lettori, temevo che sarebbero rimasti sconvolti dallo scoprire il Wallace che avevo trovato io, invece sono stato sorpreso positivamente. Questa è una biografia diversa da tante altre, perché io sono potuto andare a parlare con persone che lo avevano conosciuto, quindi è una biografia particolarmente vicina al suo oggetto. Sono stato molto felice quando la gente è venuta a ringraziarmi, per me è stata un’opera fatta con amore, ma ispirata alla ricerca della verità, tirando fuori anche aspetti scomodi. Sono contento di aver restituito un’immagine più realistica di Wallace e che questa, sia stata accolta bene".

Martina Testa: “Nel tuo lavoro su questo libro, cosa ti ha sorpreso di più nello studiare la vita e le esperienze di Wallace, cosa non ti immaginavi di lui?”
D.T. Max: "È difficile rispondere, sono tante le cose che mi hanno sorpreso. Tutto il lavoro del libro è iniziato da un articolo che ho scritto sul New Yorker e da subito mi sono reso conto che Daniel era un tipo a cui non piaceva esporsi. Una cosa in particolare mi ha colpito, ed è l’impegno e la profondità con cui lavorava sulle parole e l’enorme attenzione che aveva per la grammatica. Continuavo anche a rendermi conto di quanto stesse male e di quanto la sua sofferenza fosse profonda".

Gli faccio una domanda io: “Se adesso potesse chiedere qualcosa a David Foster Wallace, cosa gli chiederebbe?”
D.T. Max: "È quasi impossibile rispondere alla domanda che mi fai. Premetto di non aver mai conosciuto davvero Wallace e sono contento di non averlo fatto, altrimenti non sarei riuscito a scrivere questo libro così, se non ci fosse stata questa distanza. È difficile immaginare una domanda che non gli abbiamo già fatto i giornalisti"

Finito il collegamento con il giornalista, gli interlocutori concludono la serata con alcuni commenti insieme al pubblico. Un ragazzo fa notare come forse si sia un po’ esagerato nella considerazione quasi mistica di questo autore.

Martina Testa commenta: “Come narratore, Wallace aveva delle pecche, per esempio non era bravo a creare i personaggi, ma delle voci. Chi lo trova difficile e pesante lo capisco, io lo trovo uno scrittore unico e impareggiabile e tutta la fatica che fai credo venga ripagata”.

"Dobbiamo aspettare dieci o vent’anni, adesso c’è troppo brusio intorno a lui". Chiude Raveggi.

Nel video di seguito il rapporto tra fiction e non fiction in D.F. Wallace.


Trovato su: Archivio David Foster Wallace Italia

lunedì 4 novembre 2013

Ottobre 2013


"Sapevo che il bene e il male sono una questione d’abitudine, che il temporaneo si prolunga, che le cose esterne penetrano all’interno, e che la maschera, a lungo andare, diventa il volto."

Marguerite Yourcenar

giovedì 31 ottobre 2013

Non mi chiamo Ted - Parte I

Con colpevole ritardo comunico che quasi una settimana fa è uscito online per L'undici - Informazione pura la prima parte di un racconto dal titolo "Non mi chiamo Ted".
Seguiranno altre tre puntate nel corso di Novembre/Dicembre.

Nell'attesa di vederlo completo potete tranquillamente leggere questa prima parte:
Non mi chiamo Ted - Parte I

lunedì 28 ottobre 2013

Shosha


Più riguardo a Shosha

Quando l’avevo incontrata, Dora mi aveva detto che considerava il matrimonio un rimasuglio di fanatismo religioso. Come si poteva firmare un contratto che doveva durare tutta la vita? Solo i capitalisti e gli ecclesiastici erano votati a perpetuare un’istituzione tanto ipocrita.

Se non si prende sul serio, da sé, non lo farà nessun altro.

L’uomo moderno si può anche vergognare delle emozioni, tuttavia è tutto sentimento e temperamento. Brucia d’amore e diventa freddo come il ghiaccio; un momento si comporta con intimità e un momento dopo con indifferenza.

Dal momento che non credi nel matrimonio, la donna con la quale stai è tua moglie.

Ogni volta che andavo là, Sam si lamentava perché non volevo fare il bagno nel fiumiciattolo. Mi imbarazzava l’idea di spogliarmi davanti a gente estranea. Non mi ero mai liberato di un concetto ereditato da generazioni: il copro è un recipiente di vergogna e ignominia, polvere in vita e anche peggio nella morte.

Nessun nemico può fare a un uomo tanto male quanto può farsene da sé.

La voglia che hanno di uccidere è talmente grande che supera la paura di rimanere uccisi. È una verità che ci si dimentica di affermare, ma nondimeno vera.

La morte è troppo importante per assumerla tutto d’un colpo. È come un vino prezioso che va assaporato lentamente. Coloro che si suicidano vogliono sfuggire alla morte una volta per tutte. Ma coloro che non sono tanti codardi imparano a goderne il gusto.

Isaac Bashevis Singer

venerdì 25 ottobre 2013

Getaway

Everyone's a critic looking back up the river
Every boat is leaking in this town 
Everybody's thinking that they'll all be delivered
Sitting in a box like lost and found

But I found my place and it's alright
We all searching for our better way 
Got yours off my plate, it's alright
I got my own way to believe

Find a lighthouse in the dark stormy weather
We all could use a sedative right not
Holy rollers sittin with their backs to the middle 
All hands on deck, sinking is the bow

And if you wanna have to pray, it's alright
We all be thinking with our different brains
Get yours off my plate, it's alright
I got my own way to believe

It's ok
Sometimes you find yourself 
Having to put all your faith
In no faith 
Mine is mine, and yours won't take its place
Now make your getaway

Science says we're making love like the lizards
Try and say that fossils ain't profound
Simon says that we are not allowed to consider
Simon says "Stand-up. Sit-down. You're out!"

But I found my place, and it's alright
Bearing witness to some stranger days 
Get yours off my plate, it's alright
I got my own ways to believe

It's ok 
Sometimes you find yourself being told to change your ways
There's no way 
Mine is mine and yours won't take its place
Now make your getaway

It's ok
Sometimes you find yourself 
Having to put all your faith
In no faith
Mine is mine, and yours won't take its place
Now make your getaway

It's ok 
Sometime you find yourself
Being told to change your ways
For Gods sake
Mine is mine and yours won't take its place 
Now make your getaway

Make your getaway

Performed by Pearl Jam

giovedì 24 ottobre 2013

Abbraccio

Stanotte mi volevi parlare ma io non c’ero. Quando ti ho risposto era tardi ed eri ormai arrabbiata, chiusa a riccio per difenderti dai miei tentativi di avvicinarti. Sei scappata, chissà dove, senza dire a nessuno quando saresti tornata. Sono venuto a cercarti per gole sconosciute che non erano le nostre. Gridavo il tuo nome e la mia voce si moltiplicava in echi lontane, senza ricevere però una tua risposta. Mi bagnavo, cadevo scivolando sulle rocce muschiose che usavo come strada lastricata per arrivare da te, e finivo culo a terra dentro il torrente gelido che scorreva tra le due pareti verticali. Non sapevo per quanto tempo avrei potuto continuare a gridare e camminare, camminare e cadere, cadere e rialzarmi, fino a quando non mi sono svegliato. Sembrava un’eternità, e altrettanta sembrava poter trascorrere prima di trovarti. Sei brava a nasconderti quando non vuoi farti vedere. Anche nei sogni ti perdi in luoghi dove non riesco a spingermi, neppure volando. Ed è il vagare, così, quasi senza meta, che rende la notte, o il giorno, tanto pesante da sopportare. Ogni minuto, ogni secondo. Un incedere costante che passa attraverso il collo ristretto di una clessidra. E passa, trascorre. Io ti chiamo, e tu non rispondi. Ti chiamo, ti chiamo. Urlo fino a lacerarmi da dentro la gola. Non importa che sia sogno, o realtà. Io ti chiamo e non rispondi. Ti chiamo e continuerò a chiamarti.

lunedì 21 ottobre 2013

In senso inverso

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Lei scosse di nuovo la testa, questa volta in cenno di assenso; i suoi grandi occhi scuri brillavano di lacrime represse.

Vede – c’è una situazione di cui potrei approfittare. Ma a spese di qualcun altro. Ora, quale bene dovrebbe venir prima? Se il loro, perché? E perché non il mio?

Lei non ha paura di sbagliare; lei ha paura di fare del male e poi fallire, e che tutti lo sappiano. La ragazza che lei vuole, suo marito; lei ha paura di fallire e di trovare un fronte unito contro di lei, che la escluda.

Vedendo padre Faine che rientrava, Sebastian Hermes notò la sua espressione tetra e preoccupata, e disse: “Devi avere qualche problema.”
“Tutti ne abbiamo” rispose vagamente padre Faine, imperscrutabile.

In realtà ero molto più piccolo di quanto mi sembrasse. O di quanto fossi disposto ad ammettere. Mi piaceva pensare di essere più grande, con grandi ambizioni.

Una donna che ha smanie di potere suggerisce sempre che potrebbe esserci una reazione violenta se non fai quello che dice.

Philip K. Dick

venerdì 18 ottobre 2013

Flowers Blossom

Someday you'll win by far
your evil side
that subtly makes you wild
when grows in thee
and leaves you lonely dear so lonely dear
you wait for a cure that won't come
Before then you thought you are too dark
well decided to go
but your love is there
your only love is there
Where the truth and his fluidity
accept the cruelty
of your bleak and darkened soul
Still my lover days
go on with stupid prayers
"Please make me happier, please make me happy"
But your only fear is to feel lonely dear
so you'd better come home
Cause any flower blossom you know?
towards the light, i mean
so follow my light, my dear
My love against your sorrow will heal all of your scares
i swear.

Performed by Thony

giovedì 17 ottobre 2013

Zigomi che parlano

“Secondo te sta parlando sul serio?” Lei si era lasciata cadere all’indietro, in un delicato planare verso di lui, per potergli parlare. Lo aveva usato come un cuscino, sul quale adagiarsi semi sdraiata. Aveva appoggiato la testa sul suo petto, voltandosi un poco di lato, e lo aveva guardato dal basso verso l’alto.
Qual era la domanda?
La prima cosa a venirgli in mente, senza alcun motivo apparente, furono i suoi zigomi. Quella parte di lei anticipò qualsiasi altra cosa. Solo dopo vennero gli occhi, le orecchie, le labbra, i denti. Un ritratto di lei si disegnò da solo dentro la sua testa partendo dagli zigomi. Per quei brevi attimi iniziali gli zigomi furono l’unica parte di lei a sua disposizione, una ciambella di salvataggio alla quale lui si aggrappò immediatamente. Come spiegare: nel breve lasso di tempo, tra quando lui avvertì il peso della nuca di lei sul suo petto a quando realizzò in modo conscio che quel peso era lei e che quella testa era la sua, lei cessò di esistere nella sua mente come figura intera. Non era più un viso, un corpo, dei capelli, bensì solo e soltanto quegli zigomi. O meglio: un piccolo rettangolo regolare posto all’altezza degli zigomi, una specie di censura al contrario. A velocità accelerata rivide ogni giorno passato insieme a lei ritagliato in quella porzione del suo viso, in tutte le sfumature delle sue mille espressioni. La vide allegra, con il sorriso che si poteva intuire anche solo scorgendo appena gli zigomi; la vide triste, con due tenere lacrime a bagnarle le guance nell’unica volta che l’aveva vista piangere; la vide annoiata, arrabbiata, assonnata; mentre dormiva, mentre leggeva, mentre beveva. Era incredibile con quale facilità potesse capire il suo stato d’animo a partire da solo i suoi zigomi. Lui si rese conto, in quel momento, di quanto il corpo di lei parlasse in ogni sua parte. Gli occhi, i suoi occhi, volevano dire qualcosa, così come le sue labbra, la fronte; oppure le mani, quando lo toccava o non lo taccava, faceva gesti e disegnava qualcosa di astratto nell’aria. Non c’erano solo le sue parole, era lei tutta a costruire un discorso.

lunedì 14 ottobre 2013

Le vergini suicide

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Il dottor Armonson suturò le ferite dei polsi. Dopo cinque minuti di trasfusione dichiarò che la ragazza era fuori pericolo. Le diede un buffetto sotto il mento. “Che ci fai qui, piccola? Non puoi sapere quanto è brutta la vita, giovane come sei.”
Fu allora che Cecilia espresse verbalmente ciò che doveva rappresentare l’unica parvenza di una lettera d’addio, superflua, tra l’altro, dato che non era morta. “Dottore” disse, “è evidente che lei non è mai stato una ragazza di tredici anni.”

Intorno a noi, nei loro nascondigli, gli insetti diedero inizio a un coro vibrante nell’esatto momento in cui voltammo le spalle all’edificio. Tutti dicevano che erano grilli, ma non ne avevamo mai trovati, nei cespugli irrorati o nei praticelli livellati, e non avevamo la minima idea di che aspetto avessero. Erano una presenza di puro suono.

Non avevamo mai visto nessuno che come lei sembrasse nudo anche con i vestiti.

Trip non aveva mai avuto neanche bisogno di comporre un numero telefonico. Per lui era una novità assoluta: i discorsi strategici imparati a memoria, le possibili conversazioni provate e riprovate, la respirazione profonda dello yoga, tutto per prepararsi al tuffo cieco, a capofitto, nel mare crepitante delle linee telefoniche. Non conosceva l’agonia dello squillo interminabile che qualcuno avrebbe interrotto sollevando la cornetta, non sapeva cosa fosse il colpo al cuore nell’udire quella voce incomparabile che all’improvviso era collegata alla tua, la sensazione di essere troppo vicini persino per vederla, quella persona, di essere addirittura dentro il suo orecchio.

Provare dolore è naturale. Superarlo è una questione di scelta.

Per tutto il tragitto Lux non fece che girare la manopola della radio alla ricerca della sua canzone preferita. “È una cosa che mi fa diventare matta” disse. “Sei sicura che la stanno trasmettendo da qualche parte, solo che la devi trovare.”

A quel punto non le conoscevamo più, e le loro nuove abitudini, l'aprire una finestra, ad esempio, per gettare via un asciugamano di carta appallottolato, ci inducevano a chiederci se le avessimo mai conosciute davvero, o se invece la nostra vigilanza fosse stata una caccia alle impronte digitali dei fantasmi.

Aspettavamo che le ragazze ci inviassero un segnale, e intanto la nostra immaginazione lavorava a pieno ritmo.

Sapevamo che Cecilia si era uccisa perché era una disadattata, perché l’aldilà la chiamava, e sapevamo che le sorelle, una volta abbandonate, avevano percepito il suo richiamo. Ma appena tiriamo queste conclusioni ci viene un nodo alla gola, perché sono vere e ingannevoli al tempo stesso.

Non riuscivamo a immaginare il vuoto interiore di un essere umano che si accostava un rasoio al polso e si apriva le vene: il vuoto e la calma.

Jeffrey Eugenides

lunedì 7 ottobre 2013

Settembre 2013


"Può anche darsi che io faccia finta di non sperarci proprio perché ci spero troppo."

Banana Yoshimoto

giovedì 3 ottobre 2013

Soprattutto, un fottuto essere umano. Vita di David Foster Wallace

Ci sono un paio di cose da tenere ben presenti, quando si legge Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi.
Innanzitutto la sua “primogenitura”: quella tentata da D.T. Max (DeeTee, per gli amici) è la prima ricostruzione completa di una personalità umana e letteraria di straordinaria complessità come quella di David Foster Wallace. È una grossa responsabilità da portare sulle spalle: significa, in parte, tracciare un solco interpretativo con cui gli eventuali tentativi futuri non potranno evitare di misurarsi. In qualche modo, come per ogni biografia, significa riplasmare la figura che si vuole descrivere: ma quando lo fai per la prima volta, devi avere una bella mano ferma e un’autoconsapevolezza grande come una montagna.
max
Ma soprattutto, Ogni storia d’amore è una storia in cui alla fine il protagonista muore. Lo sappiamo tutti: l’autore ancor prima di cominciare a scrivere il libro, il lettore prima ancora di iniziare a leggerlo. Nessuno può fare nulla per evitarlo. Chi scrive il libro, però, parla per primo, il che ci mette di fronte a un altro curioso dilemma: come possiamo essere sicuri che la conoscenza anticipata del finale non rischi di indurre l’autore a sovrainterpretare la realtà che dovrebbe limitarsi a registrare? Esempio: lungo tutto il corso della parabola esistenziale di Wallace, Max semina fuggevoli ma incisivi accenni alla presenza latente del suicidio: nella sua narrativa, nel suo pensiero, nella sua ironia. Tu sei lì che leggi, e ogni tanto te lo ritrovi davanti, come un monito, o una minaccia. Mi sono ritrovato a chiedermi: e se DFW non si fosse suicidato? Ci sembrerebbero davvero ancora così inquietanti, così onnipresenti, queste brevi e continuative ricorsività? Lo so, è un paradosso accademico; ma anche un po’ wittgensteiniano. Cos’è la biografia di un suicida? La registrazione di fatti, o la riscrittura di una storia a partire dal finale? Chissà cosa ne avrebbe pensato DFW.
Mi ero fatto le stesse domande leggendo, anni fa, A Beautiful Mind di Sylvia Nasar, la biografia del matematico schizofrenico John Nash (poi interpretato straordinariamente da un Russell Crowe non ancora bolsissimo). In effetti la figura di Nash presenta anche alcune coincidenze inaspettate con quella di DFW per come la tratteggia Max. Al di là delle somiglianze caratteriali (ossessiva ricerca della novità nei rispettivi campi, competitività, complessi di inferiorità sublimati in senso di superiorità, egocentrismo, ambizione, rapporto di amore-odio con l’insegnamento e la vita accademica), ciò che accomuna DFW e John Nash è proprio il complesso rapporto che i due intrattengono con la realtà. A entrambi si adatta benissimo il motto della terapia di riabilitazione “A ridurmi così sono state le mie grandi idee”: menti troppo complesse che cercano di interpretare e mettere in ordine realtà troppo complesse. L’uno con i numeri, l’altro con le parole. Solo che – DFW se ne accorge presto – è impossibile mettere ordine nella realtà, “semplicemente perché è troppa!”. Un fragoroso e costante mitragliare di input di informazione, stimoli cognitivi, sensoriali, pubblicitari: un “Rumore Totale” di fronte a cui la mente passiva si annulla, e la mente ricettiva implode per l’impossibilità di elaborarli tutti.
information_overload_by_sculmully
Allo stesso modo è difficile elaborare tutta in una volta la biografia di Wallace scritta da Max. Non per la quantità di dati che fornisce: anzi, a differenza di altri testi del genere la butta molto meno sull’erudito, e per nulla sul gossipparo (P.S.: grazie, DeeTee). Semmai, per l’immediatezza senza sconti dell’impatto con l’esperienza di vita di DFW a cui il testo di Max costringe il lettore. Rapporto con la madre, confronto-scontro con la scrittura (sempre più travagliato e impotente), sessuomania, droga, alcol e riabilitazione, donne (tantissime donne), successo letterario vissuto come fallimento, relazioni-rifugio con colleghi come Franzen e DeLillo: Max ci guida attraverso la vita di DFW senza mai lasciarsi andare alla facile tentazione di calare nel suo racconto l’esca del sentimentalismo. Racconta e descrive con l’obiettività analitica del vero biografo, e a volte si ha quasi l’impressione straniante – quando le cose cominciano ad andare per il verso giusto, i tasselli della vita di DFW sembrano incastrarsi senza scosse, insegnamento, scrittura e riabilitazione vanno a gonfie vele – che in fondo un finale diverso sia possibile, che forse la corsa verso il buio non sai poi così scontata. Ma ovviamente l’epilogo non poteva essere che un finale alla DFW: brusco, quasi interrotto, in cui la parola sembra scomparire e lasciare una sospensione a forma di spazio vuoto. Come in Infinite Jest, il vero finale è al di là del testo.
David Foster Wallace
Questo per quanto riguarda il racconto della vita intesa come successione di fatti. Ma quella di DFW è stata soprattutto una vita letteraria, e a Max non sfugge mai di mano il doppio filo che intesse il racconto. In parallelo con la propria riabilitazione, DFW intendeva anche guarire la narrativa contemporanea: che gli sembrava anch’essa malata di un solipsismo passivo utile solo a precipitare ulteriormente gli uomini in una gabbia di solitudine ed esclusione. Le soluzioni escogitate da chi lo aveva preceduto – postmodernisti, realisti, minimalisti – si erano rivelate non solo inefficaci, ma controproducenti: l’ironia con cui avevano cercato di scuotere i lettori altro non era se non una forma alternativa, disincantata del male stesso. L’intrattenimento insomma aveva fallito, ci voleva qualcosa che andasse oltre. E proprio “Un intrattenimento fallito” doveva essere il sottotitolo (poi rifiutato dall’editor Michael Pietsch) di Infinite Jest: l’opera che doveva guarire il lettore distogliendolo dalla pura passività del consumatore e sfiancandolo, costringendolo a continui andirivieni, stordendolo con una trama distorta, enciclopedica, vorticosa, forzandolo ad andare oltre il racconto stesso per comprenderne davvero il significato.
Le pagine dedicate alla complessa lavorazione di Infinite Jest, così come quelle in cui Max analizza il rapporto sempre problematico di Wallace con la propria opera, con i suoi colleghi o le correnti letterarie a cui aderiva contrapponendosi, sono tra le migliori del libro. Perché ci mostrano, in fieri, la costruzione di un nuovo concetto di narrativa ad opera di un uomo che, nel frattempo, andava anch’egli costruendosi o disfacendosi di pari passo con la sua opera. E che, nella propria esistenza quotidiana, sembrava riflettere come in uno specchio distorto tutte le complesse problematiche del suo lavoro di scrittore. Vista in questa luce, sembra assumere un significato del tutto particolare anche la circostanza che DFW se ne sia andato lasciando incompiuto il suo ultimo romanzo, Il re pallido, su cui si era impantanato al punto da prosciugare del tutto le proprie residue energie. Una vita incompiuta per un’opera incompiuta.
ThePaleKing_AF
L’ironia ultima è che DFW sia diventato proprio ciò che aveva sempre rifuggito: una rockstar. Un idolo incondizionato delle masse di lettori (o, più spesso, di non-lettori) che hanno finito per trasfigurarlo in una sorta di Kurt Cobain della narrativa, distorcendo completamente quel messaggio che per tutta la vita aveva cercato di trasmettere. Proprio per questo uno dei pregi migliori del libro di Max sta nell’intensità con cui ci ricorda, ad ogni pagina, la sostanza di quel messaggio. Che è semplice, guardate: ci vuole un libro intero a spiegarcelo, ma una volta capito è proprio semplice.
Dice solo: non venerate gli idoli, non ingabbiate la vostra anima. Dimenticatevi di me. Leggete. E lasciate che la letteratura cerchi di insegnarvi cosa significa “essere un fottuto essere umano”.

Trovato qua: Holden & Company: Immaginari e contraddizioni a stelle e strisce

lunedì 30 settembre 2013

L'inattesa piega degli eventi

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Sarà così anche per Mussolini. Rimpiangere i tiranni è molto più semplice che sopportarli.

L’uomo s’inclinò verso di me e spiegò in tono solenne: “È un’età difficile, e almeno adesso se le daranno senza rompere le scatole.”
“Ma quale età è facile, alla fine?” domandò la mia voce per pura cortesia.

Enrico Brizzi

venerdì 27 settembre 2013

Interlude

Great stairs beneath the moon
Tonight I’ll be dreaming over you
People the rhythm instead
And there you’ll be, there you’ll be inside my head

I will dream of you
You’ll dream of me too
Your arms go around my waist
There would be no better place

So a milkman have shocked me while I’m awake
I never ran fast enough for my mistakes
Would you really want me, the light of day
That very same man showed flaws right through my face

I will dream of you
You’ll dream of me too
Your arms go around my waist
There would be no better place

Close your hand and run to the moon
Close your hand and run to the moon moon moon
In and out, in and out, in and out oh oh oh
In and out, in and out, in and out oh oh oh
Oh oh

Performed by London Grammar

lunedì 23 settembre 2013

La gang dei sogni

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Tutti gli altri avevano avvistato la nuova terra che s’avvicinava. Lei no, era sempre rimasta chiusa nella stiva. Aveva temuto che Natale morisse. E si era scoperta, nei momenti in cui era più debole e più stanca, a non sapere se sarebbe stato un dolore. E allora adesso se lo teneva stretto al petto, cercando di farsi perdonare da quella creatura che non poteva aver sentito i suoi pensieri. Ma lei li aveva sentiti, e se ne vergognava.

Guardava i gabbiani volteggiare in cielo e si domandava se sapessero arrivare in cima ai grattacieli. E si domandava cosa vedessero. E cosa pensassero di quello zoo umano che brulicava sotto di loro.

“Mamma…” disse piano, dopo molti minuti.
“Si?”
“Quando si diventa adulti si vede tutto sporco?”
Cetta non rispose. Guardava il vuoto. C’erano domande alle quali non bisognava rispondere. Perché la risposta era brutta quanto la domanda.

Il dottor Goldsmith, il medico di famiglia, disse che aveva raccomandato a Saul Isaacson di condurre una vita più regolare, di evitare gli sforzi e le arrabbiature, di rallentare l’attività lavorativa, di contenersi nel mangiare e di smettere di fumare. Ma, sempre secondo il dottor Goldsmith, il vecchio aveva risposto: “Non voglio fare una vita da malato per morire sano”.

Tutto, nel suo corpo, era cambiato. Sapeva di essere diventata una donna. Ma non sapeva se era davvero pronta a esserlo.

“Tu la ami?” gli chiese.
Sal si irrigidì. Ciondolò da un piede all’altro, imbarazzato. Poi oltrepassò la scrivania di noce e si mise a guardare fuori dalla finestra. “Non gliel’ho mai detto” fece di spalle a Christmas.
“E perché?”
“Che ti è preso?” scattò Sal, voltandosi rosso in faccia. “Che cazzo sono tutte queste domande?”
Christmas indietreggiò di un passo. Abbassò lo sguardo sulla copertina di Martin Eden. “Volevo solo sapere perché…” disse piano e si avviò verso l’uscita.
“Perché non sono mai stato un uomo coraggioso, immagino” disse allora Sal.

Quando si ritenne pronta si presentò al signor Bailey. “Ho finito. Questo è l’elenco che mi ha chiesto e queste sono le quattro foto.”
“Brava” disse Clarence. “Adesso sei pronta per il tuo primo lavoro.”
“Non le guarda?”
“E perché mai?” fece Clarence, strizzando i suoi occhi piccoli e acuti. “Io non saprei mai dirti cosa hai capito di te stessa. Solo tu puoi saperlo… ti pare?”

Era di una bellezza drammatica.

Un uomo e una donna che si baciavano mentre il figlio piccolo tirava la gonna della madre, piangendo indispettito per quell’amore che non lo riguardava.

E mentre ognuno degli scalini che portava al primo piano diventava più alto e più faticoso da salire, pensò che non era il denaro che lo avrebbe reso migliore, come aveva sempre creduto.

“Non c’è?”
“No, gliel’ho detto.”
“E quando torna?” Di nuovo l’urgenza nella voce.
“Non so” fece il signor Bailey, sorridendo dispiaciuto perché sapeva che il tempo era stato inventato per torturare gli innamorati.

Luca Di Fulvio

mercoledì 18 settembre 2013

E giustizia sia fatta

Il male che ti ho fatto, in cuor tuo, non lo sai neppure quantificare. Mi sono mosso in modo talmente abile da nascondermi dietro affetti e sorrisi, mentre invece tramavo alle spalle di un dolore ancora più grande del sole. Tu ridevi e dicevi di divertirti, mentre passeggiavamo per strade deserte nelle quali avrei potuto tranquillamente ucciderti. Non l’ho fatto, sai perché? Perché l’omicidio è una soluzione talmente scontata e priva di senso. Un po’ come la pena di morte. È meglio il dolore, continuo e costante. Questa è la migliore punizione. Un supplizio di cui non si riesce a vedere la fine, che agisce quando invece sembra essere l’esatto contrario, quando pensi di stare bene e invece sanguini da fare schifo dentro, riempiendoti di ematomi invisibili. E gonfi, gonfi, fino a diventare un bozzo unico di ferite di cui non ti rendi neppure conto. Ti guardi allo specchio e credi di stare bene. Tutto quanto appare normale, tranquillo. Gli occhi, le guance, la bocca: ogni cosa è al suo posto e sembra perfettamente sana, mentre invece il suo risvolto marcisce di putridume malato, sacrificato in tagli sempre più duri e decisi. È lo scheletro che si scioglie, che si perde in attimi nel quale rompersi è facile quanto respirare. Un solo respiro e, crack. Una frattura. Ma stavi solo respirando. Oppure stavi solo parlando. Stavi ridendo. Come diavolo può essere successo? È questa la punizione migliore da infliggere, quando ti ammali e non pensi neppure di dovere guarire da qualcosa, fino a quando non è troppo tardi e non c’è più. Il male che ti ho fatto, in cuor tuo, non lo sai neppure quantificare, e io non lo so neppure capire. Mi domando se una qualche giuria mi potrebbe mai assolvere se mi giustificassi dicendo che non lo facevo apposta, anzi, che pensavo di farti stare bene e felice con il mondo intero. Mentre facevo il contrario. Essere felice, essere triste. Spingere verso una parte e tirare dall’altra. Ho solo sbagliato direzione, vostro onore, ma ero convinto di fare del bene. Questo direi. Chissà se mai potrei essere perdonato. O se nel letto, ad attendermi paziente, ci troverò mai la mia unica amica: la gogna.

lunedì 16 settembre 2013

Tortuga

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Il livello di civiltà di un popolo si giudica dai suoi crimini. Non parlo tanto dei delitti “raffinati”, quanto di quelli commessi dal popolaccio, oppure legittimati dallo stato.

“Dunque, secondo voi, è il male l’essenza della vita?”
“No, lo è la morte, che non è né bene né male: è inevitabile.”

Non parlo di speranza assoluta. Parlo di un fenomeno di ribellione che diventa norma di condotta e di governo. È così che si fiaccano le insorgenze.

Valerio Evangelisti

mercoledì 11 settembre 2013

Zanzare

Di notte fraternizziamo con le zanzare. A finestre aperte le lasciamo entrare, giocando a riconoscerle dal rumore. Ci volano vicino all'orecchio e bisbigliano frasi che noi non riusciamo a capire. Le loro ali sono la loro lingua, un mezzo di comunicazione importante quanto il nostro parlare. Passano da me a te senza farci caso, poi da te a me, e di nuovo in giro. Volano a spirale verso il soffitto, allontanandosi, per poi ricadere sempre a spirale verso uno dei due. Di tanto in tanto le scacciamo con una mano, cercando di avere silenzio per un po' di riposo. Tra il caldo, il rumore, il sonno che non viene. Le coperte ci sembrano appiccicose perché in fondo lo sono davvero: bagnate del nostro sudore silente. Sono la nostra seconda pelle lasciata abbandonata lì, quasi senza volerlo, in modo distratto. Ancora per poco, un pezzetto, una lingua appena percettibile, è attaccata a un dito o una porzione di braccio o una parte di gamba, una coscia o un polpaccio. Ci giriamo e rigiriamo lasciando impronte doppie impronte, come un velo, della nostra pelle viva e della nostra pelle appena morta. Mentre le zanzare ci guardano cambiare di notte in notte, entrano per salutarci e planano su di noi per capire una cosa che in fondo non capiamo mai neppure noi, io per primo. Non ce lo domandiamo mai abbastanza, ma loro ci ronzano intorno e sembrano volerci dire di non farci caso, di continuare a dormire. Ci tranquillizzano sussurrando parole consolatrici: non vi preoccupate, non vi faremo del male, non sentirete niente. Ci assaggiano con un bacio che sa di risucchio come se volessero capire con quel prelievo che per loro è cibo se ogni notte cambiamo anche dentro così come cambiamo pelle fuori.

lunedì 9 settembre 2013

Tutta un'altra musica

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“Era da un pezzo che volevo fare questo viaggio.”
“Lo so.”
“Mi libererò di lui.”
“Spero di no.”
“Davvero?”
“Dopo che cosa rimarrebbe di te?”

A lei sembrava di volere un figlio per le solite ragioni.  Voleva provare l’amore incondizionato, invece del debole affetto condizionato che di tanto in tanto riusciva a racimolare per Duncan; voleva abbracciare una persona che non avrebbe mai fatto domande su quell’abbraccio, sul perché, il percome e il quanto tempo.

Che assurdità, pensò. Più che pensarlo se lo disse, dal momento che dirsi le cose era un’autocomunicazione più consapevole che pensare e dunque un modo più efficace di mentire.

Devo confessare di essere più confuso che mai, sul tema della compatibilità. Ho cercato di vivere con donne che avevano una sensibilità affine alla mia, con risultati disastrosi, come prevedibile, ma la strada opposta sembra altrettanto disperata. Ci si mette insieme perché l’altro è come noi o perché l’altro è diverso da noi e alla fine ci si separa per le stesse, identiche ragioni.

L’esperienza serviva soltanto a non lasciarti far niente con la coscienza pulita. L’esperienza era una qualità sopravvalutata.

Voleva essere onesta con se stessa, ma essere onesti non significava concludere tutte le frasi, almeno quando la parte mancante denotava un vuoto tanto grande.

Lei guardò fisso la parete dietro di lui, cercando di ricacciare giù l’unica lacrima che le si stava formando nell’occhio destro. Perché il destro? Per una di quelle diavolerie per cui il condotto lacrimale destro era collegato con la parte sinistra del cervello e i traumi psichici venivano elaborati proprio nella parte sinistra?

“Com’è difficile, eh?” disse lui. “Tutto questo processo… boh, chiamalo come vuoi.”
“Non so se ho capito. Tu come lo chiameresti?”
“Processo conoscitivo. Conoscere una persona.”

I bambini secondo un luogo comune, erano il futuro, ma non era vero: erano il presente, il presente attivo e irriflessivo. Loro non erano nostalgici, perché non potevano esserlo, e ritardavano la nostalgia nei genitori.

“Che ne è stato dell’abominevole Duncan?”
Con sua sorpresa, Annie si sentì un po’ ferita.
“Non era poi tanto abominevole. Non con me, almeno.”
doveva difendere lui per difendere se stessa. Era questa la ragione per cui tutti si scaldavano tanto quando si parlava del loro compagno, perfino dell’ex compagno. Ammettere che Duncan non valeva granché significava riconoscere pubblicamente il proprio terribile spreco di tempo e la propria terribile mancanza di giudizio e di gusto.

In qualche modo la moderazione era una qualità sfuggente: non potevi accenderla e spegnerla a tuo piacimento. Ma in fondo era questo il problema delle relazioni umane in generale. Ciascuna aveva la sua temperatura e il termostato non c’era.

Le persone che hanno talento non necessariamente ne riconoscono il valore, perché a loro viene tutto spontaneo e a quello che ci viene spontaneo non diamo mai valore.

Stava cercando di dire che l’incapacità di esprimere in modo soddisfacente i propri sentimenti era una delle nostre perenni tragedie. Non sarebbe stato granché, né sarebbe stato utile, ma almeno avrebbe rispecchiato il peso e la tristezza che aveva dentro.

E devo dire che in questo i libri non mi hanno aiutata molto. Perché ogni volta che si legge qualcosa sull’amore, ogni volta che qualcuno cerca di definirlo, c’è sempre uno stato d’animo o un sostantivo astratto e io cerco di considerarlo così. Ma in realtà l’amore… Be’, l’amore sei tu e basta. E se tu non ci sei, non c’è nemmeno quello. Non c’è niente di astratto nell’amore.

Nick Hornby

mercoledì 4 settembre 2013

In testa

In una situazione del genere l’importante sembra essere solo non impazzire. Ordinare una relativa calma dentro la testa è inutile. Ogni pensiero è reazionario, sovversivo, con uno scopo unico e soltanto, quello di destabilizzare la linearità di una calma che sembra irraggiungibile.
Grovigli e nodi, ecco cosa c’è in testa. Un intricato corrucciato sistema di fili che si addensa dentro e si muove a ritmo vorticoso, senza pace. Premono, questi fili, si fiondano contro le pareti. Sono fruste che frustano il cranio dall’interno. Ed è frustante, il capire che tutto questo in fondo non ha un senso neppure se lo si rigira a testa in giù.
L’ordine, ecco cosa. E una linea piatta, eccone un’altra. Solo questo potrebbe addolcire il tempo facendo si che non si sentano così duri e pesanti il passare dei secondi, dentro, dei minuti, appena in superficie, delle ore, sopra la pelle, dei giorni, lontano.
Solo questo. E non risponde altro. La confusione, regna.

lunedì 2 settembre 2013

Luglio - Agosto 2013


"Non si appartiene a ciò che si ha ma a ciò di cui si sente la mancanza."

Efraim Medina Reyes

martedì 16 luglio 2013

Black Crowes @Piazza del Duomo

Luglio è un mese nel quale Pistoia città inizia una trasformazione al fulmicotone da capoluogo dormiente in centro di ritrovo incredibilmente attraente, nel quale tutti paiono avere fissato la propria meta, per poi tornare, altrettanto rapidamente, ad accoccolarsi nella quiete della calda estate italiana cadendo in un letargo che dura poi esattamente un anno. Questo è il processo con cui è riassumibile la vita musicale di alto livello del panorama pistoiese, il quale ormai pare essersi arreso a dormicchiare all’ombra di quei pochi giorni l’anno che prendono il nome di Blues Festival. Il festival, che divide la città tra chi lo ama e chi invece lo detesta (il termine odia non rende giustizia), ha la caratteristica di riuscire a suddividere maggiormente chi lo ama, andando a spaccare in due ulteriori parti tutti quelli che risiedono nel partito dell’adorazione (non tanto del festival, tantomeno del blues, quanto piuttosto di ciò che ruota attorno al festival stesso). Chi infatti adora il Blues (termine con il quale si indica amichevolmente il festival in ambito della provincia pistoiese) e lo esalta in tutto il suo splendore fatto di notti folli e alcoliche, deve vedersela con chi ama il Blues ma allo stesso tempo nota quanto tutta la baracca che si porta appresso stia un po’ subendo il naturale passare del tempo. Ogni anno, secondo questi amanti-detrattori, si può notare il deterioramento della festa e il lento sciogliersi del divertimento, la sempre più graduale diminuzione di affluenza e quanto sia di anno in anno più facile camminare per il centro e districarsi tra le vie attorno a esso. È una sensazione, questa, che sempre più avranno, ma non tanto per la reale riduzione di persone e/o allegria, quanto piuttosto per il passare naturale del tempo, sì, ma non sulla pelle del Blues quanto piuttosto della propria. Ogni edizione non sarà mai migliore della precedente perché la precedente si porterà sempre dietro un alone mitologico e leggendario che si perde nei postumi di una sbronza colossale che magari non si è più in grado di raccattare a modo. È una sensazione, quella che si ha quando si passeggia tranquillamente in una zona nella quale fino a qualche anno fa non c’era modo di passare per la calca e le magliette fradice di sangria, nelle quali non vi era modo di parlare perché il vociare costante ed elevato di altri ragazzi azzeravano la possibilità di scambiare quattro chiacchiere con chi si aveva anche a portata di orecchio, che segna il passaggio di testimone a nuove generazioni, pronte a fare baldoria nelle tre sere del Blues (venerdì, sabato e domenica), e che proprio nello stesso istante nel quale tu passi con la tranquillità di cui sopra nelle zone che ti hanno visto piegato, loro urlano spensierati mentre con un bicchiere di vino barcollano da una parte all’altra del vicolo per cercare di parlare con un amico. Il passaggio di questa linea lo capisci quando tutto a un tratto ti rendi conto che il Blues non si compone solo di tre sere e comprende pure, cosa strana quanto svegliarsi la mattina, anche la musica.
Quest’anno il Pistoia Blues Festival iniziava di mercoledì (pensa un po’ te!) e richiamava in piazza del Duomo tutti gli appassionati di musica per vedere esibirsi nientepopodimeno che Ben Harper. Evento grandioso, è vero, e come tale pubblicizzato in lungo e in largo non solo in ambito provinciale e regionale. Quello che però suona incredibilmente strano non è tanto l’arrivo del musicista californiano in città, e il naturale tamtam pubblicitario, quanto piuttosto gli organizzatori abbiano voluto glissare imperdonabilmente sul vero evento imperdibile della kermesse, ovvero lo spettacolo del giovedì che vedeva salire sul palco i Black Crowes. No, voglio dire: i Black Crowes. In uno dei due soli concerti destinati alla penisola. A Pistoia, i Black Crowes. Un gruppo ideale per il festival, non solo per l’animo blues che lo anima, ma anche per la capacità di portare indietro il tempo e trascinare i propri spettatori ai gloriosi anni ’70, sia grazie all’abbigliamento e al barbone di Chris Robinson, ma anche al suono e le note dell’altro Robinson, Rich.
I ragazzi di Atlanta salgono sul palco quando ancora la notte non è calata del tutto sulla città e sembrano non dare troppo peso al numero esiguo di spettatori che, aimé, non riempiono la piazza. La gente si avvicina al gruppo ma lascia vuoto il retro, per non parlare le gradinate, formando uno spettacolo che lascia alquanto perplessi considerata la qualità della musica che si appresta ad ascoltare. Già dalle prime note belle cariche, tirate e dure, la prima reazione che viene in mente è: dove diavolo sono le persone? Dove si sono cacciate queste imperdonabili persone che hanno voluto volontariamente farsi del male lasciandosi sfuggire un concerto del genere? Forse è prematuro pensarlo già a Sting me, canzone che apre il concerto, ma sarà la stessa reazione che si avrà quando le luci torneranno ad accendersi dopo oltre due ore di musica, mentre ti aggiri tra la poca folla e ti ripeti dentro: dove diavolo sono tutti?
È in momenti del genere che avverti la strana sensazione di sentirti in colpa per qualcosa che non hai commesso, anzi, che tu hai tentato di evitare. Avresti voluto che a vedere i Black Crowes, questi Black Crowes, ci fosse il mondo intero, tutto quanto stipato dentro Piazza del Duomo, non tanto per chissà quale sentimento di affetto nei confronti del gruppo (anche quello, in effetti) ma soprattutto per chi purtroppo non c’era, per chi si è perso un concerto che in fondo aiuta a definire il rock stesso, e soprattutto il concerto di una band che difficilmente è possibile vedere in Italia (anche se pare avere un occhi di riguardo per Vigevano e il suo castello), tantomeno a Pistoia.
I fratelli Robinson allestiscono uno spettacolo fatto di canzoni trascinanti e trascinate, nelle quali non sono la voce e le parole a prendere il sopravvento ma dove la musica afferra il cuore e ti percuote da dentro. Non è la batteria a fare questa magia, né la chitarra o il basso: è tutto l’insieme che compone una macchina rodata alla perfezione e che lascia a tutti i musicisti di prendersi un assolo lungo quanto un sogno, variando il ritmo e la melodia della canzone nella quale si incastra per una parentesi.
Alla fine ne esci con il fiato corto, affaticato dopo avere ballato come Chris quando non era impegnato al microfono, e con in testa ancora le note di Hard to handle, nella quale i nostri incidono Hush dei Deep Purlple, come se per magia quell’ultima canzone fosse stata capace di cancellare tutto quanto ascoltato prima. Un momento, nella sera, durante il quale non riesci a razionalizzare e a renderti realmente conto di cosa sia successo. C’è stato rumore sempre melodico ed eseguito alla perfezione, c’è stata musica, tirata e bella, con poche pause e nessuna concezione al riposo, e ci sono state anche Thorn in my pride, Jealous again, Remedy, Soul singing, Wiser time. Ci sono stati i Black Crowes a Pistoia. E allora te ne freghi altamente di cosa ti aspetta nel weekend, di quanto sarà facile passeggiare per le vie del centro e di come questa edizione del Blues sarà non memorabile quanto quelle passate. Il Pistoia Blues Festival è in fondo musica e i Black Crowes fanno ottima musica. E pace se ad ascoltarli eravamo in relativamente pochi (sicuramente meno spettatori di quanto i corvi meriterebbero), mi dispiace solo per chi non c’era: peccato per loro.