giovedì 25 febbraio 2010

è con il tempo che poi si scopriranno gli eroi

è con il tempo che poi si scopriranno gli eroi. non con le gesta, le azioni, le foto, gli sguardi distorti di occhi comuni che guardano gli altri con più paura della normale ignoranza. tutti saremo sfocati dal passare dei giorni, migliori o peggiori nei ricordi distanti, i mesi, siano essi freddi caldi o lontani. ci perderemo nel bieco distendersi delle gambe malate, seduti tempo fa con frasi urlate per cercare di far collidere i pensieri non sempre simili o solo vicini - non si incastrano, dicevamo con voce appena sussurrata di quel filo di niente che poi erano i nostri respiri fatti di sospiri di brame di voglie nascoste nutrite con desideri mai appagati; ci abbiamo provato, e lo sapevamo mentre lo facevamo?, a inglobare i nostri più intimi modi di essere, cercando di legarli gli uni agli altri, di farli star stretti per non farli scappare, come mandrie di animali furenti che avevamo rinchiuso dentro un recinto e che invece sbavavano dal bisogno primitivo di cavalcate libere su più di un pascolo o letto - di chiacchiere al vento seduti in piazza mentre tentavamo di pulirci via il timido, di trovare un sistema per geometrizzare il nulla, quel qualcosa di grandezza variabile a ritmo di battiti sistolici, respiri trattenuti, ed emozioni ingoiate.
non erano specchi, o per lo meno non lo sono stati in tempi sincroni, a darsi appuntamento per riflettere sull'essere o non essere, essere assieme oppure divisi. erano magari droghe o abitudini alle quali ci siamo piano piano assuefatti, a forza di cadere in bagno - quante volte in una sola serata! con te che bussavi alla porta e urlavi di farti entrare, chiusa fuori in settimane di silenzio rappreso dall'ultima volta che dicevi avevamo litigato - fatti strafatti di dosi smisurate del nostro ego esaltato. ci pompavamo le arterie, le vene, riempiendo i polmoni e svuotandoli poi in un massaggio respiratorio fatto senza toccarci, di questo bisogno che non dicevamo o non ammettevamo o non palesavamo o non riuscivamo ad afferrare ma che dentro sentivamo profondo come la sete. eravamo la cura, e insieme forse ne eravamo anche il male, il vero male, di quella malattia che ci spingeva a continuare. eravamo vaccini con dentro parti di noi opportunamente debilitate, senza braccia senza gambe, senza labbra né denti. ci siamo iniettati, ci siamo drenati, ci siamo infine distesi lontani finalmente non placati.
e se davvero non erano specchi, se lo sono stati per pochi secondi istanti, se a turno li abbiamo passati, varcandone la soglia così lucida e reale - li abbiamo letti, li abbiamo raccontati, li abbiamo incorniciati in quello che dicevamo a noi stessi - chi ce lo dice, a noi, ora che siamo uno da una parte e una dall'altra, se siamo guariti e ci siamo migliorati senza dissetarci?

martedì 16 febbraio 2010

Con Jane non stavi nemmeno a pensare se avevi la mano sudata o no. Sapevi solo di essere felice. E lo eri davvero.

con il tempo ci siamo vestiti di merda. è questo che ha senso? oppure vogliamo ancora raccontarci di fate di streghe o castelli volanti? basta saperlo, non ho niente in contrario. anzi, si potesse davvero viver di questo, non aspetterei altro. altro che la sera quando ci si addormenta, chiudere gli occhi per volare nello spazio; sarebbe tutto un eterno sogno infinito. ma per far questo bisogna mettersi d'accordo, stabilire regole, stabilire contatti. decidere se si no forse ci sono dei limiti e se questi limiti possono essere rotti disdetti o oltrepassati. stilare un prontuario di tutte le situazioni possibili e immaginabili, un regolamento un patto di non belligeranza, o un armistizio una volta finito tutto. e dire "cazzo!" solo quando è davvero necessario, non abusare della parola, dell'espressione, perchè spesso tutto quanto fugge via ad una velocità così spontanea che non si riesce a catturare quel che si vuol davvero dire, a mettere la museruola alle frasi, cercare di imbrigliare quel che si ha dentro anche solo per un minuto, giusto solo un minuto prima di farlo uscire per vestirlo bene, di tutto punto, quel tanto necessario da non farlo andare a giro nudo; ma anche di vestirlo con i vestiti adatti, di mettergli addosso una giacca se deve andare ad un matrimonio, di mettergli il pigiama se dovesse andare a letto, di mettergli una camicia se dovesse andare in un manicomio. ma poco importa quel che si pensa in quel momento, perchè le cose i sentimenti le bugie e le verità sono sempre così urgenti quando le si vive, che per raccontarle o descriverle si prende quanta aria più possibile e si cerca di tirarle fuori senza guardarsi intorno o giudicare se sia giusto o normale o sbagliato. nel presente gli aggettivi sono sempre superlativi, sia da un lato che dall'altro: nascono eretti e voluttuosi e poi con il tempo appassiscon come fiori trascurati. i giorni, se non addirittura le ore, ridimensionano i valori. vuoi mettere la sensazione di contatto vero, reale, sincero: pelle su pelle, dita intrecciate con le dita, i palmi delle mani che si incontrano e si schiacciano uno sull'altro, caldi e umidi di sudore di felicità, quando ancora speri e speri e speri e quando poi si avvera sei così entusiasta che sei pure un po' in tensione, apprensione; hai vissuto talmente tanto l'attimo nel passato che ora da così vicino come sei ti prende la stretta al cuore, ti rovescia, ti sovraccarica di emozioni che non sai più come fare a contenerle tutte, tutte quante, tutte insieme.

lunedì 15 febbraio 2010

Tremens

Ci accompagnamo a lavoro, in auto, quando il lavoro dell'altro pensiamo sia sempre più verde. Io guido e tu sei seduto accanto a me nel sedile del passeggero. Parliamo di cinema: io balbetto qualche titolo di film, tu invece mi insegni il cinema. Mescoli discorsi che travesti con frasi e parole in deliri, anche se poi diliri non sono; ma sono visioni, ma sono viaggi, ma sono analisi critiche, sono dei tunnel che si percorrono a volecità a volte smodata altre volte tranquilla, sicura.
Allacciamoci la cintura, si, per sicurezza; quando partiamo per i nostri viaggi, speciali verso mondi lontani. Sembrano così simili al nostro universo, respiriamo ossigeno ed espelliamo anidride carbonica. Espelliamo anche merda, per questo, dici mentre svolto dopo un semaforo. A volte le persone espellono merda anche dalla bocca, parlano di merda, con merda; altro che denti cariati. La bocca, il pensiero: queste sono le cose che non vanno. Se la merda uscisse solo dal culo, beh, non ci sarebbero certo problemi.
Abbassi il finestrino e lui risponde con un filo di rumore elettrico appena accennato. Se non fosse per la radio - spenta, strano a dirsi quando in macchina ci sono io - se la musica fosse accesa come sempre di solito sempre più spesso, non me ne renderei conto se non dell'aria fredda del mattino ancora grigio, ancora inverno, così duro e nevoso come non se ne vedevano da anni ormai, che entra forte con potenza invadente dentro l'abitacolo. Sputi fumo fuori, avvicinando la testa allo spiffero creato tra vetro e lamiera imbottita.
Che cosa fumi? domando io. E nel farlo mi sembra di cadere in un momento di deja-vu al contario. Qualcosa che dico ma che in realtà sento, nel senso di udito. Non dovrebbe essere la mia bocca, ma le mie orecchie, se capisci cosa intendo.
Sorridi, o almeno mi sembra. Fai il fubetto, rispondi.
Poi svoltiamo ancora, ancora una volta, l'ultima volta. Prima in questo punto c'era un semaforo, ma ora l'han tolto, sostituito come spesso succede con una rotonda. Sull'argine del torrente che costeggia la strada una mandria di pecore pascolano più o meno in ordine seguendo una strana linea indiana. Il pastore non si vede, c'è solo il cane, nero vecchio e malato, a cercare di tenere a bada ogni singolo animale. E' buffo, perchè il parabrezza ha quasi un taglio in 16:9; e anche perchè il cane cerca di tenere a bada ogni singolo animale, ma pure lui è un animale. Anche noi siamo degli animali. E allora: chi controlla i controllori?

venerdì 12 febbraio 2010

You Cheated Me

I know you've got to go
And I wanted to be afraid to say
But I'm not
I'm scared to death of what you've become

You were my only ally
Now you're looking around for an alibi
Why don't you go ask your new set on the set of lies

You cheated me and I can't believe it
I've been calling since four o'clock last night
You cheated me and I can't believe it
I saw you singing and dancing in the rain
All the way home

You left the keys in the door when you left that night
I don't wanna point the finger but I can't help it
Why don't you run your scared little ass down the block
I'll catch up to you when you come back and

You cheated me and I can't believe it
I've been calling since four o'clock last night
You cheated me and I can't believe it
I saw you singing and dancing in the rain
All the way home

When all the bills have been unrolled
And your story has been untold
Tell me if it was worth it
To see the whole damn thing unfold

You cheated me and I can't believe it
I've been calling since four o'clock last night
You cheated me and I can't believe it
I saw you singing and dancing in the rain
All the way home

You cheated me and I can't believe it
I've been calling since four o'clock last night
You cheated me and I can't believe it
I saw you singing and dancing in the rain
All the way home

Performed by Martha Wainwright

giovedì 11 febbraio 2010

Della stessa materia

La rividi l'ultima volta durante uno dei miei continui ricoveri in ospedale. I dottori mi stavano svuotando il corpo, la mente, le vene, rigirandomi tutto come un calzino a suon di analisi, test e quant'altro. Le mattine le passavo dentro una macchina per la tac, o con un ago attaccato al braccio, o ancora bombardato da raggi x per fare radiografie; mentre i pomeriggi li avevo più o meno liberi, quando non ero costretto a chiacchierare dei miei alternanti stati d'animo. Quel giorno, mi pare fosse un martedì o un mercoledì, era di un primo pomeriggio sereno perchè vedevo il sole passare attraverso le finestre prive di veneziane e proiettare la mia ombra sul pavimento, passeggiavo spensierato per i corridoi con tre amiche che erano venute a trovarmi. Non c'era molta gente, a parte qualche parente di altri malati che aspettava l'orario delle visite, o infermiere che camminavano veloci da un reparto all'altro con in mano delle cartellette gialle, o ancora altre infermiere o infermiri o dottori fermi in qualche punto a chiacchierare tra di loro. Io camminavo piano indossando un inglorioso pigiama a strisce verticali bianche e celesti, con una specie di camicia abbottonata fino al penutlimo bottone sotto il collo e dei pantaloni larghi che scendevano fin sopra i piedi a coprire le ciabatte. Era ancora il periodo in cui mi vergognavo da morire a farmi vedere in ciabatte dalle persone a cui tenevo veramente, per questo portavo sempre pantaloni di due o più taglie sopra la mia, in modo da non farli fermare alla caviglia ma scendere fino a nascondere qualsiasi cosa ci fosse sotto. Non che queste tre amiche fossero delle persone speciali, anzi: quando le vidi apparire in camera, io sdraiato sul letto a leggere un libro, mi meravigliai proprio che fossero venute. Di una, magari, potevo aspettarmi la visita, seppur remota e lontana; ma delle altre due proprio fu un fulmine a ciel sereno, qualcosa di inaspettato quanto inspiegabile. Non erano molte le cose che ci legavano, se non che due chiacchiere voleci scambiate distrattamente mentre qualche volta pranzavamo assieme, e non certo sui massimi sistemi o nozioni importanti di vita, vissuta e non. Quel giorno parlavamo di danza, di uno spettacolo che una di loro aveva tenuto giorni prima in un teatro cittadino e che a quanto pareva aveva riscosso così tanto successo da replicare qualche settimana dopo. Era tutta fiera e contenta e soddisfatta, nel parlarne le si vedevano gli occhi brillare, due piccole fessure che emanavano una sittile luce diamantesca, se riesco a rendere l'idea.
Mentre facevo di si con la testa, facevo di no con la testa, annuivo e borbottavo qualche porzione di parola, tranci di frasi appena abbozzate, giusto per far capire di esserci ancora, una porta poco lontano da noi si aprì verso il corridoio. Prima con calma e poi sempre più veloci ne uscirono fuori alcuni ragazzi e ragazze con zaini, borse, quaderni e appunti tenuti in mano. Certi parlavano tra di loro, scambiandosi opioni e ridento di tanto in tanto di quei sorrisi sinceri che delle battute ben piazzate riescono a far fiorire; altri invece cercavano di aggiustarsi il cappotto, o iniziavano una conversazione privata con il cellulare. Una delle ultime ad uscire fu lei. Era insieme ad altre due ragazze e tre ragazzi, e sembrava felice sicura, spensierata nell'essere indaffarata in tutte quelle sue cose che io in quel momento potevo solo immaginare.
Appena mi vide però si fece più scura, aumentò il passo e cercò di mettere quanta più distanza possibile tra noi due. Si districò senza spiegazioni dai suoi amici, portando il quaderno degli appunti ben vicino e stretto al petto, quasi volesse nascondere per qualche inspiegabile motivo ciò che vi era scritto.
Anche io senza dire niente né aspettare alcunché lasciai tutte e tre le mie amiche dietro di me, sentendo alle mie spalle qualche curioso "ma dove va?". Non corsi in quanto ancora non potevo farlo - e questo mi fa pensare che sotto certi aspetti magari inconsci lei voleva farsi raggiungere, perché sapeva bene che sarebbe bastato mettersi a correre per fuggirmi - ma allungai il passo fino a quando non fui abbastanza vicino a lei da afferrarla per un braccio. La fermai e lei fu obbligata a voltarsi. Era rigida, gli occhi non si muovevano, fermi decisi a non rivelare niente, anche se poi allo stesso tempo erano lucidi senza però lacrime.
"Dove vai?" Le chiesi.
"Affari miei."
"Come affari miei? Cosa significa?"
"Significa che non te ne deve importare."
"E perchè non ti sei fatta più viva? Questo almeno me ne potrà importare?"
"Come perchè non ti sei fatta più viva? Hai anche il coraggio di chiedermelo?" Mentre lo diceva non ero più io a tenerla, era lei che si era avvicinata a me con sguardo minaccioso. A differenza di altri momenti, quando quel suo avvicinarsi faccia a faccia un po' mi faceva paura, sempre ignaro di cosa potesse capitare, quella volta invece non vedevo l'ora che andasse avanti. Ero curioso, davvero curioso, di sapere come mai non si era fatta più viva, perchè a differenza di quanto invece sembrava sottointendere lei io non ne avevo la ben che minima idea. Era colpa mia, ovvio: lo si capiva da come aveva reagito; ma per il resto ne ero del tutto all'oscuro.
Purtroppo, proprio in quel momento, fui colto da uno dei miei attacchi e quando ripresi coscienza, quando la mente si riaffacciò dietro gli occhi, riprese possesso del contatto con la realtà attraverso i cinque sensi, compreso l'udito, io ero disteso sotto le coperte del mio letto d'ospedale, era sera, con le luci già spente, e lei non c'era più.

mercoledì 10 febbraio 2010

Segnali dal Futuro


ok, già, bene, eccoci, si si, ok, va bene, si. abbiamo un'idea intrigante, un po' trita e trita e ritrita, si ok, ma pur sempre intrigante, no? non importa se non ha alcuna base, se non ha altezza, se in alcuni momenti perde pure di profondità, no? se non viene spiegata ci sarà una ragione, no? no? bene, dicevamo: abbiamo questa idea che da un po' i numeri, ma non a caso, bada bene, no no, con una certa logica. abbiamo questa idea e abbiamo pure un bell'effetto con i controcoglioni, e non parlo di un effetto di disastro aereo tipo schianto su un'isola deserta e tutte le altre storie, no! parlo di un bell'effetto speciale davvero, almeno l'idea, da piazzare verso il finale, in modo da non bruciarlo troppo presto. quindi abbiamo questi due elementi, che forse non ci incastrano poi tanto tanto bene tra di loro, ma in fondo la pizza mari e monti piace, no? bene, li piazziamo uno all'inizio del film e uno alla fine, in modo che il primo intrighi lo spettatore e lo leghi bene o male alla visione, mentre l'ultimo gli lasci un bel ricordo della pellicola che ha appena visto. perfetto, no?
peccato che nel mezzo ci sia solo il volto un po' spento di un Nicholas Cage padre vedovo che gira per la città in cerca prima di conferme, e poi di risposte, ed infine di aiuto: situazione che alla lunga un po' annoia. non bastano perciò dei sassolini da tenere in tasca per segnare la strada da percorrere per tenere alta la tensione e far si che tu sia lì con gli occhi attaccati allo schermo per vedere come va a finire. la storia si trascina verso un finale, spiazzante, disseminando qua e là personaggi odiosi o lasciando per la strada o in casa altri invece soltanto lievemente tratteggiati.

nostradamus mi fa una sega.

martedì 9 febbraio 2010

Il velo nero

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Cosa c'è in un viso, per cui ci fissiamo su di esso per farci un'idea delle persone?

Questa storia non accetta l'ordine dove il disordine e le esplosioni possono sostituirlo, perché l'ossessione non è mai ordinata, è proteiforme, come la consapevolezza, si presenta in un modo in un giorno di sole rinfrescato dalla brezza, in un altro in inverno. [...] Imbattersi in un'ossessione è come imbattersi in una persona in carne e ossa; l'ossessione ha i suoi punti bui, a volte è inseplicabile, inquietante, sorprendente, e in altri momenti affascinante, è sia ingannevole che leale, si manifesta con pensieri ricrrenti e persistenti, impulsivi, immagini che talvolta, durante il disturbo, sono vissute come invadenti e inopportune, causa di forte ansia o malessere; il rapporto con l'ossessione è lo stesso che hai con un insolito vicino di casa, quando esiti a pretendere di sapere subito tutta la sua storia, e sei soddisfatto del modo in cui i dettagli emergono a poco a poco, perché è così che va una vita, in modo cnfuso, come quando i corvi volano via da un albero dove un falco si è appena posato, famelico. Se gli uccelli descrivessero l'ossessione, io farei un passo indietro per descrivere gli ucceli che ho visto.

Rappresentare il processo in cui la pura verità a poco a poco strappa via tutti i bei drappeggi con cui l'immaginazione ha avvolto un oggeto amato, fino a quando, da angelo che era, lei diventa una normale donna comune.

Dunque sua madre era morta e da quel momento tutto era cambiato, le guarnizioni interne degli umori e delle abitudini.

Kira aveva appena rotto con il suo fidanzato che si faceva in vena, e noi eravamo soli, e la solitudine era come un cattivo sapore in bocca prima di lavarsi i denti al mattino.

La malinconia non si riferisci a nulla. La malinconia ha uno stile o un modo ma nessun oggetto. La malinconia è un modo di pensare, un modo di pensare al pensiero, e ha visogno di consumare la propria vittima; pertanto ha bisogno di piani e strati e rimandi all'infinito in cui mascherarsi e ascondersi. La malinconia elude chi la cerca. La malinconia non è il timore della morte, né una mancanza d'interesse per le cose del mondo, sebbene tutti questi possano essere dei suoi aspetti. E' piuttosto un particolare apsetto del pensiero, un avvinghiarsi, un avvolgimento a spirale, un incnalarsi, una perforazione, un incedente, un modvimento a elica, essendo una cogitazione sempre tesa verso il basso e verso l'interno, come quando un dentista comincia a trapanare un molare fino alla radice. Il pensiero della morte, un certo ritrarsi dalla società, un ritrarsi dal piacere, un'ossessione di consapevolezza, tutto ciò fa seguito alla malinconia, e queste cose possono apparire fugacemente come la sua vera sostanza, ma ogni tema transitorio presto lascia il posto a qualcosa di peggiore, di più oscuro e meschino, qualcosa di meno lucido, perché l'obbiettivo della malinconia è la sua direzipne e la sua forza e la sua forma. Continuità della malattia.

La malattia ha bisogno della paura e del disgusto e della vergona e dell'ossessione per assicurarsi continuità.

I pensieri crescevano in modo esponenziale, come valanghe di rifiuti in una discarica pubblica, e non riuscivo a cacciarli, e al contrario cercavo di rimanere impigliato dentro di loro, ma non ci riuscivo perché era dei nodi, inestricabili, e tentare di dare loro una piegazione significava rimanere impigliati.

il bere era un buon lubrificante delle relazioni sociali.

Il buon senso stabilisce che l'ammissione della condizione di dipendenza è il primo passo sulla strada della cura, e il buon senso ci dice anche che la condizione di dipendenza si nasconde al paziente; quindi, il buon senso suggerisce che il paziente dovrebbe accettare quello che lui non conosce o crede essere vero su se stesso, qualcosa di occulto, qualcosa da cui un velo lo separa.

E nessuno, né lo specialista spagnolo, né Linda l'infermiera, e neanche i miei compagni della terapia di gruppo, sembravano volerle dare un nome, come se dare il nome a un problema fosse una cosa pericolosa.

Se hai bisogno, chiamami. In caso contrario, chiama lo stesso.

Perciò la morte di Joan mi ha messo in contatto con l'invasore, lo Spirito del Male, e mi ha trascinato in una battaglia lnga una vita intera, in cui non ho avuto altra scelta che scrivere la mia via d'uscita. [William S. Burroughs]

Era affascinante; questa era storia per prefigurazioni; eracome chiamre a raccolta dal ristro degli eventi paralleli ma ancora fuori portata, come un film sulla tua vita in cui il tuo ruolo è interpretato da un attore capace di duplicare perfettamente il tuo imbarazzo ma che è più bello di quanto tu possa mai diventare e che in seguito interpreterà un rapinatore di banca o un supereroe. Cosa succederebbe se l'io abituale, mentre scola la verdura, o svuota la pattumiera, o si spinge oltre un cancelletto elettrico, scoprisse di non essere l'io autentico?

Il cuore è un'invenzione dei malati di cuore.

Questo tipo di narrazione assomiglia esattamente, credo, al modo di raccontare le storie di mio nonno, un modo tipico del Maine, in cui la digressione non è un limite bensì proprio l'obbiettivo, in cui il racconto della storia è più importante del suo argomento.

Forse era tutta una questione di scie. Forse nessun viaggio si poteva considerare veramente completo se non osservato dalla sua scia. Forse l'artista era colui o colei che scritava la scia di una nave vedendo i riflessi delle luci di un faro danzare sulle onde.

gli scrittori contemporanei che conosco sono tagliati fuori, le varie persone che ho baciato in tutti questi anni, le difficili descrizioni dei loro baci, tutto lasciato fuori

Forse si tratta semplicemente del fatto che nascondere qualcosa è essenziale all'identità, che, nonostante la moda dei programmi basati su situazioni di vita reale, nonostrante i talk show e le tavole rotonde alla radio e le loro opportunità di confessione, abbiamo bisogno che una parte di noi non venga mai svelata, perché più riveliamoqualcosa di noi stessi, più ci avvolgiamo in veli, strati che rifiutano di farsi conoscere, tegumenti aggiuntivi di colpa o occultamento, in modo che ogni ricordo diventi una fiction, un racconto ritoccato, un Bildunsgroman, proprio come molte fiction non sono che ricordi velati; le due identità, le due strategie narrative, nascondere e rivelare, dipendono l'una dall'altra e si escludono a vicenda.

Rick Moody

lunedì 8 febbraio 2010

Chagall e il Mediterraneo

I colori parlano francesce. Traduzioni sincere di paesaggi freddi della Russia rurale, che si trasformano negli spazi ampi del mediterraneo e delle sue città. Più delle forme sono le sfumature che si nasconono nelle tinte unite, mentre i blu profondi prendono campo sulle tele, i marroni su piatti dove pascolano intagliati animali pacifici; e tramonti spettacolari di un viola luminoso che fanno da sfondo e cornice e riquadro su amanti in volo su cieli di città affacciate sul mare, i loro volti si ingrandiscano rispetto a quelli delle persone che gli sono attorno, o i loro corpi stilizzati in lunghezza mentre si stendono in diagonale sulle nuvole di pennellate tridimensionali. O i temi con cui si intrecciano i dipinti, una trama lunga quadri e quadri su pareti superiori; così come la bibbia vista con occhi nuovi e particolari poco prima di voltare le spalle a tutto, alle tele ai dipinti agli arazzi alle sculture. Una vita spesa per l'arte in giro per il mondo, fino a quando il mondo non si è estinto dentro il corpo ed ha lasciato andare via qual che dentro racchiudeva.

Poi siamo usciti fuori e l'Arno era marrone.

venerdì 5 febbraio 2010

Mr. Tambourine Man

Hey! Mr. Tambourine Man, play a song for me,
I'm not sleepy and there is no place I'm going to.
Hey! Mr. Tambourine Man, play a song for me,
In the jingle jangle morning I'll come followin' you.

Though I know that evenin's empire has returned into sand,
Vanished from my hand,
Left me blindly here to stand but still not sleeping.
My weariness amazes me, I'm branded on my feet,
I have no one to meet
And the ancient empty street's too dead for dreaming.

Hey! Mr. Tambourine Man, play a song for me,
I'm not sleepy and there is no place I'm going to.
Hey! Mr. Tambourine Man, play a song for me,
In the jingle jangle morning I'll come followin' you.

Take me on a trip upon your magic swirlin' ship,
My senses have been stripped, my hands can't feel to grip,
My toes too numb to step, wait only for my boot heels
To be wanderin'.
I'm ready to go anywhere, I'm ready for to fade
Into my own parade, cast your dancing spell my way,
I promise to go under it.

Hey! Mr. Tambourine Man, play a song for me,
I'm not sleepy and there is no place I'm going to.
Hey! Mr. Tambourine Man, play a song for me,
In the jingle jangle morning I'll come followin' you.

Though you might hear laughin', spinnin', swingin' madly across the sun,
It's not aimed at anyone, it's just escapin' on the run
And but for the sky there are no fences facin'.
And if you hear vague traces of skippin' reels of rhyme
To your tambourine in time, it's just a ragged clown behind,
I wouldn't pay it any mind, it's just a shadow you're
Seein' that he's chasing.

Hey! Mr. Tambourine Man, play a song for me,
I'm not sleepy and there is no place I'm going to.
Hey! Mr. Tambourine Man, play a song for me,
In the jingle jangle morning I'll come followin' you.

Then take me disappearin' through the smoke rings of my mind,
Down the foggy ruins of time, far past the frozen leaves,
The haunted, frightened trees, out to the windy beach,
Far from the twisted reach of crazy sorrow.
Yes, to dance beneath the diamond sky with one hand waving free,
Silhouetted by the sea, circled by the circus sands,
With all memory and fate driven deep beneath the waves,
Let me forget about today until tomorrow.

Hey! Mr. Tambourine Man, play a song for me,
I'm not sleepy and there is no place I'm going to.
Hey! Mr. Tambourine Man, play a song for me,
In the jingle jangle morning I'll come followin' you.

Performed by Bob Dylan

giovedì 4 febbraio 2010

Hangover

Ci perdiamo spesso noi, sia tra le parole che per i percorsi cittadini, in passeggiate tra parcheggi confusi dimenticati scambiati, a metà strada fra nazioni e stazioni. Ci chiudiamo nei giubbotti, infilando le mani dentro guanti dalle dita rotte, passiando di qua e di là dal fiume, l'Arno dico io. Usiamo il Ponte Vecchio come bussola per orientarci, le fotografie vecchie come mappe del tesoro. Ci fermiamo nelle piazze quadrate per chiedere informazioni a turisti più turisti di noi, e poi troviamo posto con fortuna nell'unica zona dove la porta si apre e si chiude con più frequenza delle persone che entrano per restare. Quelle che se ne vanno ci guardano prima con invidia e poi incuriositi dalle nostre facce, dai nostri ricordi che affiorano in superficie sotto forma di limpidi sorrisi e fragorose e sonore risate. Ci colgono in fragrante mentre ci avvitiamo attorno al tavolo per scattarci foto dove veniamo con quattro dita, in posizioni contorte per entrare entrambi nell'inquadratura. Non beviamo birra, non beviamo vino, non mischiamo l'alcol con gli antidepressivi perché non abbiamo più pupille da dilatare, ma beviamo cioccolata calda ché in qualche modo questi giorni vanno comunque addolciti, ed è pur sempre vero che si beve per dimenticare. Poi parcheggiati sotto casa tua ti domando quale sia davvero casa tua, e tu mi rispondi che a Dublino non hai modo di guardare le meduse in faccia, che il cielo è sempre grigio e deve piovere sempre almeno una volta al giorno. Lo so, vorrei dire per interromperti, ma quando sto per farlo tu stai zitta, muta, con la schiena appoggiata allo sportello chiuso. Poi esci dall'auto e la mattina dopo mi dici che sei stata male tutta la notte, che hai vomitato e cagato e abbracciato il cesso senza dormire neppure un minuto; ma è normale, penso io, perché ogni sbornia, sia fatta questa di ricordi o di risate o di quant'altro, ha pur sempre un pesante dopo sbornia.

mercoledì 3 febbraio 2010

Sherlock Holmes


premetto: non ho letto niente di Sir Arthur Conan Doyle e di Sherlock Holmes ho solo un vago ricordo sbiadito d'ombra di Piramide di Paura; ma dopo questo adattamento funambolico lo scrittore britannico penso si sia più volte rivoltato nella tomba (situazione tra l'altro lontanamente citata pure in una scena del film). ci sono esplosioni, in quantità, crolli e sfaceli rumorosi, eclatanti, distruzioni, inseguimenti a rotta di collo, tuffi dal trampolino più alto e bungee jumping estremi. il tutto tenuto insieme da una trama frammentata, spezzettata come i pezzi di puzzle che quando vengono ricomposti nella posizione corretta ti fermi a guardare e poi: giri la testa da un lato, la pighi dall'altro, ti avvicini un pochino, e non sei sicuro di vederlo nel modo corretto o nell'angolazione giusta. l'investigatore privato più brillante del mondo, passato presente e futuro, diventa nelle mani di Guy Ritchie un disordinato padrone di casa e dei propri pensieri, dai modi alquanto spigolosi e burberi, sporco, frequentatore assiduo di incontri di boxe clandestini a cui partecipa non da spettatore ma da pugile, invaghito si suppone da lunga data di una Rachel McAdams dalla bellezza appiattita. Jude Law tutto impettito e zoppo fa da spalla, corrugando irritato di tanto in tanto la fronte e squittendo una rabbia trattenuta. in ombra la nemesi, mai vista in faccia, che tira le fila, raccoglie quel che altri hanno seminato, e si riscalda per il sicuro sequel.

Robert Downey Jr. fa Iron Man che fa Sherlock Holmes.

martedì 2 febbraio 2010

Prima silenzio e poi via

Mi parlavi quando ero solo nella stanza e se mi affacciavo dalla finestra vedevo montagne e la solitudine si allargava. Mi parlavi quando non conoscevo nessuno, con quei nessuno che entrevano nudi nella camera per ridere o scherzare. Ti avevo portato con me perchè ero sicuro che mi avresti tenuto compagnia, nonostante ci dividesse allora come ora come sarà domani, sia lo spazio che il tempo e i periodi storici. Poi successe che proprio in quei giorni morì un altro grande, ed io ero lontano da casa, e non potevo far altro che leggerlo sul giornale nella pagina della cultura, appoggiato al frigorifero dei gelati mentre i miei compagni fuori facevano la coda al telefono pubblico sotto l'unico portico di quel paese. E allora ricordo che mi dicevi di non raccontare mai niente a nessuno, altrimenti poi si sente la mancanza di tutti; ed era buffo sentirlo dire da te, in isolamento come eri, perchè già quando lo dicevi mi mancavi, e mi mancava pure quel grande che se ne era andato, e la mancanza è un sentimento di qualcosa che prima avevi e ora non hai più, è un pezzo vuoto, un posto che prima era pieno e d'un tratto è diventato pieno di niente. Per questo mi domando quando sei davvero morto, se pochi giorni fa o molti anni fa; perchè a differenza di quel grande non è che te ne sei andato in modo netto e preciso, una data fissa, ma in due tappe: prima silenzio e poi via. Se devo dire quando quel tassello di quel puzzle è venuto a mancare, mentre le pagine sono rimaste. e ci sono, e ci saranno. per fortuna. anche se purtroppo. Non è la stessa cosa, e se penso a quei giorni, non so spiegarmi il perchè, visto che dopo qualche tempo non hai fatto altro che ripetermi sempre le stesse cose, anche se a più livelli ed ogni volta le tue parole avevano un significato diverso, e lo potrebbero avere ancora; solo che magari ora quelle stesse frasi, quei caratteri stampati non hanno più un senso di movimento, non danzano, sono fisse ora, ferme, come se ogni singola lettera fosse diventata una lapide.
E mi mancherai, come mi sei mancato in questi anni.

Jerome David Salinger
1 Gennaio 1919 - 28 Gennaio 2010


lunedì 1 febbraio 2010

Gennaio 2010


"Ma tu chi sei che avanzando nel buio della notte inciampi nei miei più segreti pensieri?"

William Shakespeare