giovedì 29 aprile 2010

Come quando fuori piove e non ci son più strade

fare ginnastica alle quattro del mattino: qualcuno lo chiama yoga, qualcuno invece insonnia. seduti per terra, con la schiena appoggiata alla parete di una camera in disordine, stendiamo le gambe in avanti e mi sento un po' fuori luogo, impacciato. mi dici di non preoccuparmi, mentre affondi verso il basso spingendo le mani ad afferrare la pianta del piede.
hai dei pantaloncini verde acceso che ti si sono arricciati tutti su intorno alla vita, come se tu fossi una podista, e una canottiera bianca che ti scopre quasi i seni. ti invidio la spensieratezza con cui ti vesti, così come quella, magari di natura diversa ma in fondo della stessa specie, che ti fa sorridere e scarrupare i capelli, come dici tu, mentre mi guardi in faccia e mi sorridi, mi saluti, mi spalanchi con noncuranza, quasi fosse niente e tutti quanti qui su questo pianeta terra ne fossero capaci, tutti quei tuoi occhi grandi, dietro quegli occhiali larghi, sotto quelle sopracciglia arcuate con precisione.
mi dici che ti piace, startene qui, in questa stanza, dici, di mattina quando però è ancora notte, con la porta chiusa, in solitaria. dalla finestra si può vedere entrare un po' di sole quando quest'ultimo si decide a sorgere dietro le colline. La chiaman alba questa cosa qua, mentre tu continui a guardarti intorno e a spiegarmi ciò che ti piace di questo tuo segreto rituale.
poi c'è lo specchio, dici, che riflette alcune cose che altrimenti passerebbero inosservate. tipo: il foglio arancione appeso vicino alla finestra; i calzini appesi come morti in bilico sui cassetti appena aperti; la stella disegnata sul muro vivo, senza troppo pensare al fatto che per cancellarla sarebbe necessaria una mano di vernice; la palla d'aria compressa sulla quale ogni tanto ti sdrai sopra, con la schiena arcuata, per far scrocchiare le vertebre una ad una e liberare spazio; e il tuo peluche gigante che rappresenta un ghepardo o un leopardo, non ho mai capito la differenza: ogni volta che lo vedo, che entro dentro questa camera, mi ringhia contro, mentre quando tu lo abbracci stringendotelo al petto comincia sempre a far le fusa.
mi torna in mente, non so perché, quella mattina di una domenica qualsiasi, con la luce affascinante che entrava dalla finestra aperta. il letto ancora fatto, con il piumone zebrato appiattito sul materasso; la lavagnetta appoggiata sul comodino con su scritti tutti i nostri scarabocchi di pensieri e riflessioni varie; il tuo cappello, quello con le orecchie, appoggiato su una mensola; il poster anatomico che ci indicava i nostri punti umani attaccato alla parete; l'abat-jour a forma di tour eiffel. e tu, seduta sul letto, con i piedi appoggiati al muro: i capelli rossi, la maglia fine bianca a farti anche da gonna, e le calze con i disegni ricamati fucsia che sembravano segnare il sistema cardiocircolatorio di un alieno sulle tue gambe.
sai, ti dico interrompendoti per un attimo, mi sa che in fondo in fondo noi due lo siamo per davvero, due extraterresti strani.

mercoledì 28 aprile 2010

The Hurt Locker


The Hurt Locker è una escalation che esplode nella zona rossa e si estende poi da situazioni pericolose in situazioni ancor più pericolose, moltiplicandosi ogni volta per la propria storia, quella che ognuno porta dentro di se o che tiene nascosta sotto il letto o la branda. Ogni cosa che ha avuto la possibilità di ucciderti racchiude una forza che ne fa scalpo da collezione, qualcosa che vale la pena di conservare, come se ogni singolo oggetto potesse racchiudere dentro se stesso una parte di te, quella che poi non ha ammazzato.
The Hurt Locker è una droga che pompa a fiumi pieni dentro le vene, in adrenalina che ti fa vedere collegamenti inesistenti, proprio quando ti rendi conto di quanto sia strano che tutte le corde siano in un modo o nell'altro legate tra di loro, ad un centro stella, formando una cerchio dentro il quale esplodere è mortale; ma poi sono le tue mani a formare i nodi, ad intrecciare tutto quanto per dare un senso, anche quando si sbaglia, a maggior ragione quando si sbaglia: per avere almeno la sensazione di aver sbagliato per qualcosa, di essersi ferito per un ideale, per un motivo, e non finire sotto una doccia d'acqua fredda, per lavarsi via il sangue di dosso, e tutti i sensi di colpa, inutilmente. Perché la guerra vista da punti diversi è un oggetto che non risponde neppure alle proprie stesse dimensioni: la guardi dal campo, dal deserto, con il fucile appoggiato alla guancia, e nel mirino del fucile la vedi circondarti armata, sempre pronta a farti fuori, a tagliarti oltre i bordi di tutto quanto; la guardi poi invece da una tenda, difesa da recinzioni e filo spinato, e ti pare assai più mansueta, così facile da parlarne.
Il dolore. Il dolore è ciò che c'è di più forte, invincibile. Più di un'esplosione improvvisa, causata a sciocco, in detonazione di stupidità che non è altro se non mancanza di esperienza sul campo. E' il dolore (fisico) che ammazza il dolore (morale) e ti permette di inveire, di maledire, chi fino a poco prima ti sembrava l'unica strada percorribile; per poi volare via, distrutto ma lontano dall'inferno.
E c'è chi piange perchè ha paura di morire. C'è che vede passarsi davanti agli occhi tutta la propria vita. C'è chi invece non ci pensa, chi non vede davanti a se la sua vita, perchè la sua vita in fondo è quella, non è altro, se non le macerie che sono rimaste quando un'esplosione forte di emozione ha raso al suolo tutto quanto.
Perchè il modo migliore di disinnescare una bomba è quella in cui non si muore.
Ovvero: quello che provoca meno danni.

martedì 27 aprile 2010

L'uomo che fissa le capre


A cavallo tra la fine degli anni settanta e l'inizio degli anni ottanta George Lucas cominciò la costruzione di un impero. Con qualche perplessità si scoprì poi che il primo capitolo era in realtà il quarto, il secondo il quinto, e il terzo il sesto. Prima di essi, disse lui stesso, c'era spazio per narrare un'altra storia, formata appunto dal primo, dal secondo e dal terzo capitolo.
In Guerre Stellari, e in tutta la prima trilogia, o trilogia classica che dir si voglia, i cavalieri Jedi sono solo un ricordo vago di una libertà che fu, offuscata dalla tirannia dell'oscuro e malvagio Imperatore. Solo il vecchio Obi-Wan Kenobi, che tra l'altro dura ben poco, e il saggio Yoda rimangono come unici superstiti Jedi.
Nella nuova trilogia, quella iniziale, uscita questa volta tra gli anni novanta e l'inizio del nuovo millennio, i cavalieri Jedì sono molti di più, c'è addirittura un'accademia dove giovani di tutte le specie vengono portati per essere addestrati. Mai pero, sia nella vecchia trilogia che in quella nuova, vengono mostrati i metodi di formazione. Questo L'uomo che fissa le capre è proprio quel tassello che mancava alla saga stellare di George Lucas: come diventare un cavaliere Jedi.
Divertente, spassoso, pure un po' preoccupante, se si prende sul serio l'avviso iniziale che avverte di quanto la storia narrata sia più vera di quanto non si possa credere. Continue citazioni, e non solo rivolte a Star Wars, un cast comprendente George Clooney, Ewan McGregor (Obi-Wan nella nuova trilogia), Kevin Specey, Jeff Bridges, che paiono divertirsi un mondo. Difficile credere non sia così, visto la storia sgangherata che si ritrovano per le mani, talmente bizzarra da permettere loro di spaziare a destra, a sinistra, in su, in giù, ad ovest, ad est, a nord, e a sud della loro fantasia per dipingere i loro personaggi un po' fuori dal mondo.
Il mattatore di tutto questo, più di Ewan McGregor, risulta essere un George Clooney fantastico, che passa tutto il tempo della pellicola ad illustrare ad Obi-Wan l'educazione sentimentale che lo aspetterà nella sestologia stellare di Lucas.
Darth Vader faceva pratica con le capre.

lunedì 26 aprile 2010

Sappiano le mie parole di sangue

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la città si disgrega come se lo skyline fosse acquerellato sulla carta crespa.

come un fiotto bollente che dall’addome sfocia nella retina

Inquadro l’ago; rifulge, se lo avvicino alla fiamma: tredici millimetri di acciaio cavo, n filo rigido e sterile che mi penetra, mandando in circolo un liquido trasparente. Di tutto il lavorio dei miei organi, di tutte le scosse neuronali e dello sciaguatta mento, dello sfarfallio e delle pulsazioni che non cessano si ode, all’esterno, solo un brusio.

Non scrivere: ecco cosa vorrei. I verbi non hanno più tempo,i verbi non hanno più i tempi. “Aspettare”, ad esempio, si è svuotato e seccato, e poi – cavo come una ciotola – si è riempito di pioggia. Io aspetto, lo so, io aspetto la fine dei negozianti da, io aspetto la risoluzione del Comitato di Sicurezza che, io aspetto domenica quando. Raccontarlo, però, è impossibile.

La pioggia su Nis virava in nevischio, il nevischio che non sarebbe cessato.

“Ah, la guerra. È per questo, che sei qui? Per la tua guerra?” mi domanda.
“Può darsi. Non lo so. Odiami perché non lo so. Fai qualcosa di autentico, una volta tanto: odiami. Ma vattene, odiandomi.”
“Odiare è il tuo verbo. Non ho mai accoppato nessuno, io.”
“Hai ammazzato la poesia e l’epica. È il delitto peggiore che potevi commettere. E lo hai commesso per caso, come accade ai cretini.”
“Non sono venuta qui per fare della poesia né dell’epica. Sono venuta qui per capire e osservare. Ci sono vittime e ci sono colpevoli.”
“No. Ci sono vincitori e sconfitti, e un banchetto in cui carnefici e martiri si scambiano troppo spesso di posto. Vattene” le ordino.
“Bugiarda. Mentivi, a Sarajevo, per difendere i tuoi cetnici. Perché seguiti a mentire, ora che sei dalla parte dei giusti?”
“Dei giustiziati, vuoi dire?”

Mi chiama bugiarda. Preferisce il palliativo: una let(terat)ura lenitiva, un pensiero volonteroso che proceda da A a B, che le dia l’illusione di un senso; se non ha una logica, la cosa non la riguarda. Tutto quello che non le quadra è menzogna; soprattutto, non vuole sporcarsi le mani. Aiutandosi con le unghie smaltate alla parigina, organizza la corrispondenza: separando bollette morose dai dépliant.

Comparativi e superlativi mi hanno rotto i coglioni: l’aggettivo da cui comincio ogni volta che aggiungo una pagina a questo reportage è morto, e non si può essere più morti né essere mortissimi.

“Combattere questa guerra mille volte e poi mille sui sassi appuntiti vorrebbe dire perdere questa guerra mille volte e poi mille.”

Prima di far violenza agli uomini, la si fa al linguaggio.

Che uomo può essere: non si gira a guardarci. Ci avrà già squadrate, calzature culo tette e acconciatura. “Non armate, la più alta ha lo stemma TMK sulla manica del giubbotto troppo largo per lei, entrambe scopabili” avrà pensato. Che uomo può essere? Uno che vorrebbe essere onesto se non fosse che l’onestà è spossante. Che vorrebbe dire quel che pensa se non fosse che la schiettezza è rischiosa. Che vorrebbe liberarsi: ma per farsene cosa, poi, di una libertà tutta intera? Uno che vorrebbe disobbedire: ma è tardi, fa freddo, non è opportuno. Che vorrebbe sperare ma ha dimenticato come. Forse un uomo che vorrebbe correre, scappare: ma il mondo è di marmo, e fra statue ci si intende a meraviglia. Forse vorrebbe pagine più impegnative da leggere, se legge. Sigarette più forti da fumare, se fuma. Bicchieri più pieni o più vuoti: ma c’è da contentarsi, compiacersi, distrarsi, attenersi alle regole. In passato, può darsi, avrà desiderato una donna diversa. Una casa diversa- una storia diversa: ma una storia si è scritta, una donna si è imposta, una casa si è cementata; il tinello era il mondo; la biblioteca di Alessandria in cambio di una lavastoviglie, e poi basta. Chissà come è finito a riordinare flaconi a Mitrovica, Balcani.

Ha l’incarnato smorto dei tisici che succhiano aria anziché inspirare.

La grande Jugoslavia contava venticinque milioni di abitanti, tacchino più tacchino meno. Venticinque milioni di verità singolari e distinte

Babsi Jones

venerdì 23 aprile 2010

Le Rane

Mentre scoprivamo il sesso
ignari di ciò che sarebbe poi successo
dopo la maturità
eccoci che attraversiamo i girasoli
bucanieri nati
andiamo via dalla realtà
dalle case popolari

che fine hai fatto
ti sei sistemato
che prezzo hai pagato
che effetto ti fa
vivi ancora in provincia
ci pensi ogni tanto alle rane?
l'ultima volta ti ho visto cambiato
bevevi un amaro al bancone del bar
perchè il tempo ci sfugge
ma il segno del tempo rimane

nelle notti estive e nere
solo lucciole a guidarci nell'oscurità
un'era fa
la crudele pesca delle rane
in uno stagno usato per l'irrigazione
io e te
fratello mio
con gli ami e la torcia

che fine hai fatto
ti sei sistemato
che prezzo hai pagato
che effetto ti fa
vivi ancora in provincia
ci pensi ogni tanto alle rane?
l'ultima volta ti ho visto cambiato
bevevi un amaro al bancone del bar
perchè il tempo ci sfugge
ma il segno del tempo rimane

ma voglio immortalarti e ricordarti così
coi sandali e il coraggio di Yanez
e porterò morendo quella gioia corsara con me

io nel frattempo me ne sono andato
se vuoi ti ho tradito
che effetto mi fa
la piscina di un agriturismo
ha coperto le rane
l'ultima volta che ti ho salutato
poi sono scappato nel cesso del bar
ed ho pianto sul tempo che fugge
e su ciò che rimane

Performed by Baustelle

giovedì 22 aprile 2010

The Informant!


Mark Whitacre è una slavina che parte piano e poi dirompente si trascina dietro mezza montagna, in un tumulto sconnesso di neve e alberi e chi più ne ha più ne metta. L'uomo medio, non criminale, alle prese con un crimine che si ingigantisce nelle sue stesse mani fino a non poterlo più sopportare. Matt Damon è il volto, il corpo un po' fuori forma, del protagonista che gira come una trottola per cercare di tappare più buchi possibili, di mettere toppe, di aggiustare una situazione che lo vede sempre in bilico sul punto di cadere. Una vita che non basta, mai, vede la propria punizione di ingordigia, di non sapere quando frenare al momento giusto, o quando smettere di premere sull'acceleratore: a velocità elevate tutto viene spazzato via, casa soldi rispetto e pure capelli.
E quando si cade si cerca di aggrapparsi con le unghie a tutti gli appigli possibili, facendosi male, spezzandosi le dita e gli arti, strappandosi la giacca, spettinandosi confusamente, con crampi alle gambe e corse forsennate per finire dritto dentro casa, ma anche ferendo le altre persone che in fin dei conti hanno sempre cercato di aiutarti e di proteggerti. Le tue prime impressioni cambiano di continuo, come una pallina buttata sul piatto di una roulette che gira gira e gira, e ti trovi a doverle mutare te stesso coscientemente per cercare di farle aderire il più possibile alle tue esigenze, oscillando sempre di più verso il basso, verso il baratro.
Avvinto e sopraffatto, alla fine rischi pure tu di chiederti se per caso ci sei, o ci fai.

mercoledì 21 aprile 2010

Un Amore all'Improvviso


Quando ci si avvicina ad un film un libro o comunque un progetto che prevede il viaggio nel tempo spesso ci sono da combattere le perplessità che riguardano eventuali incongruenze che rischiano di minare il continuum spazio tempo, eventuali paradossi temporali, come insegnava già negli anni ottanta il buon vecchio dottor Emmett Brown. Domande quali: si può cambiare il passato? Cosa potrebbe succedere se il mio io del futuro incontra il mio io del passato? sono sempre in agguato, pronte a rovinare la visione di un film, la lettura di un libro; o comunque a far si che nascano discussioni tra i vari spettatori/lettori su ciò che sia possibile e passabile in quanto fantascienza, e cosa invece sia troppo pure per questo genere più o meno staccato dalla realtà: la fantomatica percentuale di fanta e scienza nella composizione del genere - agitare bene prima dell'uso.
Di fronte a questo "Un Amore all'Improvviso" però le più grandi perplessità risiedono, o almeno sono talmente grandi che offuscano le altre, non tanto nella trama quanto piuttosto nella volontà da parte dei distributori italiani di voler cambiare il titolo del film, per renderlo probabilmente più appetibile al pubblico romantico. In effetti è vero: rispetto al libro da cui è stato tratto l'aspetto maggiormente evidenziato, se non del tutto trattato, è quello prettamente romantico, la storia d'amore tra Clare ed Henry, che viaggia nel tempo, tagliando sia i risvolti drammatici che si potevano leggere nelle pagine del romanzo che la storia dell'ex fidanzata di Henry che qui viene solo accennata in una battuta; ma questo poco conta, in fin dei conti, visto che "Un Amore all'Improvviso" è l'adattamento cinematografico del romanzo già apparso in italia con il titolo (tradotto perfettamente dall'originale) "La Moglie dell'Uomo che Viaggiava nel Tempo".

Eternal Sunshine of the Spotless Mind non ha insegnato niente.

martedì 20 aprile 2010

Una Telefonata

"Ti rendi conto che non stai parlando di niente?"
"Mi rendo conto di parlare di niente."
"Sono solo delle sciocchezze, una dietro l'altra, senza capo né coda."
"Si: sono delle sbrodate estemporanee di nulla."
"E giù testate contro il muro."
"Come fai a saperlo?"
"Ti si vede in faccia: la fronte porta i segni dei tuoi scontri, dei tuoi momenti di depressione."
"Ho già cercato di aprirmi la testa, ma non ha portato a nulla: sempre le solite sbrodate estemporanee."
"Devi ubriacarti più spesso."
"Devo riflettere più spesso."
"Riflettere lo fanno gli specchi. Tu invece devi ubriacarti. Devi scrivere da sbronzo e revisionare da sobrio."
"Chi sei, Hemingway?"
"Non importa chi sono, importa che ho ragione."
"Se lo dici tu."
"Cambiamo discorso, vai. Forse è meglio. Com'è Rimini?"
"Rimini è una normale distesa di strade d'asfalto e cemento ai lati, se non sei a Rimini."
"Non sei a Rimini? Mi avevi detto..."
"Si sono a Rimini; ma la camera dell'albergo questa volta non dà sul mare."
"Non puoi sempre pretendere di avere una vista stupenda, con il tramonto all'orizzonte."
"No, sia mai. Ho una piccola, minuscola, terrazza che si affaccia su una strada parallela al lungo mare. Molto probabilmente su una delle panchine che ci sono sul marciapiedi ci ho pure dormito qualche anno fa."
"Beh, almeno ora hai un tetto sopra la testa."
"La cosa bella è che quando sono arrivato in camera era ancora giorno. Saranno state le sei e mezza e c'era ancora luce. Entrava dalla porta finestra e la camera era tutta illuminata."
"E' sempre bello riuscire a non usare la luce artificiale."
"E il bagno: era piccolo, ma forse proprio per questo era più luminoso della camera stessa."
"Dove sei andato a mangiare?"
"Dove vado sempre quando vengo a Rimini: una trattoria, pizzeria, ristorante, che è sulla strada sulla quale si affaccia la mia micro terrazza."
"Quella dove fanno tutti quei piatti costosi e elaborati?"
"Si, ma oggi avevo fame, quindi mi sono preso una pizza."
"Buona?"
"La pizza si. Pure la birra artigianale non era male. Solo che c'era il proprietario un po' troppo esuberante per i miei gusti."
"Cosa intendi per esuberante?"
"Passava tra i tavoli a scherzare con i clienti, a volte anche in modo non dico peso ma abbastanza deciso, quasi conoscesse chiunque da anni e anni."
"Anche Ale lo fa, ma non ti ha mai dato fastidio."
"Si, lo so; ma questo era molto più esuberante di Ale."
"Molto più esuberante di Ale?!? E che faceva? Ale prende a calci gli sgabelli!"
"A parte che Ale prende a calci gli sgabelli solo a fine serata, a chiusura; ma di questo qui era proprio l'atteggiamento che non mi andava giù: il tono di voce, la risata sguaiata."
"Ognuno è fatto a modo suo."
"..."
"Cosa c'è?"
"Per quanto dobbiamo andare avanti con questi discorsi?"
"Questi discorsi?"
"Si. Questi discorsi vuoti, pieni solo d'aria."
"Guarda che questi sono discorsi quotidiani."
"Non è vero."
"Cosa credi, che ogni volta che ci sentiamo possiamo ragionare dei massimi sistemi?"
"No, ma neppure di queste stronzate qui."
"Queste stronzate qui?!? E cosa sarebbero queste stronzate qui?"
"Sbrodate estemporanee."

lunedì 19 aprile 2010

Nubi all'orizzonte

Il cielo è colorato di grigio, e per quel che ne so io sembra vada a piovere. All'orizzonte grandi nuvole rigonfie si muovono nervose, pronte a scaricare tutto quanto hanno in pancia, sia acqua, fuoco o cenere. Sono tigri che si muovono a destra e a sinistra dietro le sbarre di uno zoo, che ti guardano apparentemente calme ma ti fissano con occhi decisi, senza mai perdere un tuo movimento, sempre pronte a balzarti addosso. Non importa ci siano le gabbie a proteggerti, se ne frega il loro sguardo di trappole o di ferro a separarvi; il loro sguardo dribbla le sbarre, oppure ci passa attraverso, come fossero fatte solo di fumo, le sbarre, e ti arriva dritto in faccia, il loro sguardo. Hanno gli occhi con denti affilati forse più di quelli che hanno in bocca. Quando ti accorgi di essere in pericolo, quando ti rendi conto che anche solo con il pensiero riuscirebbero ugualmente a sbranarti, saltarti addosso costringendoti a terra, e poi iniziare a ruminare con le zanne affilate prima sopra la tua pancia e poi sempre più sotto, in profondità, mentre scavano con il muso per arrivare alla fine del tuo ventre, quando l'idea di tutto questo ti si avvicina al cervello e ti sussurra del pericolo è già troppo tardi: ormai tremi già, la paura ti ha afferrato la colonna vertebrale e ci gioca a strizzare ogni singolo ramo di nervo ci passi attraverso. Cominci a sudare, le gambe si fanno tutto ad un tratto deboli, ed il mondo, il mondo ti appare in perfetta rotazione attorno al suo asse leggermente inclinato verso il sole.
Questo fanno le nuvole all'orizzonte. Ti osservano impietose, pronte a scaraventarsi su di te, senza alcun preavviso. Le guardi attento cercando di capire se siano solo tutto fumo, se siano esse in realtà innocue con la loro apparente rabbia, o se siano invece pronte a scaraventarti addosso tutto l'odio represso di chissà quale universo. Non lo sai, che già quando te lo domandi, fermandoti un poco a riflettere, a chiederti se questo o quello, abbassi le difese e sei del tutto inerme: loro ti attaccano all'istante.

venerdì 16 aprile 2010

Gli Spietati

Vivere così senza pietà
senza chiedersi perchè
come il falco e la rugiada
e non dubitare mai

non avere alcuna proprietà
rinnegare l’anima
come i sassi e fili d’erba
non avere identità

Gli spietati salgono
sul treno e non ritornano
mai più, non sono come noi
perduti antichi eroi
noi due che al binario ci diciamo addio…

non volere mai la verità
ottenere l’aldilà
navigare senza vento
migliorare con l’età

c’è un amore che non muore mai
più lontano degli dei
a saperverlo spiegare che filosofo sarei

Gli spietati salgono
sul treno e non ritornano
mai più, non sono come noi
falliti antichi eroi,
noi due che al binario salutiamo…

Gli spietati salgono sul treno e non ritornano
mai più, non sono come noi innamorati eroi,
noi due che al binario ci diciamo addio…

noi ci siamo amati
violentati
deturpati
torturati
maltrattati
malmenati
scritti lettere lo sai.

non ci siamo amati
divertiti
pervertiti
dimenati
spaventati
rovianati
licenziati
lo saprai

noi ci siamo persi
ritrovati
poi bucati
c’è un amore che mi lacera la carne
ed ancora tu lo sai

noi ci siamo amati
violentati
deturpati
c’è un amore che mi brucia nelle vene
e che non si spegne mai

noi ci siamo amati
violentati
deturpati
torturati
maltrattati
malmenati
scritti lettere lo sai.

Performed by Baustelle

giovedì 15 aprile 2010

Ci nascondiamo nell'invisibile

arde ancora questo fuoco con zampillanti lingue colorate che si esaltano verso l'alto nell'affanno di trovare spazio dove dimenarsi, o trovare ossigeno da bruciare per alimentarsi, sopravvivere. e quando non lo trova, come si fa piccolo nel suo accucciarsi sul suo letto fatto di pensieri e di riposi, parole da accudire da intagliare da intrecciare per farne maglie da indossare per farne coperte con cui scaldare, le nostre gambe braccia teste petti e ventri. esita in fondo strisciando tra la cenere e la brace fino a quando non ci decidiamo a buttarci sopra litri e litri e litri di benzina senza piombo. ma basterebbe pure poco, giusto uno sputo, per farlo tornare a danzare sfavillante di schiumosa bramosia, di fantastici languori assopiti poi dal tempo, tutto, durante il quale non ci tocchiamo né sfioriamo e a tratti neppure ci pensiamo.
non importa per questo parlare ragionare far di conto o chiacchierare, rischiamo solo di annoiarci fino in fondo, di perderci in triste e trite e bieche formalità: ciao come stai cosa fai cosa non fai quanti anni hai? chiusi stretti ancora congelati dentro un buco uno sgabuzzino una stanzina dove non riusciremmo neppure a sdraiarci se mai lo volessimo o se lo desiderassimo come il ghiaccio più del ghiaccio che con il freddo fa ustioni e bruciature, piega carne in congetture di grinze striminzite dove non conta chi ha torto o chi ha ragione, chi per gioco o per volontà, chi per fame chi per sete, chi per solitudine od orgoglio, conta solo e soltanto grattarsi e rigrattarsi via la pelle, fino ad uscire in carne viva, rossa pulsante e primitiva.
per far questo importano davvero le luci colorate? o il sole, le nuvole, le tempeste? mi domando: quanto ancora dobbiamo continuare a far sempre ed imitare le solite storie e gesta? di nuovo domani dopo domani e l'altro domani che verrà poi, recitare le nostre nenie così da impararle a memoria; non è che stiamo soltanto tirando un po' troppo la fune per vedere quando infine si deciderà a spezzarsi? in fondo si tratta di semplice evoluzione, dall'acqua all'aria per finire poi nel fuoco, tolte tutte le parole e le frasi con le quali l'agghindiamo di nastrini lucchichenti da farla risplendere così distante nel buio, la nostra evoluzione.
e se proprie non ci vogliamo evolvere che almeno si faccia una sanguinosa rivoluzione! un qualcosa che faccia capire quanto violenti siano i nostri intenti, le nostre galassie interiori. amputiamo arti, tagliamo teste, sventriamo squartiamo lamellari brandelli di muscoli nervi filamenti nodosi di calli e ossa. che ci sia pioggia di plasma e urina, feci infette dall'odore nauseabondo, il terrore fatto vile, con urla così alte da strappar le unghie contro il cielo. torturiamo, mutiliamo: interroghiamo con metodi inquisitori le nostre più recondite volontà.
da dietro la tua schiena, tu chinata in cucina a sparecchiare rigovernare, lavare pentole e piatti e bicchieri, o anche solo a pensare riflettere su tutto quanto, l'universo le piogge acide io e te, ti prenderei cingendoti la vita con la punta delle dita, appoggiandoti le labbra giusto un poco più umide bagnate, sulla base del tuo collo, sulla pelle liscia e tesa; su quel bacio soffice e beato che senza rumore o avvisi e avvisaglie, senza tregua o armistizio, sul tuo collo io bacerei.

ma poi, a volte, le rese sono pure e semplici paure.

mercoledì 14 aprile 2010

Control


Ian Curtis: Ian. Curtis.
Pensare di riuscire. Credere. Avere. Più possibilità. Una dopo l'altra. Di nascosto. Un passo in avanti. Un passo indietro. Ian.
Pensare di riuscire. Fare tutto. Continuare. Da una parte. L'altra. Il lavoro. La scrivania. Il telefono. L'epilessia. I concerti. Il sudore. Le parole. Le note. Le luci ossessive illuminanti e le braccia esaltate in alto sopra le teste di persone che ballano e saltano e cantano. Un'onda.
Le pasticche.
Ian.
Curtis.
Ian.
Manchester. Il Belgio. Nathalie. I pannolini stesi ad asciugare. L'indecisione. L'amore che ci farà a pezzi. Il cuore è diviso in due parti, distinte, destra e sinistra, ventricoli ed atrii. Dipende da dove circoliamo al momento. In quale punto di questo organo transitiamo quando parliamo o quando scriviamo. Se in una stanza d'albergo. O al numero 77 di una casa piccola. Dove metti i pannolini ad asciugare in alto, sfiorando il soffitto, per guadagnare spazio. Per mettere un po' di ordine.
Ian. Curtis. Ian. Ian. L'ordine. Il controllo. Mettersi ad asciugare, sperando di recuperare, appunto, il controllo su quello che ci accade attorno.

martedì 13 aprile 2010

quel che può anche solo un singolo breve abbraccio

in quell'abbraccio di parte in disparte, non un abbraccio totale faccia a faccia dove perdersi e schiantarsi contro il petto contro lo stomaco stretti legati accartocciati come carta stagnola stropicciata, ma uno accanto all'altra con trasporto arrampicati come rampicanti come edera su di una ringhiera od un muro colorato in bianco e nero di quelle pellicole romantiche di un tempo che si guardano in televisione durante i pomeriggi di giorni di festa ma piovosi quando il tempo ti trattiene a casa e chiude la serratura della porta con due mandate di chiave dura che per uscire non ci vuol solo coraggio o quel briciolo di manciata di sana ed invidiabile pazzia ma anche tanta tanta volontà sincera di bagnarsi e di spogliarsi di pulirsi di lavarsi con la schiuma della pioggia della voglia della pelle del tuo prossimo di chi ti sta accanto di chi ti abbraccia non di faccia ma di lato chi ti aiuta e si aiuta con il tuo aiuto a sorreggerti e a sorreggersi per tentare di non dormire di non cadere nel sonno in piedi come i cavalli ma oscillare lenti come steli di fiori sbocciati in un campo verde e chiaro sospinti dal vento e dal suo fiato; in quell'abbraccio durato forse chissà quanto, due o tre respiri moltiplicati per novemila battiti al secondo?, e tirato per le lunghe trascinato fino all'ultimo dilatato all'infinito per non farlo mai finire nel tentativo di restare lì immobili per sempre anche quando le mani sono poi scivolate giù e la stanchezza ha fatto presa così intensa devastante da ordinare ad entrambi di mettersi a sedere; in quell'abbraccio venuto fuori si direbbe quasi per caso e senza il minimo pensiero, involontariamente ma spontaneo e naturale, lui si sentiva elettrico e dipinto di celeste, poi di blu intenso scuro, poi di giallo luminoso, un arancione rosso acceso, un bianco dello stesso bianco del candore, e poi di nuovo nero nero buio come se gli occhi si fossero chiusi o l'ombra di lei se mai potesse esser stata un'ombra si fosse posata su di lui; in quell'abbraccio che lo stingeva in un arcobaleno teso ad arco, con i mille pensieri e sensazioni a transitare come in coda lungo tutta la colonna vertebrale, lui si sentiva lei e credeva che lei fosse lui, in un attimo, forse due forse tre, forse per tutta la sua durata, di scambio di ruoli e di riconversioni, rimescolamento tattile a fior di pelle. si chiese se per caso anche per lei fosse lo stesso, se quel che sentiva lui era la stessa vibrazione che poteva ascoltare lei. si domandò, senza però riuscire a chiederlo ad alta voce e per questo a darsi o a farsi dare una risposta, se pure lei si fosse accorta come si era accorto lui, scosso da dentro da un terremoto gentile che aveva provocato un vuoto grande grosso e così denso da renderlo felice, che tra una cosa e l'altra, forse a caso forse no, forse per qualche congiunzione astrale che vedeva lui desiderarlo così tanto nello stesso tempo in cui pure lei lo pregava intensamente alla sorte, che per magia, o artifizio, o volontà di entrambi sottointesa, per qualche istante si erano tenuti per mano.
e la sua mano era calda. e al sua mano, la mano di lei, era ricca di estasi; così tanto da trasportarla fino a lui, fino al fondo ultimo e più profondo dei suoi bronchi, capillari, e farlo sussultare in palpiti silenziosi, così nascosti da custodirli in ricordi da mai dimenticarsi.

lunedì 12 aprile 2010

State of Play


C'è Eddie Vedder che, ah no, è Russel Crowe. Insomma c'è Russel Crowe che fa un giornalista investigativo, uno di quelli vecchio stampo che lavorano ancora per la carta stampata vera e propria, omaggiata poi nel finale con i titoli di coda. C'è un omicidio di strada che ce lo presenta, che ci fa intuire quanto conosca i poliziotti e il rapporto che ha con loro, e che ci fa capire pure come in questo mondo nel quale viviamo non è sicuro neppure fare lo speedy-pizza ecologico in bicicletta. Poi c'è uno scandalo politico, che viene a galla dopo che l'amante di un noto membro del congresso, che lavorava insieme a quest'ultimo nelle indagini di una processo contro una società militare, finisce sotto un treno della metropolitana. Si parla di suicidio, di un gesto dettato dall'esasperazione alla quale il governatore, ovviamente sposato più o meno felicemente, ha portato la ragazza spingendo sull'acceleratore del loro rapporto clandestino.
Investito da tutta questa attenzione mediatica, dove i membri del congresso di opposta fazione politica gli puntano il dito contro, rinfacciandogli una scarsa moralità di base, e da tutti i giornalisti scandalistici che lo inseguono per riuscire a strappargli qualche dichiarazione d'effetto, il nostro caro amico, interpretato da un Ben Affleck che in giacca e cravatta pare ancor più quadrato, dove va a rifiugiarsi? A casa del suo vecchio amico Russel crowe: Compagno di collage e di varie avventure, addii al celibato, e ricordi di gioventù. Poco importa che il suddetto amico di mestiere faccia proprio il giornalista, come tutti gli altri omini muniti di macchina fotografica dai quali sta cercando di scappare, e men che meno importa che il caro vecchio amico del collage Russel Crowe abbia avuto una relazione con sua moglie quando il loro matrimonio cominciò anni prima a scricchiolare.
Tutto il piatto viene condito un cast di grandi nomi, a partire dal nostro Eddie Vedder, già no, dal nostro Russel Crowe un po' imbolsito che non si capisce bene se da bravo camaleonte si pieghi a favore del personaggio o se sia al contrario il personaggio a piegarsi al suo aspetto fisico del momento; un Ben Affleck che sembra avere il busto sotto quel doppio petto, o un bel palo nel culo; una Rachel McAdams tutta peperina che rappresenta il lato moderno ed inesperto del personaggio di Russell Crowe dell'era di internet; Helen Mirren che fa la mamma cattiva ma accondiscendente da brava direttrice di giornale, che coccola con il pugno leggermente duro i propri giornalisti; una Robin Wright Penn in mezzo a due uomini, uno spigoloso come un tavolino da caffè del settecento ed uno gonfio come una mongolfiera da competizione, gran brutta scelta da dover prendere; e c'è pure il prezzemolino Jason Bateman, che però qui si riconosce meno del solito, nascosto sotto una cofana ingelatinata in perfetto stile mafioso.
La storia e lo sviluppo sa molto di già visto, ma il ritmo non è male, l'intrigo ti tiene concentrato e le due ore di durata scivolano via abbastanza tranquille. In fondo se è riuscito a tenermi sveglio dopo una giornata di lavoro, una pizza con non quattro ma ben cinque tipi di formaggi diversi fusi sopra, e tre birre, beh qualche merito deve pur averlo.

giovedì 8 aprile 2010

Non Pensarci


Non pensarci, se tutto ad un tratto la tua carriera di musicista si butta giù da un palco e si sfracella al suolo. Non pensarci, se a causa di questa caduta torni a casa prima e scopri che è sempre meglio non tornare mai a casa prima, senza prima avvertire. Non pensarci, e non ci pensi affatto, non pensi a niente, quando raccogli quattro o cinque cose, vestiti per lo più, e li metti dentro la custodia della tua chitarra per poi andare via. Ti chiudi la porta dietro le spalle.
"Dove vai?"
"Non lo so." Ma te ne vai lo stesso.
Decidi quindi di cercare affetto e un abbraccio spontaneo sincero là dove credi che queste cose non mancheranno mai, in quell'isola felice dove pensi che ti aiuteranno senza chiederti troppo né farti nessuna domanda. Fingi normalità. Ma poi ti ricordi per quale motivo te ne sei andato, e ti accorgi che non sei il solo ad aver bisogno di aiuto. Allora rimani ancora un po', non scappi via, e ti affezioni a quella sensazione come ad un cane preso in un canile. Cerchi di risolvere i problemi facendo fronte comune, tra situazioni insensate e che non sai spiegare ma che vivi di giorno in giorno. Perché in fondo hai bisogno di loro, magari non così tanto, ma ne hai bisogno; anche solo per capire, chiedersi, domandarsi, se non stavamo meglio quando ci raccontavamo le bugie, quando ci riempivamo di cazzate.
E la colonna sonora va tranquilla, bella, come la leggerezza con cui vengono raccontati i fatti. Con il volto di Mastandrea con le basette lunghe, ironico anche quando ha la faccia seria: vienimi a prendere altrimenti mi ammazzo.
Un periodo per sorridere, per ricare le pile, e tornare con un cane. Allora si che si è pronti a buttarsi giù da un palco. Bisogna vedere se il pubblico sarà pronto ad accoglierti, o si sposterà. Ma di questo non pensarci. Non pensarci: buttati e basta.

mercoledì 7 aprile 2010

Delirio Cinefilo

More about Delirio cinefilo

Il critico deve e può ancora fare sognare e sognare primariamente lui stesso, desiderare, amare, il critico deve far cadere la penna dell'analisi, prendere la forchetta dell'emozione primordiale e gustare l'inesprimibile urlo del cuore.

Un caos senza scopo, senza obbiettivo se non l'assicurazione della sopravvivenza del Bene per garantire l'immutabilità del Male.

L'uomo ha bisogno dell'ignoto, della magia del momento, della fantasia e dell'immaginazione. Sono doti che non dobbiam perdere di vista e che dobbiamo esercitare perchè essenziali per la nostra sopravvivenza di esseri umani.

l'omissione della meta finale. Perchè meta finale non c'è.

Espiare l'Architettura del fraintendimento.

dopo esser sopravvissuto alla vita e aver accarezzato la morte, depone le armi puntate contro di sé e risale l'impervia strada verso un'anelata quanto illusoria libertà.

Forse mi sono svegliato solo un po' depresso. O forse mi sono innamorato di una minaccia rossa dallo sfacelo azzurro. La portiera è distrutta, il treno sta per partire, sono perso nei meandri dell'inconscio dissociato e alienato da un mondo di ricordi che si sgretola davanti ai miei occhi, occhi lucidi di lacrime salate, occhi increduli di un passato raso al suolo dalla mia impulsività, occhi che osservano lo disfacimento che inesorabilmente mi insegue mentre corro verso una mente candida incoronata da dolci spine tinte di blu, verde e arancione.

La felicità è un istante rubato fra il riso ed il pianto.

Una lotta fra due uomini che si trasforma in una sfida nella sfida, competizione avvolgente, magnetica illusione sospesa fra ciò che guardiamo ma non vediamo e ciò che sentiamo ma non ascoltiamo.

Siamo ancorati e schiavi della nostra consapevolezza, dei nostri desideri, del passato e del futuro.

La conoscenza ed il progresso, la "consapevolezza" distrugge e allo stesso tempo eleva l'uomo. Lo eleva a stratificati gradi di sofferenza, mentre la condizione che accompagna l'ignoranza è pacifica.

Immaginate un uomo e una donna.
Immaginateli vederli camminare, fianco a fianco. Immaginateli vederli tenersi sempre per mano.
Immaginateli marito e moglie.
Immaginate una bufera di neve colpirli duramente. In piena faccia. Immaginateli mentre distolgono il visto. Si coprono. Non mollano. Immaginateli mentre continuano a camminare, senza staccare mai la mano.
Immaginateli mentre giungono a una distesa desertica. Il caldo si fa insopportabile. Un caldo impossibile. La sabbia è sempre più pericolosa, ripida. Le dune, montagne insormontabili. Ma loro continuano a camminare, mano nella mano. Si sorridono persino.
Immaginateli arrivare in un'oasi di ombra e acqua e non fermarsi, immaginateli mentre bevono e si ristorano proseguendo, mano nella mano.
Passa il tempo, e arrivano bufere , e fulmini mancati, e arrivano tempeste e grandine, ci sono salite impervie e ostacoli quasi invalicabili. Ma niente. L'uomo e la donna, continuano a camminare.
Immaginateli sorridersi adesso, qualche volta piangere, parlare spesso. Immaginate che tutto questo avvenga per quarantaquattro anni consecutivi, sempre fianco a fianco, sempre mano nella mano.
Ora immaginate una forza più grande di loro, enormemente più forte che, piano piano, stacca la mano della donna e l'allontana di qualche metro dal suo uomo. Immaginate l'uomo mentre tenta di avvicinarsi invano. La forza continua a tenere la donna per mano a qualche metro di distanza, solo ogni tanto la libera permettendole di riavvicinarsi al marito e riprendergli la mano. Immaginate che questo riavvicinamento, avvengo sempre più di rado. Immaginate i due che continuano a camminare, nella stessa direzione, fianco a fianco ma staccati, slegati, senza potersi quasi più prendere la mano, mentre si guardano a una certa distanza, una distanza che, gradualmente, aumenta.
Ora immaginate che la donna, che la forza inattaccabile e incontrollabile tiene a distanza, comincia volgere lo sguardo altrove, non verso suo marito ma verso un altro uomo che, questa volta, le può viaggiare accanto e che la forza indomabile, stranamente, non respinge, non può respingere. Quest'ultimo, talvolta prende a sua volta la mano della donna, che lei non rifiuta. I tre continuano a camminare. Parallelamente. A distanza. Il marito vede la moglie. La osserva mentre continua a camminare. Urla mentre lei parla e tiene per mano l'altro uomo ma lei non sente. Le parla, le sussurra del presente, le ricorda il passato, ma lei non capisce.
Quelle rarissime volte che la forza lascia la donna il suo uomo riesce ad avvicinarsi e tenta di riprenderle la mano, lei non lo riconosce, tiene lo sguardo fisso verso l'altro, come in una cappa impenetrabile di cristallo dominata da questa forza impossibile.
Immaginate di essere un attimo l'uomo che è sempre stato accanto alla donna, quel marito che è sempre stato accanto alla moglie, fianco a fianco, mano nella mano, per quarantaquattro non sempre facili anni, nella bufera, nella tempesta, nel sole torrido di una distesa desertica, sempre, fianco a fianco.
Immaginatelo condannato per sua scelta a camminare accanto alla sua donna, parallelo al suo percorso, senza poterle più prendere la mano, senza riuscire a parlarle e a farsi capire e riconoscere, a distrarla.
Immaginatelo vedere la moglie sorridere all'altro. Immaginate l'amore che ogni ora, ogni giorno muove i suoi passi sempre e comunque, parallelamente, dandogli il privilegio e la possibilità in qualche modo di star vicino a sua moglie, anche a distanza, vicino a quella moglie che non ha mai abbandonato, alla quale mai e poi mai avrebbe lasciato la mano.
Immaginate tutto questo.
E immaginate che, comunque, non avete immaginato abbastanza.


William Dollace

martedì 6 aprile 2010

Antichrist


Un film sul dolore, sulla sua elaborazione, sulla sua evoluzione in spirale, sui suoi tempi, sul suo lato interno, profondo oscuro in palpiti, e sul suo lato esterno, fisico pesante. Un dolore che non si può spiegare e che non va nascosto, che va affrontato ma che sfocia poi in un tentativo di risoluzione estremo, a tamponare ferite che non sono sulla pelle, sui genitali, ma paiano infrante profonde dal senso di colpa. Un senso di colpa da dividere in due o da condividere, un peso, un macigno, che ti porterai dietro addosso per sempre, come una palla al piede, anche quando il dolore non ti farà più urlare, il sangue avrà smesso di scorrere dal buco della gamba, e camminando zoppicherai proprio per portarti dietro il ricordo. Ti verrà voglia di nasconderti, di mollare, di scappare, anche quando all'inizio eri stato proprio tu a spiegare che un dolore o le paure più in generale non vanno fuggite ma altresì affrontate. Quello che la mente può concepire e credere lo può raggiungere. L'ansia - vertigini, bocca secca, udito distorto, tremore, palpitazioni, battito accelerato, nausea - però coglie chi prima e chi dopo. E' il tempo. Sono le reazioni. Come una pioggia di ghiande che ti sveglia la notte facendoti pensare a qualcuno che entra dentro casa tua.

lunedì 5 aprile 2010

Primavera

Pedalava ad un ritmo non proprio da crociera. Spingeva le gambe, una alla volta, in alternanza, dall'alto verso il basso, per trasformare la sua forza in movimento. Scivolava nel traffico non certo ossessivo delle otto e trenta di mattina, lasciandosi alle spalle le poche persone che sui marciapiedi proseguivano a piedi, lente, alcune già con le borse della spesa, altre invece con dei cani al guinzaglio che tiravano per poter annusare la base di un palo o l'inizio di un muricciolo, piegarsi di lato e pisciare negli angoli.
Di tanto in tanto chiudeva gli occhi, quando la strada le permetteva di farlo, un tratto dritto e non troppo congestionato dalle auto, perchè le piaceva sentire la primavera respirarle sulla faccia, l'aria fresca e soleggiata solleticarle la pelle, le guance; quel tempo atmosferico che tutto ad un tratto si era fatto così gioioso le stirava le labbra in un sorriso disteso.
Quando si era svegliata, alzata dal letto, fatto due passi scalzi sul pavimento non più freddo glaciale marmato ma accogliente rugoso delle mattonelle in color crema della camera, era andata alla finestra con le persiane ancora chiuse ed aveva sbirciato tra le tegole orrizzontali degli infissi per intuire o spereare la temperatura esterna. Era stata felice di vedere l'asfalto della strada davanti casa sua illuminata dal sole, e chinandosi verso il basso, raggomitolandosi su se stessa per vedere anche pure il cielo, scoprire appunto il cielo così limpido celeste e del tutto sgombro di nuvole nere o grige.
Finalmente, si era detta di fronte allo specchio del bagno mentre si spazzolava i capelli rossi che si erano accesi di un fuoco splendente, poteva smetterla di pensare ai vestiti, pesanti e ingombranti, con i quali ogni giorno era costretta a vestirsi per rispondere ad armi pari al freddo di quell'inverno. Era giunta la primavera; in ritardo, era vero, pensava mentre si spazzolava i denti accogliendo in bocca il sapore fresco della menta del suo dentifricio, ma alla fine era arrivata, proprio come tutti gli altri anni.
Aprire l'armadio, con le ante a spalancarsi in un abbraccio gigante, e fiondarsi dentro tra i vestiti corti, leggeri, le maglie a mezze maniche con tutti i disegni pazzi e strani dipinti sul davanti.
Era tempo di esser felice, o di prepararsi ad esserlo, per poter poi scoppiare quando sarebbe arrivata l'estate. Dobbiamo esplodere, detonare in mille festanti grida, e urla, e gioa.
Pensava.
E pedalava.
Stava bene.
E pedalava.
L'aria, attorno a lei, sorrideva.

giovedì 1 aprile 2010

Marzo 2010


"Uno scrittore che non ha una ferita sempre aperta, per me non è uno scrittore. Magari preferisce tenerla nascosta, perché è orgoglioso, perché non vuole farsi compatire; ma deve averla."

Elias Canetti