giovedì 11 febbraio 2010

Della stessa materia

La rividi l'ultima volta durante uno dei miei continui ricoveri in ospedale. I dottori mi stavano svuotando il corpo, la mente, le vene, rigirandomi tutto come un calzino a suon di analisi, test e quant'altro. Le mattine le passavo dentro una macchina per la tac, o con un ago attaccato al braccio, o ancora bombardato da raggi x per fare radiografie; mentre i pomeriggi li avevo più o meno liberi, quando non ero costretto a chiacchierare dei miei alternanti stati d'animo. Quel giorno, mi pare fosse un martedì o un mercoledì, era di un primo pomeriggio sereno perchè vedevo il sole passare attraverso le finestre prive di veneziane e proiettare la mia ombra sul pavimento, passeggiavo spensierato per i corridoi con tre amiche che erano venute a trovarmi. Non c'era molta gente, a parte qualche parente di altri malati che aspettava l'orario delle visite, o infermiere che camminavano veloci da un reparto all'altro con in mano delle cartellette gialle, o ancora altre infermiere o infermiri o dottori fermi in qualche punto a chiacchierare tra di loro. Io camminavo piano indossando un inglorioso pigiama a strisce verticali bianche e celesti, con una specie di camicia abbottonata fino al penutlimo bottone sotto il collo e dei pantaloni larghi che scendevano fin sopra i piedi a coprire le ciabatte. Era ancora il periodo in cui mi vergognavo da morire a farmi vedere in ciabatte dalle persone a cui tenevo veramente, per questo portavo sempre pantaloni di due o più taglie sopra la mia, in modo da non farli fermare alla caviglia ma scendere fino a nascondere qualsiasi cosa ci fosse sotto. Non che queste tre amiche fossero delle persone speciali, anzi: quando le vidi apparire in camera, io sdraiato sul letto a leggere un libro, mi meravigliai proprio che fossero venute. Di una, magari, potevo aspettarmi la visita, seppur remota e lontana; ma delle altre due proprio fu un fulmine a ciel sereno, qualcosa di inaspettato quanto inspiegabile. Non erano molte le cose che ci legavano, se non che due chiacchiere voleci scambiate distrattamente mentre qualche volta pranzavamo assieme, e non certo sui massimi sistemi o nozioni importanti di vita, vissuta e non. Quel giorno parlavamo di danza, di uno spettacolo che una di loro aveva tenuto giorni prima in un teatro cittadino e che a quanto pareva aveva riscosso così tanto successo da replicare qualche settimana dopo. Era tutta fiera e contenta e soddisfatta, nel parlarne le si vedevano gli occhi brillare, due piccole fessure che emanavano una sittile luce diamantesca, se riesco a rendere l'idea.
Mentre facevo di si con la testa, facevo di no con la testa, annuivo e borbottavo qualche porzione di parola, tranci di frasi appena abbozzate, giusto per far capire di esserci ancora, una porta poco lontano da noi si aprì verso il corridoio. Prima con calma e poi sempre più veloci ne uscirono fuori alcuni ragazzi e ragazze con zaini, borse, quaderni e appunti tenuti in mano. Certi parlavano tra di loro, scambiandosi opioni e ridento di tanto in tanto di quei sorrisi sinceri che delle battute ben piazzate riescono a far fiorire; altri invece cercavano di aggiustarsi il cappotto, o iniziavano una conversazione privata con il cellulare. Una delle ultime ad uscire fu lei. Era insieme ad altre due ragazze e tre ragazzi, e sembrava felice sicura, spensierata nell'essere indaffarata in tutte quelle sue cose che io in quel momento potevo solo immaginare.
Appena mi vide però si fece più scura, aumentò il passo e cercò di mettere quanta più distanza possibile tra noi due. Si districò senza spiegazioni dai suoi amici, portando il quaderno degli appunti ben vicino e stretto al petto, quasi volesse nascondere per qualche inspiegabile motivo ciò che vi era scritto.
Anche io senza dire niente né aspettare alcunché lasciai tutte e tre le mie amiche dietro di me, sentendo alle mie spalle qualche curioso "ma dove va?". Non corsi in quanto ancora non potevo farlo - e questo mi fa pensare che sotto certi aspetti magari inconsci lei voleva farsi raggiungere, perché sapeva bene che sarebbe bastato mettersi a correre per fuggirmi - ma allungai il passo fino a quando non fui abbastanza vicino a lei da afferrarla per un braccio. La fermai e lei fu obbligata a voltarsi. Era rigida, gli occhi non si muovevano, fermi decisi a non rivelare niente, anche se poi allo stesso tempo erano lucidi senza però lacrime.
"Dove vai?" Le chiesi.
"Affari miei."
"Come affari miei? Cosa significa?"
"Significa che non te ne deve importare."
"E perchè non ti sei fatta più viva? Questo almeno me ne potrà importare?"
"Come perchè non ti sei fatta più viva? Hai anche il coraggio di chiedermelo?" Mentre lo diceva non ero più io a tenerla, era lei che si era avvicinata a me con sguardo minaccioso. A differenza di altri momenti, quando quel suo avvicinarsi faccia a faccia un po' mi faceva paura, sempre ignaro di cosa potesse capitare, quella volta invece non vedevo l'ora che andasse avanti. Ero curioso, davvero curioso, di sapere come mai non si era fatta più viva, perchè a differenza di quanto invece sembrava sottointendere lei io non ne avevo la ben che minima idea. Era colpa mia, ovvio: lo si capiva da come aveva reagito; ma per il resto ne ero del tutto all'oscuro.
Purtroppo, proprio in quel momento, fui colto da uno dei miei attacchi e quando ripresi coscienza, quando la mente si riaffacciò dietro gli occhi, riprese possesso del contatto con la realtà attraverso i cinque sensi, compreso l'udito, io ero disteso sotto le coperte del mio letto d'ospedale, era sera, con le luci già spente, e lei non c'era più.

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