lunedì 9 settembre 2013

Tutta un'altra musica

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“Era da un pezzo che volevo fare questo viaggio.”
“Lo so.”
“Mi libererò di lui.”
“Spero di no.”
“Davvero?”
“Dopo che cosa rimarrebbe di te?”

A lei sembrava di volere un figlio per le solite ragioni.  Voleva provare l’amore incondizionato, invece del debole affetto condizionato che di tanto in tanto riusciva a racimolare per Duncan; voleva abbracciare una persona che non avrebbe mai fatto domande su quell’abbraccio, sul perché, il percome e il quanto tempo.

Che assurdità, pensò. Più che pensarlo se lo disse, dal momento che dirsi le cose era un’autocomunicazione più consapevole che pensare e dunque un modo più efficace di mentire.

Devo confessare di essere più confuso che mai, sul tema della compatibilità. Ho cercato di vivere con donne che avevano una sensibilità affine alla mia, con risultati disastrosi, come prevedibile, ma la strada opposta sembra altrettanto disperata. Ci si mette insieme perché l’altro è come noi o perché l’altro è diverso da noi e alla fine ci si separa per le stesse, identiche ragioni.

L’esperienza serviva soltanto a non lasciarti far niente con la coscienza pulita. L’esperienza era una qualità sopravvalutata.

Voleva essere onesta con se stessa, ma essere onesti non significava concludere tutte le frasi, almeno quando la parte mancante denotava un vuoto tanto grande.

Lei guardò fisso la parete dietro di lui, cercando di ricacciare giù l’unica lacrima che le si stava formando nell’occhio destro. Perché il destro? Per una di quelle diavolerie per cui il condotto lacrimale destro era collegato con la parte sinistra del cervello e i traumi psichici venivano elaborati proprio nella parte sinistra?

“Com’è difficile, eh?” disse lui. “Tutto questo processo… boh, chiamalo come vuoi.”
“Non so se ho capito. Tu come lo chiameresti?”
“Processo conoscitivo. Conoscere una persona.”

I bambini secondo un luogo comune, erano il futuro, ma non era vero: erano il presente, il presente attivo e irriflessivo. Loro non erano nostalgici, perché non potevano esserlo, e ritardavano la nostalgia nei genitori.

“Che ne è stato dell’abominevole Duncan?”
Con sua sorpresa, Annie si sentì un po’ ferita.
“Non era poi tanto abominevole. Non con me, almeno.”
doveva difendere lui per difendere se stessa. Era questa la ragione per cui tutti si scaldavano tanto quando si parlava del loro compagno, perfino dell’ex compagno. Ammettere che Duncan non valeva granché significava riconoscere pubblicamente il proprio terribile spreco di tempo e la propria terribile mancanza di giudizio e di gusto.

In qualche modo la moderazione era una qualità sfuggente: non potevi accenderla e spegnerla a tuo piacimento. Ma in fondo era questo il problema delle relazioni umane in generale. Ciascuna aveva la sua temperatura e il termostato non c’era.

Le persone che hanno talento non necessariamente ne riconoscono il valore, perché a loro viene tutto spontaneo e a quello che ci viene spontaneo non diamo mai valore.

Stava cercando di dire che l’incapacità di esprimere in modo soddisfacente i propri sentimenti era una delle nostre perenni tragedie. Non sarebbe stato granché, né sarebbe stato utile, ma almeno avrebbe rispecchiato il peso e la tristezza che aveva dentro.

E devo dire che in questo i libri non mi hanno aiutata molto. Perché ogni volta che si legge qualcosa sull’amore, ogni volta che qualcuno cerca di definirlo, c’è sempre uno stato d’animo o un sostantivo astratto e io cerco di considerarlo così. Ma in realtà l’amore… Be’, l’amore sei tu e basta. E se tu non ci sei, non c’è nemmeno quello. Non c’è niente di astratto nell’amore.

Nick Hornby

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