martedì 12 febbraio 2013

Meg + Colapesce @Auditorium Flog

In un disturbo bipolare, felicità, si ha un’alternanza, tristezza, di aspetti lontanissimi gli uni dagli altri, come, pianto, appunto due poli, il nord, risa, e il sud, non apatia ma dolore, vero, beatitudine, altrettanto vera. In un disturbo bipolare si ha spesso la tendenza a visualizzare una persona come divisa in due personalità distinte, diverse, che devono condividere un corpo e una mente, nel bene e nel male. In un disturbo bipolare il soggetto è uno e uno solo, ed è questo che crea il conflitto, dentro di sé, e rende a tratti inspiegabile il suo comportamento: come? Dove? Quando? Destra e sinistra.
L’auditorium è pieno. L’auditorium è vuoto. C’è gente di età diverse: grandi e piccini. E non ci sono allo stesso tempo, sia grandi che piccini. Tutti dentro lo stesso auditorium, pieno, e dentro l’auditorium vuoto. Gente che è arrivata a parcheggiare di traverso nei pochi spazi disponibili accanto ai camper e gente che non ha visto posti più ampi, gente che ha parcheggiato in strada, chi è andato lontano, altri invece che hanno temuto la pulizia delle strade, gente abituata a trovare multe sul parabrezza, persone con l’esperienza di altre serate, e chi invece se ne è rimasto seduto a casa, o al bar, o in piazza, o al cesso; chi non è venuto perché non aveva la macchina, o perché non sapeva come arrivare, quando andare via, intimorita di arrivare troppo presto, o arrivare troppo tardi: gente che è venuta e gente che non è venuta, gente che ha avuto il coraggio di partire (a prescindere dall’orario) e gente che ha avuto il coraggio di rimanere (a prescindere da cosa fare). Siamo tutti presenti e tutti assenti, lì, in mezzo alla pista o in fila al guardaroba, o a cazzeggiare al banco del merchandising, o ad ascoltare un cd in macchina, o a cucinare, a bere, a fumare, a farsi i cazzi dannati propri in un qualsiasi posto che potrebbe essere quello e allo stesso tempo potrebbe essere altrove. Siamo tutti lì, in senso simbolico, non fisico, mentale, bipolare. Quando la musica di routine si stoppa e non lascia ai ritardatari appena arrivati neppure il tempo (breve, lungo) di fare la fila al bancone per ordinare una birra. E bere. O non bere.
Sul palco salgono due musicisti, due, e si piazzano dietro un contrabbasso dal taglio moderno, uno, e dietro a delle tastiere, l’altro. Il suono comincia a farsi strada tra i brusii del pubblico, affondando le proprie dita soffuse nello spazio vuoto tra i vari individui diversi, spingendo in questo modo gli spettatori accorsi, e non accorsi, a farsi il più vicino possibile, creare folla, creare il niente tra l’uno e l’altro. È quel breve lasso di tempo durante il quale qualsiasi concerto balla su se stesso, attraverso le proprie prime note, quando si può dire iniziato ma non ancora del tutto.
La prima sensazione è buona. La prima sensazione è cattiva. La prima sensazione è buonacattiva. È cattivabuona. Dipende da come la si vuole vedere, e sentire. È la sensazione che nasce non appena gli applausi scoppiano tra le mani quando sul palco salgono Colapesce, tranquillo quasi timido con la sua camicia a quadretti che quasi subito verrà tolta per lasciare vedere le bretelle nere su maglietta bianca, e Meg, vestita con abito nero dalle spalline come i colletti di vittoriana memoria e una rete nera quasi a lutto posta davanti agli occhi.
È l’inizio della data fiorentina del mini (8 appuntamenti che hanno portato i due artisti a muoversi da sud a nord lungo la dorsale italica) tour “Bipolare” che però di bipolare non ha proprio niente.  il nome però è accattivante e tende più ad adempiere senza troppa difficoltà al suo compito di richiamare persone. Meg e Colapesce sono due cantanti di genere quasi opposto, agli antipodi, tanto diversi quanto bravi nel loro modo di interpretare la propria musica, con i loro pregi e soprattutto i loro difetti. A Colapesce manca un po’ di voce, mentre a Meg mancano le parole. Da una parte c’è un’abilità formidabile nel comporre i testi, mentre dall’altra ci sono gli acuti per interpretare versi ripetitivi. Questo poteva essere il presupposto di questa strana coppia: il desiderio di mettersi a disposizione l’una dell’altro, colmare le proprie mancanze e diventare qualcosa di nuovo e più completo. Questo sarebbe stato un buon progetto. Avrebbe potuto anche offuscare la domanda (lecita) di chiedersi chi tra i due traeva più vantaggi da questa operazione.
La verità è però un’altra, ovvero: non c’è alternanza tra due comportamenti distanti, posti ai due poli opposti, il nord e il sud, la felicità e la tristezza, Meg e Colapesce. Il tour si sarebbe dovuto chiamare “Invasione”, per essere onesti. Basti pensare che tutti gli arrangiamenti saranno elettronici e nelle prime canzoni si avrà difficoltà a rintracciare la chitarra di Colapesce nel marasma scattoso dei suoni. Al di là della scelta della scaletta, dove magari i titoli della cantante napoletana alla fine supereranno di poco il numero dei titoli del cantante siciliano, è proprio l’atmosfera che si viene a creare all’interno dell’auditorium a rendere palese lo sbaglio del titolo. L’invasione con la quale si sarebbero dovuto presentare al pubblico è quella con cui Meg dilaga sul palco, grazie alla sua ugola ma anche alla sua presenza scenica. È ingombrante, tanto da non permettere alla sua controparte maschile di provare a prendere possesso dello spettacolo. L’esuberanza da una parte, e la timidezza dall’altra, la voce e il sussurro, porteranno a tracciare una strada ben delineata all’interno del concerto che la porzione giovanile del pubblico abbraccerà saltellando e cantando senza troppi problemi. È la parte che è venuta, e non è venuta, per ascoltare appunto Meg. Ed è felice. Non triste. Triste è chi è venuto, e non è venuto, per sentire Colapesce, o chi pensava di assistere a qualcosa di nuovo che però aveva all’interno una parte abbondante del debutto di Un meraviglioso declino. In questo il concerto è stato davvero bipolare, nello spingere il proprio pubblico a due sentimenti tanto lontani.
La gente se ne va, e la gente rimane. C’è chi è felice per avere visto Meg, c’è chi è triste per non avere visto Colapesce.

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