mercoledì 27 febbraio 2013

The Bourne Legacy

Rilanciare un franchising pensavo fosse un’operazione più dettagliata e profonda del semplice cambio del protagonista. Dopo tre onorati film Matt Damon lascia l’identità di Jason Bourne e permette ai produttori di usare delle sue foto per collegare questo nuovo Legacy al terzo Bourne, nonché di usufruire di un titolo che richiami le avventure del suo agente segreto. Al suo posto, o per meglio dire in vece sua, viene chiamato Jeremy Renner, che qui supera se stesso sfoderando una magnifica espressione con gli occhiali. Al suo fianco la pallida ricercatrice Rachel Weisz, che qui in pratica recita con la versione giovane di suo marito nella vita reale (Daniel Craig). Completano il cast alcuni attori di spessore in ruoli di contorno, come per esempio un leggermente imbiancato Edward Norton e un fugace Albert Finney.
Il film si snoda per più di due ore in inseguimenti e combattimenti, andando a indicare nella prima parte un’intricata rete di progetti segreti che il buon Norton cerca di fare capire al suo interlocutore (e agli spettatori) con un paragone medico (con il suolo risultato di confondere e basta), mentre nella seconda si esprime in una più primitiva caccia all’uomo.
La pellicola si lascia vedere e tiene abbastanza alta la tensione, sorvolando su alcuni aspetti introdotti e poi lasciati morire senza alcuna spiegazione (o una spiegazione eccessivamente rapida), ma quel che davvero manca a questo nuovo Bourne non Bourne è il fattore novità: la trama di fondo, il motivo, e tutto il suo svolgimento sono uguali al primo film di Matt Damon. Non c’è un aspetto innovativo, un qualcosa che non ricalchi le avventure del primo capitolo della serie madre. Per questo si arriva alla fine e si ha la sensazione di sapere in anticipo cosa succederà all’inizio del prossimo possibile film.

martedì 26 febbraio 2013

Glenn Hansard & Lisa Hannigan @Viper

L’orario di inizio spettacolo desta qualche perplessità. Sembra che il concerto inizi alle 21.00 (strano) con l’esibizione del gruppo spalla. Non è una stranezza semplice da spiegare, in quanto tale stranezza si suddivide in due stranezze minori: una è l’ora piuttosto anticipata, in un locale dove mediamente fino alle 22.00 non si ascolta altro che musica registrata; l’altra è la definizione di gruppo spalla, che a sua volta si potrebbe suddividere in ulteriori due facce: il gruppo spalla non è un gruppo spalla, in quanto si tratta di una solista; la solista, o gruppo spalla che dir si voglia, non è una cantante qualunque, quanto piuttosto Lisa Hannigan.
Quando sale sul palco in perfetto orario, le nove spaccate, si ha subito la sensazione di avere davanti agli occhi un’artista di grande talento ma con un’altrettanta grande, se non smisurata, modestia. Nel corso della serata si capirà perfettamente che la bella e brava Lisa soffre in modo cronico di un disturbo da gregario che le impedisce di presentarsi al pubblico come vera e propria star se non accompagnata da un altro cantante. È stato il caso degli esordi, con Damien Rice, e lo è in qualche modo anche ora, nonostante aver pubblicato due bellissimi album in perfetta solitudine, con Glenn Hansard, con il quale è venuta in tour fino a Firenze (per l’occasione tinta di un immaginario verde irlandese) e che non smette di ringraziare in ogni circostanza.
Lisa entra in scena con una semplicità così profonda che la contraddistinguerà per il resto della serata. È sintomatico che le prime canzoni le canti da sola, accompagnata solo dalla sua chitarra o varianti di, quasi voglia definirsi più piccola di Hansard che invece si avvarrà di un numero smisurato di strumentisti, tanto che il piccolo palco del Viper avrà qualche problema ad accoglierli tutti. Vestita di un abito nero con piccoli pois bianchi e calze scure, appare nell’ombra del locale come una pallida madonna con una cascata di capelli lisci sulla testa. Canta con quella sua voce dal timbro tutto particolare che una persona normale potrebbe avere solo dopo avere corso per un’ora ed essersi lasciato asciugare il sudore addosso in una fredda notte d’inverno; con la sola differenza che la suddetta persona stonerebbe a ogni parola, a suon di starnuti e colpi di tosse, mentre lei riesce a esibirsi in maniere impeccabile, anzi, catturando lo spettatore con solo la sua voce e ricoprendo di magia tutte le strofe, tutti i ritornelli, e tutti i “grazie” con i quali si rivolge al pubblico tra una canzone e l’altra, e pure tutte le persone che si trovano di fronte a lei. È fantastica: immobile davanti al microfono, con gli occhi chiusi e la testa leggermente reclinata all’indietro per modulare al meglio la voce. Così come è fantastica quando accoglie sul palco alcuni componenti del gruppo di Hansard e si esibisce in canzoni più articolate, dai ritmi più allegri e giocosi, tanto che tra la gente accorsa c’è chi inizia a ballare timidamente, accompagnando ogni performance con applausi e ringraziamenti. È bello ed è bella, perché si capisce non solo ascoltando la sua musica ma anche guardandola esibirsi insieme ad altri musicisti, quanto sia felice nel suonare, nel cantare. Sorride di un sorriso che le invade gli occhi e le rotondeggia le guance verso l’altro, in un’espressione beata che lascia capire quanta allegria e piacere lei stessa respiri nel suonare e nel cantare.
Quando lascia il palco è passata solo mezz’ora. Non concede bis e si ritira dietro le quinte lasciando una vaga sensazione di insoddisfazione nelle ancora poche persone che si trovano nel locale. Sono le 21.30 e molto probabilmente chi è intenzionato a vedere Glenn Hansard è ancora a casa e comincia solo ora a prendere vagamente in considerazione l’idea di iniziare a prepararsi per venire al Viper. Non sanno cosa si sono persi, e la speranza è che una frase regalata da Lisa al pubblico risulti vera quanto la convinzione con cui è stata detta: sono felice di essere a Firenze e spero di tornarci preso. Lo speriamo tutti, Lisa. Davvero. Lo spettacolo è stato troppo breve per riuscirne a goderne appieno. È stato una specie di sogno che finisce non appena inizi ad abituarti all’ambientazione; uno di quei sogni dai quali non ti vorresti mai svegliare e che invece devi abbandonare troppo presto.
Quando ti svegli, almeno virtualmente, al Viper alle 21.30 di un venerdì di fine febbraio, è come se però ti fossi svegliato alle 4.30 del mattino di un qualsiasi giorno lavorativo. Non puoi alzarti del tutto, è ancora troppo presto, devi solo prendere quel breve momento di veglia per quel che è, ovvero un intervallo, e cercare di rimetterti a dormire il prima possibile, sperando magari di riacciuffare per i capelli quel sogno che tanto bene sognavi. Non è facile, ma neppure impossibile. Il più delle volte finisce però che cadi in un altro sogno, diverso, ugualmente bello e ugualmente emozionante.
Il nuovo sogno, al Viper, si chiama Glenn Hansard, irlandese dai capelli rossi con tanta vogli di fare musica e di divertire, che sale sul palco anche lui con una puntualità inedita da queste parti, alle 22 spaccate, e suonerà fino all’una di notte con solo un breve intervallo di neppure dieci minuti. In tutto questo tempo il nostro avrà modo di dimostrare tutto il suo valore come musicista, cantante, e intrattenitore. Le trascinanti canzoni con cui si scatenerà alla chitarra e alla voce faranno temere il peggio per la sua integrità fisica, quando spingendosi sempre più verso il limite della propria ugola raggiungerà un colorito rosso pompeiano acceso, tanto da ingrigire a confronto pure il colore del cuoio capelluto; così come risulterà esilarante negli intermezzi esplicativi, raccontando aneddoti vari in un inglese comprensibilissimo e accompagnato da una mimica eccezionale (fantastico e divertente il resoconto di una gita in barca con un suo amico durante la quale si dimenticheranno entrambi di cosa stiano a significare i fari luminosi in mare).
Nell’impeto dell’esibizione Hansard si infortunerà pure a un dito, anche relativamente a inizio show, tagliandosi con la corda della propria chitarra, ma laddove con altri artisti questo evento avrebbe potuto essere visto come un punto critico, una situazione che in qualche modo poteva suggerire all’infortunato di turno di tagliare corto e farsi medicare,  con l’irlandese in oggetto funziona esattamente al contrario, spingendolo a picchiare ancora di più e più forte sulle chitarre consumate fisicamente, e l’evento, invece di risultare come il punto di chiusura dello spettacolo, offre al nostro l’opportunità di esibirsi in una cover caricaturale (e buffa) di Enter Sandman dei Metallica, prima ovviamente di ringraziare il pubblico, ciucciarsi un poco il dito, e riprendere a suonare come se niente fosse.
Ciò di cui ti accorgi a un certo punto, un punto imprecisato del concerto e che varia da persona a persona, è che la natura di Hansard è la stessa condivisa dal primo Bruce Springsteen, e anche se per alcuni tale affermazione può risultare come una specie di bestemmia, è altresì innegabile come ad oggi ci siano pochi cantanti capaci di far trasparire nei propri spettacoli il grande potere di aggregazione della musica. Sul palco del Viper guardi questo ragazzo dai capelli rossi, vestito tranquillo in jeans e camicia, contornato da un gruppo piuttosto affollato di amici, aiutato solo dagli strumenti musicali, senza l’ausilio di nessun effetto speciale, e quando si lancia in trascinanti progressioni di ritmo, da tranquillo a forsennato, da forsennato a indiavolato, ti rendi conto di come tutti quanti, musicisti e pubblico, siano attratti quasi gravitazionalmente verso il centro della musica, dentro il quale perdersi e ubriacarsi, e hai la sensazione di fare parte di un qualcosa di grande, di sensazionale, anche solo ascoltandolo.
Questo è Glenn Hansard, e questa è la sua personale versione di condividere la propria musica: non solo suonarla ma darla al pubblico come se questa fosse un mare, magari privo di fari a indicare scogli pericolosi, e immergendo in questo mare chiunque voglia ascoltarlo. La sua musica ti accerchia, ti sovrasta, ti abbraccia. Una sensazione che difficilmente riuscirai a staccarti di dosso, anche a causa del desiderio inesauribile di Hansard stesso di darsi, di offrirsi, che lo spingerà a non smettere mai, a iniziare sempre una nuova canzone, alternando pezzi carichi a pezzi lenti, elettricità a note acustiche, richiamando sul palco Lisa Hannigan per alcuni duetti, il tecnico del suono per suonare la chitarra in un pezzo,  e che porterà l’intera truppa irlandese a esibirsi privi di alcun tipo di amplificazione in una personale rivisitazione di Passing Through di Leonard Cohen, prima sul palco e poi in mezzo al pubblico, immergendosi nelle persone mentre le persone si immergono nella musica che si immerge a sua volta nei musicisti, e poi nelle persone: come un’onda che si attorciglia tutta attorno a se stessa e si confonde nel mare facendo perdere le tracce dell’inizio dell’onda e della sua fine, l’inizio del mare e la fine del mare.
Sono le una di notte quando ti svegli, definitivamente, fuori dal Viper. I sogni sono finiti e difficilmente riuscirai a riaddormentarti presto.

lunedì 25 febbraio 2013

Libertà

Più riguardo a Libertà 
Secondo Seth Paulsen, che parlava di Patty un po’ troppo spesso per i gusti di sua moglie, i Berglund appartenevano a quella specie di progressisti con gravi problemi di coscienza, che dovevano perdonare tutti per farsi perdonare la propria fortuna; che non avevano il coraggio dei propri privilegi.

La maggior parte di quelle storie assumevano la forma di lamentele, e tuttavia nessuno dubitava che Patty adorasse Joey: si comportava un po’ come quelle donne che si lagnano della stronzaggine di un fidanzato bellissimo. Era come se andasse fiera di farsi calpestare il cuore da lui: come se la sua disponibilità a farsi calpestare fosse la cosa principale, forse l’unica, che volesse rendere nota al mondo.

Connie non costituiva una minaccia per una persona compiuta come Jessica. Connie invece non sapeva cosa fosse la completezza: era tutta profondità e niente superficie.

All’epoca era convinta che i complimenti personali diretti la mettessero così a disagio per via del suo altruistico spirito di squadra. Oggi l’autobiografa pensa che i complimenti fossero una specie di bevanda che Patti aveva l’inconscia saggezza di negarsi, proprio perché ne aveva una sete infinita.

Richard la squadrò con attenzione, pezzo per pezzo. Ogni volta che spostava gli occhi era come se inchiodasse un altro pezzo del suo corpo alla parete, al punto che, quando finì di squadrarla da capo a piedi, Patty si sentì completamente bidimensionale e appiccicata al muro.

Quanto alla storia di Babbo Natale: l’autobiografa non prova alcuna comprensione per i genitore che mentono, però ci sono bugie e bugie. Ci sono quelle che si dicono al protagonista di una festa a sorpresa, quelle che si dicono per divertimento, e poi ci sono quelle che servono a far sembrare stupido chi ci crede.

È curioso, ma il trucco – la trasfusione di fiducia tramite semplici parole – funziona.

“Tu sei l’unica cosa bella e vera della mia vita.”
“Non sono una cosa” disse Patty con sussiego.

La stanza degli ospiti era impregnata di un odore che Patty era troppo giovane per identificare come stucco per cartongesso, troppo giovane per trovarlo casalingo e confortante.

Davanti alla stazione degli autobus, sulla ciucciabenza di Gene impregnata di fumo, Patty gli gettò le braccia al collo, trattenne il respiro e provò a scoprire come baciava, e si accorse con piacere che lo faceva molto bene.

Walter la baciò, e baciarsi era molto meglio che litigare.

Non era la prima volta che Richard gli faceva lo scherzetto di sparire. Se voleva ancora essere suo amico, allora forse, per una volta, poteva disturbarsi a chiamare per primo.

Walter le provò tutte per appassionarla al sesso, tranne l’unica cosa che probabilmente avrebbe funzionato, e cioè smettere di provare ad appassionarla e prenderla da dietro sopra il tavolo della cucina. Ma se Walter si fosse comportato così non sarebbe stato Walter. Lui era quello che era, e voleva che Patty lo volesse per quello che era.

Dorothy, come Walter, aveva sempre pensato bene di lei, e Patty soffriva all’idea che neppure una persona dall’animo generoso come Dorothy facesse eccezione alla regola che tutti, in definitiva, muoiono soli.

La sera Walter aveva bisogno di trovarla sobria per poterle elencare le carenze morali del figlio, mentre Patty aveva bisogno di non essere sobria per non doverlo ascoltare. Non era alcolismo, era autodifesa.

C’è una pericolosa tristezza nei primi rumori delle attività mattutine altrui; sembra che il silenzio soffra, quando qualcuno lo rompe.

Se davvero odiava il sole, come dichiarava nella sua vecchia canzone, il Minnesota settentrionale in giugno doveva essere un posto faticoso per lui. Le giornate erano così lunghe che verso sera ci si stupiva che il sole non finisse il carburante. Non si spegneva mai.

Connie gli era sempre piaciuta molto. Sempre. E allora perché proprio adesso, in un momento così inopportuno, si sentiva trascinato, come per la prima volta, dalla titanica risacca di un sentimento più profondo?

Non poteva continuare ad aspettarsi un amore incondizionato se non si decideva mai a ricambiarlo.

Katz le sorrideva, divertilo dall’omogeneità con cui, nella sua persona unitaria e compatta, si combinavano e fondevano le personalità dei genitori.

La gente è venuta in questo paese per cercare soldi o libertà. Se non hai soldi, ti aggrappi ancora più rabbiosamente alle tue libertà.

Non era la persona che aveva creduto o che avrebbe scelto di essere, se fosse stato libero di scegliere, ma c’era qualcosa di consolante e liberatorio nel ritrovarsi un individuo concreto e definito, anziché una collezione di individui potenziali e contraddittori.

La personalità incline al sogno di una libertà senza limiti  anche propensa, nel caso in cui il sogno si infranga, alla misantropia e alla rabbia.

Jonathan Franzen

venerdì 22 febbraio 2013

Monumentale

I cimiteri non danno pensieri,
sei tu che ti sbagli, se stanco, disperi
E piangi per colmare i buchi dell’assenza,
vive come il pieno la vacanza e non spira mai.
Quindi lascia perdere i dibattiti,
la rete, i palinsesti
per un giorno non studiare,
non chattare, ma piuttosto
stringi forte chi ti ama,
fra le mute tombe del monumentale,
non c’è Dio e non c’è male, solo vaga oscurità.
I camposanti non hanno rimpianti,
sei tu che li covi, li rendi fantasmi,
li canti per sentirne meno la mancanza,
come non bastasse l’esistenza e l’eco che fa.
Giace qui ad libitum la tua imbecillità.
Quindi lascia perdere i programmi
coi talenti, i palinsesti,
per piacere non andare a navigare sulla rete,
stringi forte chi ti vuole bene
tra le tombe del monumentale,
trovi Dio, trovi Montale, ed un’opaca infinità.
Quindi lascia perdere i salotti
coi talenti e le baldracche,
vieni all’ombra dei cipressi
dona amore, al pomeriggio
a chi sospende la sua vita
tra le urne amiche del monumentale,
di realtà e d’irreale, vieni a fartene un’idea.

Performed by Baustelle

giovedì 21 febbraio 2013

Le regole del gioco

Le regole del gioco sono semplici: chi lascia prima il letto deve togliersi la maglia e lanciarla a chi resta. A volte basta il profumo.

mercoledì 20 febbraio 2013

Looper

A volte, nel marasma fantascientifico spesso baraccone di effetti speciali e colpi di scena, ci si imbatte in alcuni spunti degni di nota, capaci di mettere in secondo piano aspetti che solitamente si giudicherebbero troppo illusori. Looper riesce assai bene in questa specie di gioco di prestigio, con una storia che ha la caratteristica, assai rara di questi tempi, di non essere tratta da un romanzo di Philip K. Dick pur condividendo con i lavori dell’autore americano le stesse atmosfere, e nascondendo agli occhi dello spettatore la volgarità con la quale nell’ultimo periodo è stata trattata la telecinesi in ambito cinematografico.
La storia è ambientata in un futuro nel quale i viaggi nel tempo non sono stati ancora inventati ma che deve comunque fare i conti con un futuro più remoto nel quale invece i viaggi del tempo sono una realtà fuorilegge. È in questo futuro più vicino a noi, nel quale viene reso omaggio, forse alla lontana e forse solo nella mente di chi scrive qui ora, a un altro film che ha saputo trattare assai bene lo stesso argomento, ovvero Ritorno al Futuro, che conosciamo il personaggio di Joseph Gordon-Levitt, il quale ci introduce a tutto il nuovo futuro e a quello che lo attende.
Dopo una prima parte alquanto didascalica ma che sa coinvolgere lo spettatore, si fa la conoscenza con il personaggio di Bruce Willis, che in realtà è lo stesso di Joseph Gordon-Levitt soltanto invecchiato. I due protagonisti giocano il ruolo della medesima persona, solo uno nel presente e l’altro nel futuro (magnifico il lavoro fatto di trucco o effetti speciali sulla faccia del più giovane per farlo assomigliare nei lineamenti, tipo il naso, al più vecchio).
Il film si affloscia un po’ nella seconda parte, patendo la mancanza di una storia capace di sorreggere in lunghezza metà pellicola, ma rimane ugualmente godibile e assai interessante, introducendo con i tempi necessari alla trama la bella e problematica Emily Blunt. Ad averne di fantascienza di questo stampo.

martedì 19 febbraio 2013

Alessandro Fiori @Caffetteria Il Moderno

È la sera prima di quella che verrà ricordata come la giornata della neve prevista 2013. Fuori dal teatro, e dalla relativa caffetteria nella quale si terrà l’evento, l’aria è fredda ma in cielo non ci sono ancora nuvole capaci di far credere reale quanto predetto dai meteorologi. Le persone nel cortile a fumare parlano di altro, e quando la conversazione si imbatte inevitabilmente sul tempo atmosferico tutti quanti paiono abbastanza scettici: le previsioni non si avvereranno, non qui almeno, non a Pistoia e provincia, sembrano pensare.
Dentro l’aria è ben più calda e l’ambiente ristretto della caffetteria viene illuminato da poche luci soffuse poste qua e là a illuminare la porzione di spazio adibita a palco e il bancone del bar sul quale rimangono gli avanzi dell’aperitivo appena terminato. Sono le dieci di sera, orario annunciato per l’inizio di un concerto che non sarà solo concerto, e Alessandro Fiori sorseggia un cocktail chiacchierando con alcuni degli intervenuti. Tipico, per due motivi.
Uno: Fiori, barba folta e capelli grigi per l’occasione nascosti sotto una parrucca nera (per festeggiare il carnevale) ha un attaccamento particolare con gli alcolici, così come la grande maggioranza dei suoi colleghi musicisti/cantanti (e non è una critica negativa, non proprio, almeno quando la cosa non tracima in una sottospecie di sbornia storta, triste e alquanto incomprensibile per chi ne è testimone).
Due: Fiori, sempre barba folta e capelli grigi per l’occasione nascosti sotto una parrucca nera (sempre per festeggiare il carnevale) ha anche un’aria sorniona, distaccata, come se l’impulso dato alle labbra per allargarsi in un sorriso si trovasse molto in profondità, dentro di sé; un’aria che in un primo momento può apparirti asettica ma al tempo stesso è capace di ammaliarti quando ti avvicini a lui e ti perdi nelle sue sabbie mobili nel tentativo di individuare con precisione la natura di quel sorriso.
Fiori è fatto così, ed è il suo bello. Anche le sue canzoni, sverniciandone via il suono, restano affascinanti soprattutto per i testi a volte strampalati, bizzarri, tenuti su con un equilibrio degno di un equilibrista dilettante, ma pur sempre intrisi di un romanticismo e di un senso tutto proprio fuori dall’ordinario, e proprio per questo, al di là di essere unici per definizione, assai più belli di quanto altro possa esserci nel panorama italico della canzone (e non parlo di Sanremo, ormai alle porte, quanto piuttosto della canzone italiana che si aggira nel sottobosco delle provincie e dei locali). Le puoi ascoltare in modo distratto e non renderti conto di cosa siano in realtà, ma quando le affronti con un’attenzione meno superficiale ti ritrovi a dovere fare i conti con i versi e i ritornelli che ormai ti sono entrati dentro la testa e non riesci a fare uscire. Non tanto perché sono orecchiabili (a volte pure quello), quanto soprattutto perché li hai capiti e ti sono entrati appunto dentro con quella particolare abilità di farti sentire a tuo agio e di parlare di cose delle quali vorresti sentire parlare fino all’eternità.
Questo è un aspetto che Fiori riesce a trasportare nelle proprie canzoni ma che traspare anche nel parlarci insieme o nell’assistere a un suo spettacolo. Riesce ogni volta a creare un’atmosfera molto intima, al di là del numero di spettatori, e rendere lo spettacolo una specie di esibizione privata, quasi casalinga, come se avesse invitato tutti quanti a casa sua e si fosse messo sotto le luci dei riflettori non perché è l’artista che tutti sono venuti a vedere quanto piuttosto perché è la sua natura, perché non è lui a cercare la luce, è la luce a volerlo illuminare a tutti i costi.
Anche questa serata non è da meno, nonostante lo stesso Fiori, dopo un paio di canzoni, avverta gli intervenuti che non si tratti di un vero e proprio concerto, come anticipato poco sopra, bensì di una specie di reading inquinato dalla musica. L’occasione è data dall’imminente pubblicazione di un libro nel quale vengono raccolti alcuni scritti dell’autore aretino trapiantato nel Mugello. Il passo era inevitabile e non coglie nessuno di sorpresa, caso mai ci si domanda come mai sia dovuto passare così tanto tempo prima che una casa editrice si sia decisa a pubblicare il lavoro letterario di Fiori.
I pezzi, slegati gli uni dagli altri e letti con la collaborazione di un componente degli Amore (gruppo secondario di Fiori che avrebbe meritato maggior fortuna), sono chiaramente frutto di un’attività continua e mai interrotta, magari annotati ogni sera da qualche al termine di lavori vari e arrangiamenti su pezzi provati e riprovati. Mancano magari di un po’ di omogeneità, almeno da quanto lasciato trasparire dalla lettura, ma ancora è troppo presto per dire se questa piccola pecca sia insita nella loro natura a essere tale o se sia la decisione di recitarli uno dietro l’altro a renderli tali. Quel che si può dire dopo un’ora scarsa di lettura è che Fiori come sempre sa giostrarsi tra fatti e cultura con un’ironia non cialtronesca ma studiata, non facile ma assai spassosa quando la capisci, come nel caso della rivisitazione della vita di San Francesco e gli Ufo, o come quando racconta in modo asincrono lo sbarco dell’uomo sulla luna.
Quello che ha avuto luogo alla caffetteria de Il Moderno può non essere un concerto in senso stretto, né un vero e proprio reading classico, ma è stato pur sempre un evento durante il quale Fiori ha aperto virtualmente le porte di casa sua, lasciandoci entrare a sentire la sua musica, le sue parole; a vedere la piccola Carla passeggiare tra il pubblico nel tentativo di rubare la scena al babbo. La caffetteria si è trasformata senza alcun trauma nel salotto della famiglia Fiori e tutti quanti si sono riuniti attorno al buon caro Alessandro per ascoltarlo (suonare, leggere, raccontare) per il semplice motivo che è bello, e interessante, sentirlo in tutte le sue possibili versioni.

lunedì 18 febbraio 2013

L'uomo che cade

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Attraversò Canal Street e cominciò a vedere le cose, per qualche motivo, in modo diverso. Non parevano pregnanti come al solito, le strade lastricate, i fabbricati in ghisa. C’era una qualche mancanza cruciale nelle cose intorno a lui. Erano incompiute, per così dire. Erano inosservate, per così dire. Forse era quello l’aspetto che avevano le cose quando non c’era nessuno che le vedesse.

Non erano solo i giorni e le notti passate a letto. Il sesso era ovunque, all’inizio, nelle parole, nelle frasi, nei gesti appena accennati, nei minimi indizi di alterazione dello spazio. Lei posava un libro o una rivista, e intorno a loro si adagiava una piccola pausa. Anche quello era sesso. Camminavano per strada insieme e si vedevano riflessi in una vetrina polverosa. Era sesso una rampa di scale, il modo in cui lei avanzava rasente il muro e lui subito dietro, toccarsi o meno, sfiorarsi leggermente o premere forte, sentire lui che la incalzava dal basso, passandole una mano intorno alla coscia, bloccandola, per poi superarla e piazzarsi davanti a lei, che gli stringeva il polso. In che modo lei si abbassava gli occhiali da sole voltandosi a guardare, lui o il film alla tv, quando la donna entra nella stanza vuota e non importa se risponde al telefono o si toglie la gonna, fintantoché è sola e loro la stanno guardando. Era sesso la casa che affittavano sulla spiaggia, entrarci di notte dopo il lungo viaggio spossante, le sembrava di avere le articolazioni fuse in una massa unica, e sentiva il gonfiarsi dei flutti al di là delle dune, il tonfo e poi la funga all’indietro, ed era quella la linea di demarcazione, quel suono che dal buio là fuori imprimeva al flusso sanguigno una pulsazione terrestre.

È una dote che gli ho sempre ammirato. Riesce a dare l’impressione che in lui ci sia qualcosa di più profondo delle escursioni, delle sciate o delle partite a carte. Ma cosa?

-    Che cosa ci riserva il futuro? Tu non te lo chiedi? Non dico il mese prossimo. Gli anni a venire.
-    Non ci riserva niente. Non c’è. Il futuro era questo. Otto anni fa misero una bomba in una delle torri. Allora nessuno ci disse che cosa ci avrebbe riservato il futuro. Il futuro c’è appena stato. Il momento in cui bisogna aver paura è quando non c’è motivo di averne. Ora è troppo tardi.

Le piacevano gli spazi che creava. Le piaceva vestirsi davanti a lui. Sapeva che sarebbe giunto il momento in cui l’avrebbe spinta contro la parete prima che finisse di vestirsi. Si sarebbe alzato dal letto e l’avrebbe guardata, e lei avrebbe smesso di fare ciò che stava facendo e avrebbe atteso di essere spinta contro la parete.

Di nuovo si fermò a guardare, e provò un senso di solitudine così intenso da poterlo quasi toccare.

C’erano però mille bei momenti che i partecipanti potevano vivere, se gli si offriva la possibilità di raggiungere i punti di intersezione tra intuito e memoria che l’atto della scrittura consente.

Interessante, no? Dormire con tuo marito, una donna di trentotto anni e un uomo di trentanove, e mai un sospiro di sesso. Lui è il tuo ex marito, che ufficialmente non è mai stato davvero ex, lo sconosciuto che hai sposato in un’altra vita. Lei si vestiva e si svestiva, lui la guardava e non la guardava. Era strano ma interessante. Non si creava una tensione. Questo sì che era strano. Lei lo voleva lì, vicino, ma in sé non avvertiva la minima traccia di contraddizione o abnegazione. Aspettava, nient’altro, una prolungata pausa di ricognizione su mille giorni e notti amare, difficili da accantonare. Era una questione che richiedeva tempo. Non poteva accadere come accadono le cose in circostanze normali. Ed è comunque interessante – no? – muoversi nella stanza, come d’abitudine quasi nuda, e il rispetto che mostri per il passato, la deferenza verso quei fervori sbagliati, quelle passioni di tagli e bruciature.
Desiderava il contatto, e anche lui lo desiderava.

Justin era in grado di passare un giorno intero a lanciare una palla da baseball ed essere per tutto il tempo perfettamente e instancabilmente felice, incontaminato dal peccato, dai peccati di chiunque, in qualunque epoca.

La gente ti chiedeva dov’eri  quand’è successo. E io non glielo dicevo.

Un tempo aveva provato il desiderio costante di involarsi dalla consapevolezza di sé, giorno e notte, un corpo in puro e semplice movimento. Ora invece si rende conto di scivolare a tratti in spazi di riflessione, dove non articola il pensiero in unità distinte, nette e concatenate, ma si limita ad assorbire ciò che viene, ripescando le cose dal tempo e dalla memoria e depositandole in uno spazio semibuio che raccoglie il complesso delle sue esperienze.

Il mondo cambia innanzitutto nella mente dell’uomo che vuole cambiarlo.

-    Mi ripeto che morire è una cosa così normale.
-    Non quando sei tu. Non quand’è qualcuno che conosci.

Seduto lì, continuando a fissarla, lui cominciò a scivolare fuori dai vestiti.

Forse esisteva una piega profonda nella trama delle cose, nel modo che hanno le cose di attraversare la mente, nel modo che ha il tempo di oscillare nella mente, che è poi anche l’unico posto in cui esiste in maniera significativa.

Allo specchio crediamo di vedere noi stessi. Ma non siamo noi. Non è quello l’aspetto che abbiamo. Non è il nostro volto letterale, ammesso che una cosa simile esista. È il volto composito. Il volto in transizione.

Era ciò che entrambi avevano conosciuto, nel movimento atemporale di quella lunga spirale discendente, e tornava da lei anche se i loro incontri contraddicevano quella che ultimamente Keith aveva preso a considerare la verità della sua vita, che andava vissuta in modo serio e responsabile, e non abbrancata al volo in manciate maldestre.

Le persone la vedevano, sorridevano, alcune, e le parlavano, una o due, e lei era stata costretta a vedersi nella superficie riflettente della folla. Era divenuta ciò che loro le rimandavano.

-    Un giorno abbiamo cominciato a parlare, e quella conversazione non si è mai conclusa.
-    Neppure quand’è finito tutto.
-    Neppure quando non siamo più stati in grado di trovare cose piacevoli da dire, o qualcosa da dire in generale. La conversazione non si è mai interrotto.

Percepì un movimento vasto e altre cose più piccole, che non vide, oggetti che scivolavano e rimbalzavano, e suoni che non erano una cosa o un’altra ma solo suono, uno spostamento nella disposizione fondamentale delle parti e degli elementi.

Don DeLillo

venerdì 15 febbraio 2013

Il trionfo dei tuoi occhi

Che mi offrirai quando tornerò al tuo altare bianco con la preda in mano?
Mi concederò,ti concederai.
Mentre la città distratta muore in un grido invano.
Mille montagne scalerò,facendo tappa tra i tuoi nei e nei dubbi miei.

Comincia pure tu e io mi affiancherò nel trionfo dei tuoi occhi verde mare.
Nulla ci farà quella compagnia tanto l'uomo ignaro muore mentre gode l'animale.
Mille montagne scalerò,facendo tappa tra i tuoi nei e nei dubbi miei.
Mari e oceani nuoterò
chiedendo all'acqua che ti dia la fatica mia.
La fatica mia.
Duemilaundici ero abbracciato a te.
Eravamo noi o non lo eravamo?
Performed by Umberto Maria Giardini

giovedì 14 febbraio 2013

Lasciamo questo giorno agli altri

Lasciamo questo giorno agli altri, a chi ha voglia di spendere e spandere e non ha ancora trovato una propria definizione e chiede agli altri, al calendario, di dargliela come un suggerimento durante un'interrogazione. Lasciamo le luci e le rose fuori dalla porta, restiamo a casa. Non abbiamo bisogno di altro, solo te per me, e io per te.

mercoledì 13 febbraio 2013

Django Unchained

È inutile negarlo: ormai l’uscita di un nuovo film di Tarantino è un piccolo evento capace di richiamare al cinema spettatori che solitamente non frequentano le sale. La gente va a vedere il nuovo lavoro del buon Quentin anche solo per poter prendere parte a una qualsiasi conversazione riguardante il cinema. Il regista americano a questo punto della sua carriera potrebbe fare anche un film su come smaltire la merda, o una qualsiasi altra porcata inimmaginabile, che il riscontro al botteghino sarebbe comunque positivo. Sia ben chiara però una cosa: qualsiasi porcata riuscisse a immaginare la scriverebbe e la dirigerebbe in modo talmente accattivante da rendertela interessante.
L’ultimo Django Unchained (la D è muta) non fa eccezione a questa teoria. La sola postilla che si potrebbe aggiungere è che la storia del personaggio di Jamie Foxx nono è affatto una vaccata ma una vicenda ambientata poco prima della guerra civile americana, quando ancora il commercio di schiavi era una triste realtà, e vede il protagonista Django impegnato nel compito di ritrovare e liberare la moglie.
Per fare questo farà amicizia con il Dottor Schultz, un formidabile Christoph Waltz che gioca a fare da contraltare il ruolo dell’odiato nazista interpretato nel precedente Bastardi Senza Gloria, e dovrà vedersela con il perfido Leonardo Di Caprio e il suo fidato schiavo Samuel L. Jackson.
La prima parte, come spesso ormai accade nei film di Tarantino, è misurata e contenuta, quasi il registra si stesse trattenendo di dare via libera a tutta la sua voglia di fare cinema a modo suo. Serve a introdurre i personaggi, a farli crescere, a far calare lo spettatore nella storia e nel rendere quest’ultima plausibile ai loro occhi. Non appena Tarantino si rende conto di avere la loro attenzione e non più solo la loro curiosità, allora inizia a tirare fuori il bambino Tarantino e a dirigere il film che ha dentro. È il momento in cui il sangue sgorga come fontane, quando le sparatorie si trasformano in violente sequenze di morti, e quando anche uno sparo può scaraventare fuori traiettoria il corpo di una persona. Prendere o lasciare, questo è Quentin Tarantino.
Quando esci dal cinema non hai però la minima sensazione di essere rimasto pesantemente seduto in sala per  quasi tre ore.

martedì 12 febbraio 2013

Meg + Colapesce @Auditorium Flog

In un disturbo bipolare, felicità, si ha un’alternanza, tristezza, di aspetti lontanissimi gli uni dagli altri, come, pianto, appunto due poli, il nord, risa, e il sud, non apatia ma dolore, vero, beatitudine, altrettanto vera. In un disturbo bipolare si ha spesso la tendenza a visualizzare una persona come divisa in due personalità distinte, diverse, che devono condividere un corpo e una mente, nel bene e nel male. In un disturbo bipolare il soggetto è uno e uno solo, ed è questo che crea il conflitto, dentro di sé, e rende a tratti inspiegabile il suo comportamento: come? Dove? Quando? Destra e sinistra.
L’auditorium è pieno. L’auditorium è vuoto. C’è gente di età diverse: grandi e piccini. E non ci sono allo stesso tempo, sia grandi che piccini. Tutti dentro lo stesso auditorium, pieno, e dentro l’auditorium vuoto. Gente che è arrivata a parcheggiare di traverso nei pochi spazi disponibili accanto ai camper e gente che non ha visto posti più ampi, gente che ha parcheggiato in strada, chi è andato lontano, altri invece che hanno temuto la pulizia delle strade, gente abituata a trovare multe sul parabrezza, persone con l’esperienza di altre serate, e chi invece se ne è rimasto seduto a casa, o al bar, o in piazza, o al cesso; chi non è venuto perché non aveva la macchina, o perché non sapeva come arrivare, quando andare via, intimorita di arrivare troppo presto, o arrivare troppo tardi: gente che è venuta e gente che non è venuta, gente che ha avuto il coraggio di partire (a prescindere dall’orario) e gente che ha avuto il coraggio di rimanere (a prescindere da cosa fare). Siamo tutti presenti e tutti assenti, lì, in mezzo alla pista o in fila al guardaroba, o a cazzeggiare al banco del merchandising, o ad ascoltare un cd in macchina, o a cucinare, a bere, a fumare, a farsi i cazzi dannati propri in un qualsiasi posto che potrebbe essere quello e allo stesso tempo potrebbe essere altrove. Siamo tutti lì, in senso simbolico, non fisico, mentale, bipolare. Quando la musica di routine si stoppa e non lascia ai ritardatari appena arrivati neppure il tempo (breve, lungo) di fare la fila al bancone per ordinare una birra. E bere. O non bere.
Sul palco salgono due musicisti, due, e si piazzano dietro un contrabbasso dal taglio moderno, uno, e dietro a delle tastiere, l’altro. Il suono comincia a farsi strada tra i brusii del pubblico, affondando le proprie dita soffuse nello spazio vuoto tra i vari individui diversi, spingendo in questo modo gli spettatori accorsi, e non accorsi, a farsi il più vicino possibile, creare folla, creare il niente tra l’uno e l’altro. È quel breve lasso di tempo durante il quale qualsiasi concerto balla su se stesso, attraverso le proprie prime note, quando si può dire iniziato ma non ancora del tutto.
La prima sensazione è buona. La prima sensazione è cattiva. La prima sensazione è buonacattiva. È cattivabuona. Dipende da come la si vuole vedere, e sentire. È la sensazione che nasce non appena gli applausi scoppiano tra le mani quando sul palco salgono Colapesce, tranquillo quasi timido con la sua camicia a quadretti che quasi subito verrà tolta per lasciare vedere le bretelle nere su maglietta bianca, e Meg, vestita con abito nero dalle spalline come i colletti di vittoriana memoria e una rete nera quasi a lutto posta davanti agli occhi.
È l’inizio della data fiorentina del mini (8 appuntamenti che hanno portato i due artisti a muoversi da sud a nord lungo la dorsale italica) tour “Bipolare” che però di bipolare non ha proprio niente.  il nome però è accattivante e tende più ad adempiere senza troppa difficoltà al suo compito di richiamare persone. Meg e Colapesce sono due cantanti di genere quasi opposto, agli antipodi, tanto diversi quanto bravi nel loro modo di interpretare la propria musica, con i loro pregi e soprattutto i loro difetti. A Colapesce manca un po’ di voce, mentre a Meg mancano le parole. Da una parte c’è un’abilità formidabile nel comporre i testi, mentre dall’altra ci sono gli acuti per interpretare versi ripetitivi. Questo poteva essere il presupposto di questa strana coppia: il desiderio di mettersi a disposizione l’una dell’altro, colmare le proprie mancanze e diventare qualcosa di nuovo e più completo. Questo sarebbe stato un buon progetto. Avrebbe potuto anche offuscare la domanda (lecita) di chiedersi chi tra i due traeva più vantaggi da questa operazione.
La verità è però un’altra, ovvero: non c’è alternanza tra due comportamenti distanti, posti ai due poli opposti, il nord e il sud, la felicità e la tristezza, Meg e Colapesce. Il tour si sarebbe dovuto chiamare “Invasione”, per essere onesti. Basti pensare che tutti gli arrangiamenti saranno elettronici e nelle prime canzoni si avrà difficoltà a rintracciare la chitarra di Colapesce nel marasma scattoso dei suoni. Al di là della scelta della scaletta, dove magari i titoli della cantante napoletana alla fine supereranno di poco il numero dei titoli del cantante siciliano, è proprio l’atmosfera che si viene a creare all’interno dell’auditorium a rendere palese lo sbaglio del titolo. L’invasione con la quale si sarebbero dovuto presentare al pubblico è quella con cui Meg dilaga sul palco, grazie alla sua ugola ma anche alla sua presenza scenica. È ingombrante, tanto da non permettere alla sua controparte maschile di provare a prendere possesso dello spettacolo. L’esuberanza da una parte, e la timidezza dall’altra, la voce e il sussurro, porteranno a tracciare una strada ben delineata all’interno del concerto che la porzione giovanile del pubblico abbraccerà saltellando e cantando senza troppi problemi. È la parte che è venuta, e non è venuta, per ascoltare appunto Meg. Ed è felice. Non triste. Triste è chi è venuto, e non è venuto, per sentire Colapesce, o chi pensava di assistere a qualcosa di nuovo che però aveva all’interno una parte abbondante del debutto di Un meraviglioso declino. In questo il concerto è stato davvero bipolare, nello spingere il proprio pubblico a due sentimenti tanto lontani.
La gente se ne va, e la gente rimane. C’è chi è felice per avere visto Meg, c’è chi è triste per non avere visto Colapesce.

lunedì 11 febbraio 2013

Gennaio 2013


"Le coperte erano scivolate via e io guardai quella schiena bianca, le scapole appuntite sembravano lì lì per trasformarsi in ali."

Charles Bukowski

venerdì 8 febbraio 2013

Morning music

Oh, to have the pleasure of the gentle breeze
To run my fingers through your hair
Like the wind through the leaves

I loved to love and you learned to play
But we both know it's all the same in the end
In the end anyway

I lost my best songs in my sleep
When I was thinking I can't wait
To wake up next to you

'cause I am cheap and you are weak
'cause I am cheap and you are weak

I know a place
Where your eyes feel like grace on my skin
And the church bells delight in the taking of our night
And shining the light on our hands
Like nervous laughter
Like nervous laughter

I hope you understand that I had to know
After this beautiful night I'll have to let you go

This is mourning music
Wake up
Wake up
Wake up
Wake up

Performed by Rose Kemp

giovedì 7 febbraio 2013

Svegliarsi la mattina presto

Svegliarsi la mattina presto e lasciarti a letto. Fare un viaggio lungo, con il sole che sorge fuori dalla macchina. Mandarti un messaggio dicendoti che i genovesi hanno paura di ammalarsi, poi ti spiego. E poi, una volta a casa, non spiegarti ma abbracciarti.

mercoledì 6 febbraio 2013

Resident Evil: Retribution

Giunti al quinto capitolo della serie cinematografica tratta dal famoso videogioco, gli autori si dovevano inventare qualcosa per non andare incontro a una semplice riproposizione di uno dei mille scenari mostrati nei vari media. Così l’inizio di questo film, forse la cosa più particolare di tutta quanta la pellicola, risulta essere il punto di arrivo di un percorso creativo che però non si è evoluto. Mi spiego meglio: il giochino di ripartire da zero, prendendo il finale del precedente Resident Evil: Afterlife e non dargli un vero e proprio seguito pur facendolo vedere allo spettatore, in modo tale da tornare indietro, scelta suggerita anche dai titoli di testa, e poter riportare in vita personaggi ormai morti e sepolti (leggasi Michelle Rodriguez), funziona fino a un certo punto, ovvero quando l’inventiva degli autori sembra essersi piegata alla volontà splatter della produzione di proseguire su di una strada di sicuro successo battuta dalle storie precedenti.
Milla Jovovich ci mette di nuovo la faccia, e il fisico, e accipicchiola, ma nulla può di fronte a una storia che alla fin fine non è una vera e propria storia quanto piuttosto un riempitivo di vicende, dove lo stesso finale sarebbe potuto essere raggiunto con un minore dispendio di minuti ed effetti speciali senza sentirne davvero la mancanza. È la fuga da un centro di controllo dell’Umbrella Corporation, la malefica società artefice dell’apocalisse zombie che imperversa nel mondo, tutto quanto questo film può offrire al pubblico. Niente di più, calcolando che il tutto viene messo in scena senza grandi colpi di geni e che anche per i mostri è stata scelta la via del “rendiamo tutto più grande!”.
Non mi aspettavo niente di niente, ma cavolo, pensavo che fossero riusciti a fare almeno qualcosa di più di questo Resident Evil: Retribution. All’inizio, nel 2002 quando uscì il primo capitolo, doveva essere la linea guida da seguire per trasportare un videogioco sul grande schermo, ma se all’epoca un’affermazione del genere poteva essere vera il giochino (e non inteso il videogioco) è davvero invecchiato male.
L’unica cosa in cui questo film riesce bene, e non era certo facile, è riuscire a far rivalutare lo sparatutto Transformers 3.

martedì 5 febbraio 2013

Wassily Kandinsky: dalla Russia all'Europa

Con il passare degli anni il Palazzo Blu di Pisa si sta sempre più imponendo come punto di riferimento delle mostre pittoriche in Toscana. Situato proprio sulla riva dell’Arno, nella parte di città che a Firenze appunto si chiamerebbe “di là d’Arno”, vista la lontananza in questo caso da Piazza dei Miracoli, il palazzo spicca per il colore pastello delle sue pareti, una sfumatura che ricorda più un turchese che non il blu del nome, non certo per la forma architettonica. Edificio di tre piani, poco più alto di quelli circostanti, con finestre regolari poste in cinque colonne, ingresso principale formato da un portone contorniato da un muro in pietra a vista, va a formare il paesaggio che a suo tempo Leopardi dichiarò di preferire a quello visibile nei pressi di Firenze lungo le rive dello stesso fiume: un paesaggio piatto, nell’estensione in altezza del termine, complice soprattutto la vicinanza al mare, che invita lo sguardo a perdersi verso l’orizzonte, cosa che magari nel capoluogo di regione non può avvenire per questioni di spazio e di leggere sporgenze tettoniche (basti pensare alla collina del piazzale Michelangelo).
Con un programma che ogni anno promette un nome noto da proporre al pubblico, il Palazzo Blu ha finora offerto una panoramica abbastanza ampia sugli artisti europei del ventesimo secolo. Iniziando con Chagall (mostra fantastica che inaugurò la serie di esposizioni), passando per Mirò, Picasso, si arriva ora a Kandinsky, in una maratona di opere più o meno astratte diluita nel tempo. Ma se la mostra sul Mediterraneo vista con gli occhi azzurri di Chagall proponeva dipinti tutti quanti dell’artista russo poi naturalizzato francese, la risposta odierna della visione della Russia di inizio novecento non si avvale delle sole opere di Kandinsky, ma anche di alcuni lavori di suoi colleghi del tempo e di altri non-solo-pittori dell’epoca. Basti pensare, per spiegare il termine non-solo-pittori che l’opera a mio avviso più bella (ma ovviamente qui si entra nell’ambito dei gusti personali e quindi in una bellezza del tutto soggettiva) esposta nella mostra risiede nel piccolo spazio ritagliato per Arnold Schönberg, compositore austriaco amico di Kandinsky. L’opera è “Alleanza” e si può dividere in due parti distinte tracciando una linea verticale immaginaria al centro del quadro: se la parte sinistra appare ben marcata e la figura della mano che ritrae rimane nei propri contorni, la parte di destra invece sfuma in una affascinate cascata al contrario, con lo sguardo che passa dalla mano di sinistra a quella di destra e risale verso l’alto in una miscela indefinita di sfumature di colore, dove la forma della mano e del braccio di questa parte travalica le sembianze fisiche e si tuffa in un mare leggermente mosso di pennellate precise.
Quel che rimane di Kandinsky, dopo avere visto “Alleanza”, è comunque una mostra che indaga con tutti i mezzi a propria disposizione l’animo del pittore russo attraverso il suo modo di vedere il paesaggio che lo circondava, e le leggende della cultura sovietica, e il suo vivere l’arte, il suo modo di interpretarla non solo facendola ma anche cercando di spiegarla, agli altri ma molto probabilmente anche a se stesso. Lo si può capire dalla frasi scritte sui muri del Palazzo e che accompagnano il visitatore nel percorso espositivo, quali per esempio:
“Sentivo a volte il chiacchiericcio sommesso dei colori che si mescolavano.”
Oppure la calzante soluzione del rapporto tra talento e artista:
“Il cavallo porta il cavaliere con forza e velocità, ma il cavaliere guida il cavallo. Il talento trascina l’artista con forza e rapidità verso grandi altezze, ma l’artista conduce il suo talento… L’artista deve imparare a conoscere sempre di più le sue doti; come un abile uomo d’affari, non deve lasciarne la più piccola parte dimenticata o inutilizzata, ma, al contrario deve sfruttarle, svilupparle sino al limite delle possibilità che esse gli offrono…”
Proprio per questo, una volta usciti dal Palazzo Blu, non si avrà nostalgia dei quadri, dei dipinti, delle opere; non si avrà la sensazione di tornare all’aperto dopo essere stati dentro una mostra, quanto piuttosto di uscire, sì, ma non da un palazzo, non da un’esposizione, quanto piuttosto dalla testa di Kandinsky stesso. Hai visto con i suoi occhi, hai letto i suoi pensieri, e hai cercato di capire l’arte come lui ha tentato nella sua vita.

venerdì 1 febbraio 2013

S'illumina

S’illumina la notte poi s’illumina
Si spengono i cartelli luminosi
E piove luce intorno a noi
Riflettono le barche dentro casa tua
Riemergono dal cuore dei palazzi le signore
E’ giorno ormai
M’illumino mi vesto insieme all’ombra tua
Programmo le mie ore per l’accumulo di luce
Insieme a te
Rianimo le vesti sparse nel parquet
Due giovani sul tetto scrutano la piazza
Sbircio anch’io
M’illumino la notte non c’è stata mai
M’illumino la notte non c’è stata mai
M’illumino la notte non c’è stata mai
E dalle feritoie sanguina il castello
S’illumina, la notte poi s’illumina
Si spengono i cartelli luminosi
E piove luce intorno a noi
Riflettono le barche dentro casa tua
Riemergono dal cuore dei palazzi le signore
E’ giorno ormai
La civiltà s’illumina di meno e noi
Restiamo qui a sperare che qualcosa cambi
…Ma non cambia mai
M’illumino la notte non c’è stata mai
M’illumino la notte non c’è stata mai
M’illumino la notte non c’è stata mai
E dalle feritoie sanguina il castello

Performed by Colapesce