giovedì 30 aprile 2009

Sputnik

È lo slancio. Propulsione non atomica di un razzo per la luna. Il conto alla rovescia. Tre due uno. Un piccolo passo per un uomo, un grande passo. Per un attimo. La pelle in tirare sulla faccia. I caschi, o mio dio i caschi, chiusi che diventano pesanti. E la gravità. E' la gravità: lascia che la gravità faccia il suo corso.
Forse sarebbe stato meglio usare delle scimmie. Ammaestrarle. Registrare tutto, e non viverlo. Guardarlo su tv ad alta definizione. E studiare un metodo più indolore. Ci saremmo evitati queste forze appese alle guance. Le braccia che pesano il quintuplo. Le mani che sudano di continuo. E questa sensazione da casa di riposo. Mi sento come un reduce di guerra. Reduce di patria. Le infermiere. L'infermiera che cura un vecchio, e malato. E' la compassione la mia cura? Accondiscendenza sterilizzata. In camere iperbariche. In camere separate. Mi sento già male. E quando parlo la mia voce è di rame.
Sarebbe stato davvero meglio inviarci delle scimmie. O dei leoni. Tigri. Elefanti. Coccielle. Oppure sbarcare su delle nuvole di legno. Non ci saremmo sbucciati il viso. Bruciati il naso. Ecchimosi sul mento. Io e tutti i miei compagni di viaggio. Anche se ora sono rimasto solo io. E forse lo sono sempre stato. Solo io.

mercoledì 29 aprile 2009

Hard Candy


Un film di primi piani, senza via di mezzo nelle sequenze, dove la macchina da presa aspetta i personaggi, essenziali, nell'inquadratura in una casa presto prigione dai colori pastello. Il leone si diverte con l'agnello; il leone compra, offre, fa sorridere; ma l'agnello ha artigli e denti affilati lunghi, rugginosi da sanguinare rame.
Può esser visto come una liberazione, come un manifesto contro, ma la Page lontana anni luce dalla Juno di Diablo Cody è odiosa da far paura, da far quasi irritare, con i capelli tagliati male e un po' così: distrattamente non pettinati a regola d'arte. L'aria lentigginosa, gli occhi strabordanti distaccamento ricercato, misurato. L'arroganza, sapienza, ostentata, buttata.
Alla fine, in superficie, tutto si risolve, portando i nodi, nodi, nodi, a sciogliersi su polsi lisi e lacerati dalle escoriazioni. Ma tutti i pezzi non combaciano, rimanendo con braccia allargate in attesa di risposta, di una spiegazione. E l'ombra, se a questo si voleva arrivare, di Matthew Poncelet pesa così tanto nella sua lunghezza da non riuscire a non vedere un colpo mancato lungo i titoli di coda.

E pensare che al mattino eri uscito convinto di scopare.


Giudizio: Tv
  • Cinema ==> Da vedere assolutamente, correre al cinema
  • Dvd ==> Da vedere, ma si può aspettare il noleggio
  • Tv ==> Niente di esaltante, se proprio si deve vedere aspettare il passaggio in tv
  • Passeggiata ==> Perdibilissimo. Andate pure a fare una passeggiata.. anche sotto la pioggia

martedì 28 aprile 2009

Circa Prescrizioni Mediche [Extended Edition]

Dicono che l'amore, quello sofferto a spasmi sul petto e dal martellare sulle tempie, non quello sano degli involucri dei preservativi strappati con i denti e abbandonati su pavimenti sporchi dalle polveri staccatesi dai copri nel loro continuo sfregarsi a consumare passione e pelle; dicono che l'amore, o chi per lui - dipende da quale animale si sia deciso di addomesticare, dall'età, dalla concezione di quanto si ha attorno, e soprattutto a quanto si abbia la volontà di credere - dicono che faccia dimagrire, che lento si insinui nei meccanismi naturali del nostro corpo e si sostituisca all'apparato digerente tutto. L'attesa prende il posto dello stomaco, la gelosia dell'intestino, le fantasie lungo l'esofago scivolano sulle loro stesse pareti; e la bocca, con labbra, lingua, denti e morsi, sono le parole dette e non dette, i pensieri appena accennati e le mille infinite possibilità disegnate da questo gioco di dire e non dire. Dicono che con il passare del tempo si perda l'appetito, pian piano non si senta più la fame e mangiare diventi un'abitudine sempre meno frequente. Attorno l'aria si fa porpora: niente ha più sapore, se non i contorni dell'altro, la figura impressa nella retina, incisa come un fantasma invisibile agli altri.
Dicono sia questa la malattia più grande dell'amore univoco, quello che non fa dormire la notte e cerchia gli occhi di rosso con capillari scoppiati all'interno; ma si sbagliano: non è l'amore. E' lo scrivere che dà questi problemi, controindicazioni o effetti collaterali, deformazioni professionali. Non è la bramosia del contatto, dello stringersi forte e perdersi in altre persone, ma è il desiderio di possedere la pagina, di riempire il bianco non seme con un nero spermatozoico. E' questo che non fa mangiare, che non fa ingoiare altro se non respiri e parole, frasi, avverbi, scenari tipici e scenari atipici, movimenti, periodi, soggetti, aggettivi, virgole e punti e due punti, punto e virgola, a capo; la punteggiatura nella sua più completa totalità. Arrivo a casa e non ho il tempo materiale di prepararmi la cena, un uovo in padella, due spaghetti due di numero, della carne congelata da ciucciare come un ghiacciolo. Ho in bocca, incastrate tra i denti come carie filiformi, parole sempre più complesse, sempre più difficili da memorizzare, sempre di più. Non riesco a posare che la borsa, le chiavi, prima di afferrare il primo pezzo di carta sparso.
Non posso mangiare, perché nel masticare perderei il filo dei discorsi che si sono creati in testa. Dicono che l'amore, quello sofferto a spasmi. Mentre riscaldo un pugno di spinaci che poi so già metterò in frigo, così come ho fatto ieri, e l'altro ieri, e ieri l'altro ancora, muovo la bocca proprio come se stessi realmente, fisicamente, masticando, mentre invece sto parlando, sottovoce, ripetendo le mie stesse parole per non perderle o farle smarrire prima di riuscire a trasferirle da qualche parte. Dicono che l'amore, quello sofferto a spasmi sul petto. Lascio tutto sui fornelli, lascio che bruci, che il puzzo di bruciato si espanda nella cucina, in salotto. Le dita si muovono a disegnare parole nel vuoto, ancora senza penna, ancora senza carta, mentre la cerco rovistando tra i cd, masterizzati e non, i libri sugli scaffali. Dio, mi maledico!, per quale stronzo motivo non tengo un quaderno da una qualche parte ben precisa, magari in un cassetto dove potrei sapere di trovare ogni volta ciò che sto cercando. Lo trovo sotto un mucchio di riviste, stese a ventaglio sul pavimento di quello che doveva essere lo studio ed invece è ancora un enorme ripostiglio di tutto. Cerco allora una penna: la prima che trovo non funziona. Le mani nel frattempo continuano a muoversi; la mia voce nella testa non ha smesso un secondo di parlare. Dicono che l'amore, quello sofferto a spasmi sul petto e dal martellare sulle tempie. La seconda getta inchiostro a sprazzi e per riuscire a leggere quello che sto scrivendo devo ripassare ogni lettera tre, quattro, volte. E' troppo lenta nello scrivere, mi serve qualcosa di più rapido, come un treno, su dei binari, che non ferma in nessuna stazione. Devo essere libero di scivolare via insieme ai miei pensieri, non fermarmi a ricalcarli, marcarare di nuovo i loro contorni con la china: rischierei di perderli, di perderne la scia. Dicono che l'amore, quello sofferto a spasmi sul petto e dal martellare sulle tempie. E' già un miracolo che sia arrivato fin qui e non abbia dimenticato neppure una parola. Trovo un lapis! Grazie al cielo. Mi siedo sulla poltrona in mezzo alla stanza, appoggio il foglio su un ginocchio e prendo a scrivere. Dicono che l'amore, quello sofferto a spasmi sul petto e dal martellare sulle tempie. Buco il foglio con la punta: cristo santo! Mi sdraio per terra, sento il pavimento freddo sotto la maglia, i pantaloni, i gomiti baciano insistenti le piastrelle dure. Dicono che l'amore, quello sofferto a spasmi sul petto e dal martellare sulle tempie. E' una liberazione, finalmente posso lasciare andare tutto quanto, togliere il piede dal freno, smettere di trattenermi. Libero. Non quello sano degli involucri dei preservativi strappati con i denti e abbandonati su pavimenti sporchi dalle polveri staccatesi dai copri nel loro continuo sfregarsi a consumare passione e pelle. Nel frattempo la cena, o quella che doveva essere, brucia sul fuoco, sfrigolando prima e annerendo dopo. Dicono che l'amore, o chi per lui - dipende da quale animale si sia deciso di addomesticare, dall'età, dalla concezione di quanto si ha attorno, e soprattutto a quanto si abbia la volontà di credere - dicono che faccia dimagrire.
Lo pensa anche il medico da cui decido di andare, un giorno, preso dallo sfiancamento totale delle ultime ore.
"Lei è innamorato? - mi chiede distaccato da dietro la sua scrivania, disordine impilato qua e là in fogli, blocchetti di ricette, campioni di nuovi farmaci lasciati da giovani rappresentanti. Mi guarda con gli occhialini rettangolari e stretti calati sul naso, in bilico sulla punta. - Innamorato non corrisposto?"
Ha guardato le mie analisi del sangue, le analisi delle urine, l'elettrocardiogramma, i test allergici, le radiografie alle braccia, gambe, petto, torace, le risonanze magnetiche, ha letto tutto, e non ha capito un cazzo.
"No! - mi chino in avanti. - Lei non capisce, non è questo. E' la scrittura, cristo santo! Mentre venivo qua, in macchina, ho rischiato di fare un incidente ad ogni curva, di volare fuori di strada ogni cinque minuti. Vedevo un signore sul marciapiede che passeggiava con il cane e mi veniva voglia di descriverlo. Così prendevo il cellulare e iniziavo a scriverlo come un messaggio, giusto degli appunti. Chinavo la testa sul telefono, poi la rialzavo di scatto per vedere la strada, la riabbassavo per controllare se avevo scritto tutto bene, e quando la rialzavo di nuovo ero ad un millimetro da un pedone, un ciclista, o dal guardrail, ad un soffio nel finire giù da un fosso. Non è l'amore, è la scrittura. Anche ora, in questo preciso istante, lei mi parla, io le parlo, e non riesco a trattenermi dal vedere ogni cosa non con gli occhi ma con parole. Guardo questa scrivania - appoggio una mano su un mucchio di fogli - e penso: disordine impilato qua e là in fogli, blocchetti di ricette, campioni di nuovi farmaci lasciati da giovani rappresentanti. Capisce?"
Lui abbassa lo sguardo. Sembra assorto, concentrato.
"C'è un po' di inchiostro nel sangue, una piccola percentuale; ma è normale, come il catrame nelle sigarette."
Torno seduto composto, appoggiandomi allo schienale della sedia. Non c'è niente da fare: sono normalmente sano, a quanto pare.
E mentre salgo in macchina, metto in moto, esco dal parcheggio, mi immetto nel traffico, penso: non è l'amore. E' lo scrivere che dà questi problemi.

lunedì 27 aprile 2009

Guarderemo film in Egitto, o a Londra [Spagna]

Con il pesce andrebbe il vino: bianco; con la carne il vino: rosso. Ma dopo antipasto e chiacchiere, mille aneddoti sfortunati, asfaltati su terra battuta non di campo, rosso come il gioco, come il vino, con budella tese a raccogliere voci squillanti, in due minuti due, arriva il primo: di pesce. E il secondo: di carne. Parliamo di quando andremo a vedere le piramidi e l'Egitto, non quest'estate, ma a diciotto anni. Una vacanza retroattiva, attivando la nostra macchina del tempo, una forza leggera sulla leva meccanica che punta agli anni, un display per il giorno, la data, il mese, l'orario, i minuti, e pure i secondi. Un viaggio che slitta di qualche istante tra il prima e il dopo: fuori sincrono perché abbiamo perso del tempo, in un viaggio nel tempo, proprio nel viaggio. La materia ci ha inghiottito, o ci inghiottirebbe. Einstein si butterebbe tra lingue di fuoco pur di morire, invece finirebbe congelato. Mi tuffo così, nudo come non sono mai stato fino ad ora, in questo stagno, lago, ruscello gelato, che è il nostra viaggio immagianario, quello tra le sabbie del deserto. Visito assolate giornate di primavera, vestito con un turbante bianco a coprirmi il cervello dal mio mal di testa. Cavalco su cammelli così insicuri nei loro passi, un'ondeggiare discontinuo e non ritmato, tra il davanti e il dietro e il laterale, destro sinistro. Mi innamoro di questa strana guida che traduce per me i geroglifici disegnati ed impressi a forza nelle pareti delle cripte. Ci nascondiamo dal sole, per l'ombra e l'aria avvizzita di un vecchio chiuso da millenni, nei canali nascosti e non scoperti delle piramidi. Con le spalle agli stretti corridi ci spogliamo dei vestiti, della pelle, delle parole, delle traduzioni e dei sospiri. Le bacio il collo, scuro abbronzato da quando era bambina, scostandole i capelli folti e neri, densi come il petrolio. Lei allunga le testa verso l'alto, mi fa spazio, scoppiando in un gesto esplosivo e muto, trattenuto appena, porta il piede scalzo dagli stivali sul mio culo. Vorrei essere seppellito in questo modo, mummificato in posizioni tali e quali a questa, mentre formiamo un calice da cui bere, da cui dissetarci ognuno della saliva dell'altro. La sua, compatta, mi entra in bocca come un liquido argenteo e fuso. Tu ci ritroveresti anni, secoli, o millenni dopo, alla fine di ricerche enstenuanti, in restauri di fosse comuni, pozzi delle anime. Ci ritroveresti neri come fossili, fragili e allo stesso tempo solidi.
Al mio ritorno invece vengo a sapere che tu sei stato in Spagna, o a Londra; oppure hai trapiantato Londra in Spagna, cambiando tutti i segnali stradali della city e traducendoli in catalano. Hai insegnato alle persone spaesate a parlare la lingua di Cervantes, annodando la loro lingua con la tua, con la sua, quella di Cervantes. A chi ti chiedeva dove erano i mulini a vento? tu hai indicato un labirinto complicato un vasto insieme di vene e canali, avvitati assieme da brugole sempre più piccole e sottili, fino ad arrivare ai capillari e ad annodarsi nei capelli. Hai passeggiato tra le strade delle corride sotto una pioggia ad intermittenza, si no, sole nubi, guardando di tanto in tanto la crepa che si apriva sotto i tuoi piedi, mentre i tori ti rincorrevano a Pamplona, cavalcati dallo spirito di Hemingway; oppure l'ombra dei Pirenei, le tempeste di cavallete trasportate dall'Africa fino a Tenerife. Le cavallette! Un'invasione di cavallette!
Avrai mille amanti e mille altre ti guarderanno con ardore. Bacerai le giovani labbra sulle spiaggie mediterranee, mentre il desiderio ti bagnerà i piedi, con occhi famelici di altra gente a te vicina. Ascolterai lo scorrere del giorno, lo stridere grigio perla della luna sul cielo notturno, e ti dimenticherai di me, ad ammuffire tra i canali misteriosi delle grandi piramidi d'Egitto. Io e la mia guida, saldati in un amplesso senza tempo. Ci verrai a liberare solo ai tuoi diciotto anni, dando un senso a tutto questo viaggio, liberando la realtà e sciogliendo i nodi di poco senso. I viaggi intorno al mondo, quelli si, ma non dirmi i viaggi contro il tempo, ti prego: non esistano e non esisteranno mai, altrimenti l'universo collasserebbe su se stesso. Mi diresti.

Saremmo stati degli sciocchi, se non avessimo approfittato di tutto questo.
Mi diresti.
Saremmo stati degli sciocchi, se non avessimo approfittato di tutto.
Mi diresti.
Tu e il tuo tesoro inestimabile a tuo fianco.

venerdì 24 aprile 2009

Curami Deus

Metti che un giorno ti dica
leccami petto ginocchia e dita
Con un intervallo arancione
che mi renda una creatura migliore

Dove sei, e se ci sei, fatti vedere
Credo di avere il diritto di poterti toccare

Vorrei scavarmi la buca
Prima che faccia fatica
A riconoscerti mentre ti confonderai in mezzo alle fiamme

Dove sei, e se ci sei, fatti vedere
Credo di avere il diritto di poterti toccare

Dove sei e se ci sei, parlami ancora
Parlami ancora fino ad annoiarti la gola

Curami Deus con quell’amore
che fino a ieri mi imponevi di dare
Rivelami poi quelle parole difficili per me…
Difficili per me…

Metti che un giorno ti dica
leccami petto ginocchia e dita
Con un intervallo arancione
che mi renda una creatura migliore

che mi renda una creatura migliore
che mi renda una creatura migliore
che mi renda una creatura migliore
Migliore, migliore…

Performed by Moltheni

giovedì 23 aprile 2009

Il passaggio per Narnia

Chissà se qualcuno ora sta gareggiando per il gran premio del Serravalle, come noi facevamo qualche anno fa. Io spingevo la vecchia Panda con il motore al massimo, fino a fonderlo, sul serio: lo sterzo che tremava a massaggiare le mani, i buchi sul parabrezza che facevano passare il freddo; oppure slittavo di traverso mentre ai bordi della strada c'era la neve ammucchiata, poco prima di attraversare l'armadio e ritrovarmi nel fantastico mondo di Narnia. Tu invece disfacevi la tua macchina nuova sui guardrail, la scheggiavi di continuo andando contro le altre macchine, dalla corsia di sorpasso a quella di marcia e poi di nuovo in sorpasso. Bang! Quando mi vendevi l'autoradio e pezzi di arredamento e io me li facevo rubare nei parcheggi dei centri commerciali. Ricordo ancora la prima volta che risposi in modo corretto ad una domanda da telequiz, e tu girasti la tua sedia con i pollici alzati, facendo segni di consenso; poi passammo il pomeriggio a tradire mio fratello, facendo la spesa per la sera, e non mangiando mai. Cazzo, il the delle cinque, i baicoli riportati da Venezia. Il cannonau e la creama di pecorino, gli aperitivi sardi, per poi tornare a sederci ubriachi; oppure le gare a chi si sentiva male prima, mangiando dolcetti, e scherzetti, avariati presi dal bancone delle offerte, quello scatolone con le date di scadenza ormai passate. E tutti i posti dove siamo andati a mangiare, o a bere della birra; la tristezza che, dicevi, faceva sempre bene. Quando io lottavo per non addormentarmi all'areoporto di Pisa, mentre tu bestemmiavi contro delle repliche troppo veloci per vederne la differenza: passavamo davanti alla tabaccheria solo per vedere la commessa, ammiccare stupidi ai suoi vestiti, poi attraversavamo quel passaggio segreto per andare a vedere la pista di atterraggio da vetrate gigantesche. Partivamo ad orari osceni la mattina, visitando come due scolari degli autogril sempre uguali, gli uni agli altri, tanto da farmi sentire male, quasi a vomitare dalla disperazione. Le piaghe da decubito. Volevamo arrivare a Genova prima delle otto. Poi ad Alba, sotto un sole ed un caldo cocente, a cercare un posto dove mangiare il tartufo: un viaggio a vuoto, quando tu eri già via. Al ritorno ci fermammo a Viareggio, ci facemmo prestare dei costumi e facemmo il bagno solo per sentire poi freddo. Mi rincorrevi sulla sabbia mentre ero al telefono, mi facevi il verso, e ridevamo davvero tanto. Anche per i segni che lasciavamo sulla pelle, secondo alcuni, le lettere marchiate a fuoco, come il bestiame nelle mandrie; ed io che continuavo a dire: segno solo una lettera, cosa credete? Tu non dicevi niente ma sapevi cosa volevo dire. Perché da quel giorno non ho mai dimenticato quanto possa essere fastidioso l'odore dei fagioli bruciati, e tu chiuso fuori a battere i pugni contro la porta. Poi però hai iniziato a viaggare per Roma. Facevi avanti e indietro, su e giù in eurostar lenti, e in ritardo. Tiravi in ballo avvocati, storie assurde alle quali io credevo come un bambino: guarda babbo natale scendere dal camino. Avrei dovuto capirlo prima, subito, fin dall'inizio. Anche se c'era chi diceva che ti avrei seguito.

martedì 21 aprile 2009

Lasciami entrare

Immagine di Lasciami entrare

Amore significa mettere la propria vita ai piedi di un altro essere umano, e al giorno d'oggi nessuno è in grado di farlo.

Meglio un po' di merda in un angolo che dappertutto.

"Oskar. Ti piaccio?"
"Si. Tantissimo."
"Se non fossi una ragazza... ti piacerei ugualmente?"
"Come?"
"Solo questo. Ti piacerei anche se non fossi una ragazza?"
"Si, certamente."
"Sicuro?"

L'unico rumore che si udiva era il cigolio delle ruote di gomma che scorrevano sui pavimenti di linoleum.

Sentì che qualcuno gli accarezzava la guancia in un mondo lontano. Non riuscì a formulare il pensiero che, come sentiva, doveva essere suo. Ma da qualche parte, su un pianeta lontano, qualcuno gli stava accarezzando la guancia.
Ed era bello.
Poi rimasero soltanto le stelle.

e si erano raccontati i rispettivi mondi, cercando di farli combaciare, con un discreto risultato.

Poi il dolore. Una barra incandescente viene infilata nel suo inguine, scivola su nel suo stomaco, un tubo di fuoco gli attraversa tutto il corpo, e lui inizia a urlare, e mentre urla i suoi occhi si riempiono di lacrime e il suo corpo brucia.

Le parole diventano piccole, superflue.

"Vorresti essere... come me?"
"... no. Vorrei essere con te, ma..."


John Ajvide Lindqvist

lunedì 20 aprile 2009

C come Amore

La conferenza del professor Brian Goodwin mi ha confermato quello che ho sempre intuito e cioè che l’evoluzione, anche nei rapporti amorosi, si basa sulla migliore adattabilità al caos di ognuno di noi, del pianeta, del cosmo.
Chi adatta la propria capacità sentimentale ai propri e altrui (e ambientali) mutamenti, avendo cura di considerare il linguaggio flessibile, mutevole (ha usato anche l’aggettivo ambiguo in senso positivo, creativo) evolve e cresce nel rispetto del ritmo naturale e caotico del cosmo.

Pauette

giovedì 16 aprile 2009

Fast Food Nation


Pronti, partenza: via! Ci ritroviamo ai tempi dei nuovi astronauti, a mangiare pillole al sapore di... solo che qui non ci sono pasticche ma aromi in contagocce. Fino a quando un nuovo astronauta non si accorge: "Merda! ma è il presente."
Inizia in modo accattivante, puntando il dito verso l'industria del fast food, l'elaborazione della carne e il massimo profitto. Poi si perde un po' in storie di immigrazione clandestina, droga e vita buttata con conscienza e non inconsapevole, fuga da una realtà piccola, troppo piccola per se e per l'ombra dei parenti ammirati. Un film fatto di storie, mi verrebbe da dire corale, ma non credo sia il termine migliore in questo caso; troncato in due, spezzato in tempi diversi e distanti di appena due mesi. L'intento era (forse) quello di affrontare temi già trattati da altri film documentari come "Super Size Me" o "The Corporation", cercando di portare alla visione chi non si fida dei sopra citati. Una, magari, realtà trasportata in una, magari, storia di fantasia, dove l'indignazione e la trama si tritano e si macellano e si mescolano tra di loro, confezionando un panino che proprio come quelli che si vedono manca dell'ingrediente principale: il gusto. Ovvero la sincerità, lo slancio di voglia che porta a dire qualcosa. Alla fine hai in bocca un gusto un po' plastificato, di cellophane ancora incartato attorno a. Ma se all'inizio avevo fame, dopo cinque minuti: no. Poi però si stende e perde di vista l'incipit e te dimentichi di avere sia fame che di non averne. Concludi con una pistola puntata, no; appoggiata, no; premuta sul cranio, e la pelle scorticata, la carne tagliata. Tutto quanto in perfette norme di qualità, igene e sicurezza, con macchinari all'avanguardia e non con maceti arrigginiti; ma ugualmente da brividi.

Tutti gli animali presenti nella pellicola. Sono stati macellati.

Giudizio: Tv
  • Cinema ==> Da vedere assolutamente, correre al cinema
  • Dvd ==> Da vedere, ma si può aspettare il noleggio
  • Tv ==> Niente di esaltante, se proprio si deve vedere aspettare il passaggio in tv
  • Passeggiata ==> Perdibilissimo. Andate pure a fare una passeggiata.. anche sotto la pioggia

mercoledì 15 aprile 2009

tu regalagli un trucco che con me non portavi:

ho canzoni che mi innamorano le orecchie, libri che mi innamorano gli occhi, terre che mi innamorano il cuore. le persone, di solito, m’innamorano la testa, e a volte gli occhi e le orecchie e la lingua e le mani e il naso, e il cuore alza le braccia alza lo sguardo e s’arrende, allora, bandiera bianca bandiera rossa e come un toro m’inseguo il sangue, dentro. altre volte sono i muscoli delle gambe o le articolazioni delle spalle — la scala delle vertebre lungo la schiena — che amplificano il battito per primi, e ancora il piede non ha svegliato la grancassa.

silenzio, per un istante, ma non ho avuto paura. mi sono addormentata dentro a un corpo vuoto, dentro un corpo spento, ma poi ho riattaccato la corrente e son tornata a vibrare a vociare a vocalizzarmi le consonanti: sono tornata verticale. son tornata, perché non avevo ancora finito. e ho pensato che tutti i baci hanno lo stesso sapore anche se hanno gusti diversi, e che certi ti restano attaccati ai denti come il chewing gum quando ero bambina, e ho pensato che so fare solo i palloncini che non si masticano, io, quelli che si riempiono con l’aria che avanza e che al massimo sanno di plastica. le bolle di sapone e i giri su me stessa, so fare, i cerchi col bicchiere e le facce che ridono sul vetro appannato. mi terrò intera, seppure disassataha detto, disossata —, e forse cercherò un po’ di magia che mi sostenga quando lo scheletro si farà liquido. ho imparato la casa a occhi chiusi e ho cercato di scrivere con la sinistra, intanto, ma se la voce mi si rompesse non saprei parlare a gesti. e ci sono state notti in cui ti ho ritrovato nell’attesa tra i miei piedi freddi e la consolazione della coperta, sempre in ritardo sul mio dolore, sempre in anticipo sul tuo stupore. e ci sono pomeriggi in cui ti penso di meno, serate in cui ti abbasso il volume, ci sono parole che mi sembra parlino di me e invece ci sei tu rannicchiato dentro, e allora mi dico che te lo devo, che ogni tanto ti ho disertato, sì, desertato mai, e che anche se la vita ci ha messo il becco e mi ha messo in bocca queste parole che non vuoi sentire, non posso non voltarmi a salutarti con la mano, a dirti grazie, a rispondere prego e a pregarti — fingendo quel sorriso che da sempre ti innamora il cuore — che quella minaccia diventi una promessa, presto o tardi.

continuerai a farti scegliere
o finalmente sceglierai.


martedì 14 aprile 2009

Quando mi dicevi

Guarda il sole: si confonde all'orizzonte, tra la pioggia, in uno scorcio di panorama fantastico, da brividi a fior di pelle. Che spettacolo, in questa prima mattina di aprile, quando ancora tutti sono a letto e io ho messo la sveglia solo per alzarmi in questo preciso istante. Ti vorrei telefonare per dirti di svegliarti, di affacciarti alla finestra, magari ancora scalza, non importa. Voglio condividere con te questo piccolo spicchio di cielo che si illumina di un arancione bagnato, di un calore appena accennato che non brucia, ma riscalda a sufficienza. Bene o male è questo che vedo quando guardo te: un'alba umida e bellissima, dai colori tenui ma gradevoli, capace di riposare l'anima. Anche quando non ti vedo, non ti sento, non ho niente di materiale a cui aggrapparmi, a cui sorreggermi, c'è questa aura che viene a cullarmi, a sciogliermi le dita e liberarmi le mani dalle funi, per farmi scrivere e sentire in questo modo meno compresso. Io so cosa significa questa tregua di spari, e grida, e sangue, e tutto quanto si azzittisce di colpo quando piombi in questo stato virtuale che è la mia mente. Sai sciogliere tutti i nodi che mi si formano dentro, che mi si aggrovigliano ad ogni respiro, ad ogni battito. Sai che sei la medicina più buona che abbia mai assaggiato, che abbia mai provato per curare questa mia malattia un po' particolare e per niente speciale? E sentirti scivolare lungo l'esofago, sia in sciroppo che in pillole, mi regala quel senso di guarigione, lenta e di sostanza, che penso solo le persone non del tutto sane possano apprezzare. Mi rendi meno blu, meno contorto, anche se poi può sembrare l'esatto contrario, ed invece questa è la cosa più lineare e logica che abbia scritto da un sacco di tempo. Piace a me che la scrivo, questo è già tanto, perché soddisfare se stessi è già uno sforzo non da poco. Tanto nessuno capirà quel che voglio dire, quel che voglio far capire, o quello che in qualche modo tento di mettere per iscritto per renderlo più reale. Come quando guardi un film e dentro questo film ci vedi una persona, che non è affatto un personaggio ma trascende dalla pellicola e si siede quasi accanto a te a guardare la televisione. Scrivi quello che ti passa per la testa, perché sei in preda a questo delirio di sensazioni e palpiti, e nell'incoscienza del momento ti illudi di riuscire a trasmettere lo stesso bacio che stai provando, che stai assaporando nella testa e che ti sta bagnando la bocca, le labbra, gli occhi chiusi e la testa inclinata per incastrare le linee dei nasi. E poi l'annodarsi delle dita attorno ai capelli, per scostarli dalla faccia e farsi più spazio possibile, l'avvicinarsi prima con sospetto e poi sempre più forte, lo schiacciarsi l'uno contro il petto dell'altra, e sentire le costole che premono con insistenza a cercare di toccarsi, di fondersi. Non capisci che è tutta una breve ma inutile perdita di tempo, perché ciò che hai dentro e stai provando in quel momento, quel momento speciale, non riuscirai mai a metterlo su carta, e nessuno potrebbe riuscirci davvero, sul serio, completamente. Ti prende questo magone enorme, attaccato dentro, che cerca di farsi spazio tra i polmoni, e spinge spinge perché vuole uscire il più in fretta possibile, urlare quello che ha da urlare, o sussurrare quello che ha da sussurrare. Vorrei che tu capissi questo: che in questo momento, davanti a questo sole che sorge in lontananza vorrei sussurrarti cose che con difficoltà riesco a mettere in parole, a racchiuderle dentro frasi, da quanto sono tante e dirompenti. Perdere la capacità di parlare, ecco cosa, perdere l'uso della parola per poi poter finalmente inventare un nuovo modo di comunicare, un modo tutto nostro e segreto, e bellissimo. Per poterci guardare negli occhi e basta, far fluire attraverso lo spazio che ci separa, e che di secondo in secondo diminuisce, tutto quanto ci dobbiamo/vogliamo dire e tutto quanto ancora non ci siamo detti e non ci siamo voluti dire. Niente potrebbe essere come questo linguaggio non verbale, così ricco e complicato, niente ci sarebbe di più appagante che riuscire a far straripare ogni cosa fuori dal corpo e fartelo capire. Al limite potrei squartarmi, aprirmi la cassa toracica o la scatola cranica, e far sgorgare i miei pensieri come dei geyser violenti e caldi. Mondo tuo, potrebbe essere ciò che sgorgherebbe dalle mie vene, e dalle ferite, dal sangue zampillante, e dal mio volerti bene.

lunedì 13 aprile 2009

Camicie non stirate mentre fumavo libri strappati

Ho ancora in bocca il sapore del cappuccino con cui ho fatto colazione. Non mi sono lavato i denti e il caffè è così forte da rimanermi appiccicato alla lingua, sulla punta che sbatte contro i denti, forse ancora per qualche ora. Molto probabilmente andrà via solo dopo pranzo, quando verrà superato da un altro sapore più forte, dipende da quello che mangerò.
Avrei voluto andare a correre. E' una bella giornata, con il sole, il cielo terso e non fa freddo come i giorni scorsi. Quando mi sono alzato in casa il riscaldamento era già acceso a livello basso da qualche ora: i prodigi della tecnica e del termostato programmabile come un videoregistratore. Sono potuto andare in bagno in mutande e maglietta, scalzo, a piedi nudi. Ho pisciato da seduto, ancora troppo dormiente per rischiare di pisciarmi su un piede, o farla nel bidet. Quando sono tornato in camera per cambiarmi ho aperto i cassetti e non ho trovato i calzini. Non ho trovato i pantaloncini corti, nè la maglietta. Qualsiasi cassetto aprivo trovavo fogli scritti, giornali ritagliati, pagine di libri, carta battuta a macchina.
Sono tornato in bagno e ho cercato nel mobiletto appeso appena a destra dello specchio. C'erano pagine strappate da Il giovane Holden, da Sulla strada, da Il pasto nudo, alcune cose di Asimov. Tutto amucchiato in modo instabile, tanto che appena ho aperto il mobiletto tutti i fogli mi sono caduti addosso, come una cascata.
Li ho raccolti e ho cercato di metterli un po' in ordine, di raggrupparli prima per opera, poi per autore, e poi per parole maggiormente usate, per le frasi che mi sembravano inizzassero in una pagina e poi finissero in un'altra, magari di qualcun'altro, passando anche da Salinger alla scrittura zigzagata di Burroughs.
Ho dovuto rimettermi le stesse cose che avevo ieri sera: un paio di jeans che ormai sono diventati la mia seconda pelle e anche se mi abbronzassi, o sbronzassi, e cominciassi a spellarmi dopo due settimane, non mi andrebbero via, non si staccherebbero da me, lasciandomi per sempre blu; e una camicia, anche se io non sono il tipo da camicia, e non me le metto quasi mai proprio per questo, perchè poi si stropicciano sempre in fondo, quando le porto fuori dai pantaloni, e non ho la cosatanza di abbottonarmi le maniche, neppure d'inverno, così che quando mi muovo e arraffo l'aria con le mani, le maniche mi si alzano, e non è per il freddo che mi lamento ma per i miei avambracci: la gente vede i miei avambracci magri, completamente fuori posto e senza senso, ed è una cosa che non sopporto, che non vorrei. Di tutto me, di ogni cosa, proprio gli avambracci, o le braccia in generale, queste cose che sembrano pertiche montate per sbaglio, attaccate alle spalle, alla schiena ricurva dalla parte sbagliata.
Chissà, mi domando mentre comincio a dare fuoco alle pagine che mi sono cadute in bagno, per poterne respirare, per fumarmi queste storie; chissà se fra qualche tempo la gente che mi guarda gli avambracci vedrà un indiano, in piedi su una collina. Chissà.

venerdì 10 aprile 2009

Nutshell



We chase misprinted lies
We face the path of time
And yet I fight
And yet I fight
This battle all alone
No one to cry to
No place to call home

Oooh...Oooh...
Oooh...Oooh...

My gift of self is raped
My privacy is raked
And yet I find
And yet I find
Repeating in my head
If I can't be my own
I'd feel better dead

Oooh...Oooh...
Oooh...Oooh...

Performed by Alice In Chains

giovedì 9 aprile 2009

Anacleto

Questa mattina mi sono svegliato in modo ovattato, senza tatto, o polpastrelli urlanti sulle impronte digitali bruciate. Il sole mi ha guardato o non mi ha guardato, non lo so perché sto scrivendo in leggera differita, mentre dalla finestra filtrava un sapore chiaro di aria, lingue celesti di una primavera stiracchiata con le unghie rotte. Mi sono vestito di un pigiama che prima non avevo, mi sono servito la colazione, mi sono lavato i denti, e ho lasciato sfatto il letto. Sono uscito di casa senza il mal di testa assillante, quello che ieri mi ha colpito alla base del naso con due spilloni grossi come spade e che con le sue punte cercava in tutti i modi di raggiungere il retro dei miei occhi; sono uscito di casa senza sbattere la porta, lasciandomi alle spalle la serratura slabbrata, rotta dalle troppe forzature spiate col citofono ad infrarossi. Ho avuto la sensazione di uscire da una lavatrice, ancora in centrifuga, e con la quasi certezza che il mio mal di testa, Anacleto, sarebbe riapparso come per magia, a tenermi compagnia, nel primo pomeriggio, quando dopo un breve intervallo avrò rimesso gli occhiali, e il mondo avrà ripreso ad essere più grande, meno sfocato: più leggibile. Già ora ho voglia di stendermi, di far trascorrere il tempo come argento fuso, non aprire neppure un libro: una sensazione di svogliato riposo, il dolce far niente che mi tiene spalle al muro, con un fucile puntato ed un conto alla rovescia che è fermo a meno tre. Dicono sia il tempo, il passare delle stagioni, l'alternarsi senza sosta e senza ordine di bello e brutto, pioggia e giornate soleggiate. Dicono sia il corpo che si sta abituando alla nuova temperatura, ricalibra l'ebollizione del sangue ed evita la lava nelle vene che poi rovinerebbe le conduzioni di ossigeno e brucerebbe i confini, i capillari, gli arti, e le vertebre una ad una; ma io non ci credo, penso piuttosto siano i giorni grigi e i giorni colorati, imbrattati di un rosso, un viola, un giallo, un nero, un verde, un lilla, un ocra, un blu, un rosa, un celeste, un fuxia, un arancione, ed io che scopro di punto in bianco di essere intollerante ad una di queste sfumature, o al lattosio. Penso piuttosto sia il calzino piegato male che mi pungola il piede, o la nausa mattutina che si prolunga fino alla sera, e solo di notte mi fa vomitare. Penso piuttosto: è l'elastico con cui mi diverto a creare nuove forme annodandomi le mani, passandolo tra dito e dito. Penso piuttosto sia il silenzio. Piuttosto il silenzio. Sia il silenzio. Il silenzio.

mercoledì 8 aprile 2009

Così finisce

X ha lasciato Y, e le lacrime a quanto pare sono tutte di lei. Chiusa in bagno, con i gomiti appuntiti appoggiati alle ginocchia, le mani a pettinarsi i capelli ricci, castani scuri come gli occhi. Dopo un secolo, dai tempi dei templari, ho sentito di nuovo la parola 'bugia', nascondere la verità sotto falso nome, sotto un nome maschile. E non sono bastate le scritte sull'asfalto, le canzoni di tutti spacciate per proprie, le lunghe trasferte per dimenticare i giorni precedenti; sono stati gli amici, i cosidetti, quando invece erano caos, e fulmini, a far crollare un castello di carte costruito senza fondamenta. E' per questo che conviene crescere, abbandonare i giochi adolescenziali per passare ad altro. Non hanno senso le sedute di riconoscimento, schiacciati alle pareti, con le aste strette nei pugni. Le reazioni esagerate ne sono la naturale conseguenza, sono lo sfogo di una forza repressa, rinchiusa in una scatola piccolissima quando invece dovrebbe essere grande come un continente. Non puoi pretendere di tenere imprigionato un serpente di otto metri in un vecchio carion.
Così Y continua a piangere, anche se le lacrime presto se ne andranno, e non ci sarà più il mascara a rigarle le guance; ma nuovo rossetto a macchiarle la bocca, per trasportarla da qualche altra parte, come l'ape con il miele, i fiori, l'aria di questa primavera che tarda ad arrivare. Presto se ne andranno anche le ferite sulle ginocchia, quelle inflitte con i gomiti, con le lamette; perché si sa, al suo tempo, l'orologio di Y, le lacrime si dimenticano facilmente, non producono ferite abbastanza profonde, anche se magari per la prima volta ci hanno fatto sanguinare.
X invece fa finta di nulla. Il mondo non è cambiato, altre cose lo sono. Per lui è un tuffo che non affanna, che lascia asciutti. Non fosse per questo torcicollo che affonda le sue radici nelle spalle, e le spinge giù giù, sempre più giù, cercando di toccare terra, per chissà quale assurda ragione, o motivo, saremo andati a cena insieme, ne avremmo parlato, tastando luoghi e paesaggi oscuri anche a lui. Forse non si rende semplicemente conto, magari non è stato sincero, mentre ora si. Chissà.
Per Y c'è solo questo: ora si, sfogati con la rabbia, le unghie conficcate nella pelle di palmi troppo spesso aperti; ma vedrai che passerà come le stagioni. Saranno altri i muri del pianto, quando il tempo, quello vero e non solo il tuo, avrà cancellato gli affreschi che pensavi eterni. Di eterno, qui, ci sono solo i vampiri.

martedì 7 aprile 2009

Allergie

Fare i test allergici il sabato pomeriggio, quando tutti giocano, quando fuori piove, e l'acqua è grande e grossa e fitta e gelida. Grattarsi via il braccio, volerlo staccare, prenderlo a morsi, rodere e sgranocchiare; finire le unghie, non mangiarsele ma inglobarsele, su piramidi di pelle, e bozzi che paian montagne, colline, rilievi montuosi, su nessuna pianura. Risultare intollerante alla frutta, alla banana, alla mela, alla pera, cazzo incredibile: pure al kiwi; alla papaya, all'avocado, alle grandi onde, ai lavori interni, alle vite buttate, ai paracaduti. Essere insofferente alle fragole, alle ciliege, al trovarle anche a gennaio, ma bum, ad un prezzo esagerato, esplosivo, in posti che non conosco, in cui non sono mai stato, a portarle da una sala all'altra. Rischiare uno shock anafilattico per la verdura, e la carne, e i muscoli, e i tendini di pietra, i tendini duri come il cemento a presa rapida, i talloni sporgenti e penetranti e infiammanti. Farsi bucare la gola, incidere la trachea e parlare metallico, con un filo di voce: farsi riconoscere per le risate e le parole, le frasi a ventisette euro, e i diritti d'autore sulle scuse andate, ormai; e non è facile, dovresti credermi, sentirti qui con me, perché tu non ci sei. Mi piacerebbe sai: poterti stringere, abbracciarti, una sera, una notte, e l'alba che ci sveglierebbe dal nostro torpore; accarezzarti la guancia, con il pollice sfiorarti sotto gli occhi, e con le altre dita pettinarti i capelli sulla nuca. Invece di maledire le compagnie telefoniche, gli intrecci dei segnali, la disposizione e la reperibilità dei cellulari, i tralicci dell'alta tensione: vittime degli attentati, delle manifestazioni, degli anarchici di fine anni ottanta ed inizio anni novanta, a piazzare dinamite ed esplosivo, polvere da sparo, ai loro piedi per far saltare per aria tutta la struttura, far cadere l'elettricità di tutta la città. Vendere pannelli fotovoltaici per catturare il sole, per imprigionarlo, per sfruttarlo; attaccarli ovunque, sui tetti, sulle autostrade, sulle braccia, sui campanili, sui grattacieli che crollano sotto colpi di aereo.
Essere allercigi alla paura, a questo testo che parte in una direzione e sterza profondamente verso un'altra. Allo sbandare del mio scrivere, che la colpa non è dell'asfalto bagnato o ghiacciato, ma del troppo e del troppo poco, della voglia, delle restrizioni auto indotte, e i segnali di pericolo posti ai lati dei crepacci, dei burroni e sui marciapiedi con gli alberi; alle canzoni brutte e alle canzoni inutili; alle serenate che non riesco a fare sotto finestre che non conosco, che non so dove siano; alle cene da commedia, da testo di teatro, al ripassare il proprio copione e saperlo recitare bene al momento giusto. All'alzarsi e all'andare via, non appena si aprano le danze. (Allo stringersi, all'abbracciarsi, al risvegliare i nostri arti dal sonno delle notti e delle albe, passate così; all'accarezzarsi le guance in modo reciproco, in modo asincrono, allo sfiorare la pelle sotto gli occhi, e a pettinare i capelli sulla nuca.) Alla fantasia, alle ipotesi possibili e a quelle impossibili. All'aria. Agli universi paralleli, e a quelli convergenti. Allo schiudersi delle labbra. (Ci pietrificheremmo come alla vista della Medusa, per caso, se mai lo facessimo?)

lunedì 6 aprile 2009

diario/1

caro c.

lo so, è un periodaccio, sei l’esatto epicentro circostanziale di un sisma affettivo e oltre, geografico, e oltre ancora, personale. Sei una persona sensibile e perciò soffri e soffri di più e a volte non sai più se stai soffrendo o se stai solo cercando di respirare. Non sei solo. Anche se non capisci in che direzione stai andando perchè tutto sembra ovattato e talvolta vorticoso e talvolta insormontabile, io sto camminando verso lo stesso identico punto verso il quale ti stai dirigendo. Quel punto luminoso che talvolta sembra flebile e a volte lampeggia e scompare. Quel puntino che un decennio fa era un sole sotto il quale camminavamo senza protezione. Quel punto luminoso che ci fa alzare la mattina, che ci fa essere qui comunque, vivi. Un abbraccio.

William Dollace

giovedì 2 aprile 2009

Biglietti Agli Amici

Why can’t you be just more like me,
Or me like you.
And why can’t one and one
Just add up to two.
But
We can’t live together
But, we can’t stay apart.

Vedere il lato bello, accontentarsi del momento migliore, fidarsi di quest’abbraccio e non chiedere altro perché la sua vita è solo sua e per quanto tu voglia, per quanto ti faccia impazzire non gliela cambierai in tuo favore. Fidarsi del suo abbraccio, della sua pelle contro la tua, questo ti deve essere sufficiente, lo vedrai andare via tante altre volte e poi una volta sarà l’ultima, ma tu dici stasera, adesso, non è già l’ultima volta? Vedere il lato bello, accontentarsi del momento migliore, fidarsi di quando ti cerca in mezzo alla folla, fidarsi del suo addio, avere più fiducia nel tuo amore che non gli cambierà la vita, ma che non dannerà la tua perché se tu lo ami, e se soffri e se vai fuori di testa questi sono problemi solo tuoi; fidarsi dei suoi baci, della sua pelle quando sta con la tua pelle, l’amore è niente di più, sei tu che confondi l’amore con la vita.

In quel dicembre a Berlino, nella tua casa di Kopenickerstrasse io volevo tutto. ma era tutto, o solo qualcosa, o forse niente?
Io volevo tutto e mi sono sempre dovuto accontentare di qualcosa.

Io volevo baci larghi come oceani in cui perdermi e affogare, volevo baci grandi e baci lenti come un respiro cosmico, volevo bagni di baci in cui rilassarmi e finalmente imparare i suoi movimenti d’amore.

Le volte che mi sei mancato… oh, non per la lontananza, ma proprio per la diversità del sentire, le volte che mi sei mancato sono esattamente questi minuti di attesa e di angoscia e di terribile lucidità aspettando un treno a Santa Maria Novella alle due e trentacinque del mattino. Ma le volte che mi sei mancato, oh, non per la lontananza, ma per questa diversità dello sguardo sono i miei occhi che tesi non vedono quasi più.

Pier Vittorio Tondelli

mercoledì 1 aprile 2009

Marzo 2009


"Io ti verrò a cercare. Lo sai che lo farò. Ma la domanda è: Tu faresti lo stesso con me? È questo che devi capire. Perché un giorno la smetterò di inseguirti."

Ethan Hawke