venerdì 24 settembre 2010

Dog Days Are Over

Happiness hit her like a train on a track
Coming towards her stuck still no turning back
She hid around corners and she hid under beds
She killed it with kisses and from it she fled
With every bubble she sank with her drink
And washed it away down the kitchen sink

The dog days are over
The dog days are done
The horses are coming
So you better run

Run fast for your mother, run fast for your father
Run for your children, for your sisters and brothers
Leave all your loving, your loving behind
You cant carry it with you if you want to survive

The dog days are over
The dog days are done
Can you hear the horses?
‘Cause here they come

And i never wanted anything from you
Except everything you had and what was left after that too, oh
Happiness hit her like a bullet in the head
Struck from a great height by someone who should know better than that

The dog days are over
The dog days are done
Can you hear the horses?
‘Cause here they come

Run fast for your mother, run fast for your father
Run for your children, for your sisters and brothers
Leave all your loving, your loving behind
You cant carry it with you if you want to survive

The dog days are over
The dog days are done
Can you hear the horses?
‘Cause here they come

The dog days are over
The dog days are done
The horses are coming
So you better run

Performed by Florence + The Machine

mercoledì 22 settembre 2010

Ultima chiamata per il volo

forse ho aspettato troppo tempo prima di sbarazzarmi di tutte le valigie piene di souvenir. i vestiti, piegati in modo approssimativo, i calzini, consumati, le mutande sporche pulite, le camicie, con le maniche arricciate a tre quarti, sempre sbottonate, sulle maglie stinte dai troppi lavaggi, i pantaloni lisi strappati, le scarpe dalle suole sfinite, inclinate dal camminare male, i libri i quaderni, con le pagine piegate per mantenere il segno, come bestemmie a tutto quello a cui ho creduto fino a poco tempo fa, le penne senza più inchiostro, quelle che sfreghi contro la carta e non fanno altro che segnarla con solchi trasparenti, fino a strapparla dalla rabbia; le parole, di quelle ho borse piene, tutte buttate senza ordine, veloci. per questo forse ho paura di tornare a casa, perché sarei costretto ad aprire tutto quanto e cercare di mettere un po' in ordine. le parole quando viaggiano in aereo, o in auto durante le curve, vengono sballottate di qua e di là, finiscono per aggrovigliarsi le une con le altre, specialmente quelle lunghe, come incomprensione o fraintendere. quando queste due per esempio si incastrano tra di loro uscirne fuori è sempre un'impresa epocale. sudi, ti affanni, sanguini: non sai mai se riuscirai a rimetterle a posto. per questo quando viaggio preferisco parole più corte, tipo: ciao, oppure: come stai. sono semplici pezzettini, è impossibile si ingarbuglino con altre, al massimo si possono nascondere negli angoli delle borse, seppellite sotto quintali di altre parole più pesanti: sentimenti, emozioni, rabbia, felicità. queste tendono tutte quante a pressare le altre in fondo, quasi a schiacciarle, forse convinte che la prima cosa di cui uno ha bisogno una volta tornato a casa e aperta la valigia siano proprio loro, e non magari un po' di riposo, tranquillità.
tranquillità per esempio la tengo sempre nella tasca esterna del bagaglio a mano. a volte subito dopo essere decollati la prendo e la metto alle orecchie come fosse un paio di cuffie di un lettore mp3. la voglio sempre a portata di mano, la tranquillità, o almeno la vorrei. la metto in un posto dove non devo faticare a cercarla, dove so di poterla trovare in qualsiasi momento. riuscire a prenderla poi, è un altro discorso. non sempre è così facile come si può pensare.
al check-in ero con una miriade di altre persone, tutte quante con valigie segnate da viaggi precedenti, ammaccate, timbrate dalle compagnie aeree. alcune erano ferite, mancavano di qualche rotella, viaggiavano zoppicando non appena qualcuno in cima alla fila finiva di sbrigare tutte le pratiche necessarie e usciva liberando il posto per qualcun'altro. io ero dietro a un gruppo di roma. non facevano altro che parlare, il più delle volte a vanvera, ripetendo sempre le stesse identiche cose. dove erano stati, cosa avevano fatto, aneddoti brillanti che qualche settimana dopo, chissà, avrebbero perso gran parte di quella iniziale brillantezza e sarebbero rimasti semplici ricordi neri.
con lentezza sono arrivato al banco. alcune persone avevano perso la carta di identità, altre avevano la carta ma molto probabilmente ciò che mancava loro era l'identità, oppure non si ricordavano più chi fossero, cosa ci facessero lì in quel momento, quale aereo avrebbero dovuto prendere per tornare a casa, e soprattutto: quale era casa loro?
una ragazza dai capelli ricci mi sorride da dietro il bancone. è vestita di un completo nero con risvolti verde scuro. mi dice qualcosa. deve controllare il mio biglietto d'imbarco. poi mi invita a posare il bagaglio sul nastro, vuole pesarlo. ho sempre paura quando arriva questo momento. mi chiedo cosa sarei capace di fare se messo alle corde la mia valigia superasse il peso consentito e dovessi alleggerirla in qualche modo. come farei ad aprirla senza far esplodere tutto per aria? nella mia pressata confusione ogni cosa è tenuta dentro la valigia dal semplice concetto fisico che la valigia è chiusa. se la valigia si aprisse, all'improvviso, tutto il suo contenuto sarebbe catapultato fuori, spinto dalla carica trattenuta fino a quel momento. mi immagino le parole, farebbero un casino. sarebbero come dei fuochi di artificio sparati verso il soffitto dell'aeroporto. la gente le guarderebbe a naso in su, stupefatta, mentre le parole una volta esaurita la propria propulsione si accascerebbero su se stesse, come salici piangenti, tornando sparse per terra. dovrei affrettarmi a correre a destra e a sinistra per raccoglierle, prima che a qualche stupido idiota passasse per la testa di prenderle credendo fossero sue. oppure qualcuno le potrebbe leggere, o usare nel modo sbagliato. se cadessero nelle mani sbagliate, certe parole potrebbero fare molto male. ci sarebbe chi potrebbe ridere, chi si girerebbe per le mani la parola elettricità prendendo la scossa, mentre slegata dalle sue compagne non riuscirebbe a scaricare a terra tutta la sua carica elettrostatica, altri più lontani vedrebbero la parola mia e penserebbero fosse già un atto di proprietà, poi dolce. prive le une delle altre non significherebbero niente, oppure significherebbero poco. sarebbero un po' come quei cartelli stradali che indicano una direzione: da sole dicono di andare a destra, ma unite, mia dolce elettricità, potrebbero portarti in qualsiasi posto.
prima di andare all'aeroporto mi piacerebbe poter fare delle prove. mettere tutto quanto in valigia e controllarne il peso. lo potrei fare per i vestiti, gli indumenti in generale, tutti gli oggetti fisici da metterci dentro; ma poi: voi lo sapete il peso delle parole? non è così facile da capire. ce ne sono alcune di leggere, quasi galleggiano. altre invece sono pesanti, sono asteroidi giganteschi in orbita attorno a chissà cosa: la testa? un braccio? una gamba? lo stomaco? una sera un signore si recò al molo della sua città. attraversò tutto il pontile fino ad arrivare alla fine, dopo di che si buttò in acqua. non aveva nessun masso legato a piedi, gambe o attorno al collo, ma non tornò mai a galla.
ci sono poi parole più subdole. quelle che guardi, le controlli attentamente perché hai la strana sensazione che abbiano la capacità di fregarti. le soppesi con le mani e ti convinci di quanto leggere queste siano, mentre invece quando le dai a qualcun'altro, quando le usi, quando le dici le scrivi, e gli altri le ascoltano le leggono, o le prendono a loro volta in mano, diventano piombate, chili e chili impossibili da sorreggere.
ho sempre paura di avere la valigia piena di questo tipo di parole. quelle che pesano pur sembrando leggere. spesso la sera prima di partire ho questo incubo: metto in valigia parole varie, tutte quante tranquille, innocue. poi vado in aeroporto. tengo il bagaglio senza fatica mentre lo appoggio sul nastro del check-in. tremo per la paura che la ragazza dietro al bancone mi dica che sia troppo pesante. mi dispiace, non possiamo imbarcarlo. invece nel sogno incontro una ragazza che percepisce le mie parole leggere tanto quanto le percepisco io. mi fa passare augurandomi buon viaggio, e io mi sento sollevato. solo dopo, sull'aereo, mentre sorvoliamo il mare, le parole iniziano a pesare, tonnellate, tutte quante insieme, e precipitiamo, finendo sott'acqua, a fare compagnia a quel signore sconosciuto che una sera si è buttato giù dal pontile del molo della sua città. lui con in tasca la parola colpa, noi con le mie parole - tesoro in questo tra sai quanto di tutto viaggiare ci non poco noi capisco – sparpagliate dentro la stiva dell'aereo.

martedì 21 settembre 2010

Dieci Inverni


dieci inverni sono il fuso orario tra venezia e la russia. c'è lo stesso freddo, anche e il ghiaccio copre solo il suolo di mosca e dintorni. lui e lei si abbracciano, si spingono, si affannano per trovarsi nel momento opportuno e non quando il caso non lo vuole. ci riescono poco, e quando ci riescono collidono ruggenti andando a scontrarsi con violenza contro le futili gelosie del momento.
l'arte del non dire ma di capirsi, con problemi, spesso creati da se stessi, di due ragazzi che si vedono crescere sbattendo la testa contro il tetto, il cuore contro i sentimenti, e le labbra contro altre labbra. sarà necessario perdersi e ritrovarsi, incontrarsi per caso, così come per caso non imbattersi per strada, oppure vedersi e fare finta di niente.
un film spezzato, a tratti in modo netto, che magari stenta a decollare, con un inizio durante il quale ci si sente un po' spaesati, durante il quale non si capisce bene il senso di questo rapporto nato strano per volere e cresciuto altrettanto strano per peccati di gioventù. ci sono punti esili, legami della storia troppo poco stretti, facili si sciolgano e slegandosi si perdano un po' via, ma nonostante questo i due protagonisti coinvolgono, per quanto strani nelle loro strane stranezze, superano un primo momento di imbarazzo, durante il quale si muovono impacciati nel tentativo di orientarsi nei nuovi punti cardinali dettati da questo abbozzo di rapporto, amicizia affetto legame, che ancora non è nato, lo si vede lo si sente e lo si avverte anche solo sotto pelle, nascosto dai sorrisi non ancora sinceri ma di circostanza a coprire altro o dai dispetti infantili con i quali si mascherano tempeste alle quali ancora non si capisce quale nome dare, ma che scalcia irrequieto nel ventre di entrambi. si legano stretti una prima volta, la prima, battendo quella che potrebbe sembrare timidezza, si sorreggono senza toccarsi per una sola notte, e poi si sciolgono senza spiegazioni - non sempre le vette fisiche si sovrappongono alle vette emozionali. capiranno quanto lavoro sarà necessario per allacciarsi in modo netto, come lacci delle scarpe. impareranno a fare nodi e doppi nodi, a mettere un dito per fare il fiocco, a cadere quando inciamperanno nelle stringhe slegatesi all'improvviso - stringhe troppo lunghe che finiranno per somigliare a fruste e come fruste a frustarli - sbucciarsi le ginocchia, sanguinare, leccarsi le ferite e andare contro, testardi nella loro sicurezza disseppellita dalla pancia, andare contro quella forza che li tiene lontani, una forza che non conoscono ma sentono potente sia nel respingerli, ma in fondo anche nell'attrarli.

lunedì 20 settembre 2010

Bjork lo sa

forse non ce ne rendiamo conto ma molto presto ciò che abbiamo vissuto, agli occhi dei più giovani, diventerà classico. le persone invecchiano, cambiano. una foto può far apparire qualcuno come un ricordo di se stesso. se penso alla bjork sbarazzina di inizio carriera, con quell'aria da folletto magico spuntato da chissà quale angolo della sua islanda, è diversa da una qualsiasi immagine della bjork di oggi. è sempre una specie di folletto magico, è vero, ma è cresciuta. conserva alcuni colori di se stessa a quei tempi, in più ha aggiunto qualche linea, delle ellissi, non parlo solo del volto, non di rughe, ma di veri e propri cerchi, come quelli sul grano fatti o presunti dagli alieni. ha modificato l'immagine di se stessa quel tanto che basta per farsi nuova mantenendo sempre una traccia riconoscibile.
potremmo passare infinite serate a discutere poi se questa modifica l'abbia fatta in modo volontario oppure del tutto inconsciamente. la natura è possibile abbia fatto il suo corso, non lo metto in dubbio, però penso che una qualche parte in questa trasformazione bjork ce l'abbia. chiunque ha un po' di potere su se stesso, non tanto forse sul cambiare quanto piuttosto sul come cambiare. è inevitabile diventare diversi ogni giorno che passa, anche se non lo notiamo. ci diciamo davanti allo specchio: tutte le mattine qui mi lavo i denti, mi sciacquo la faccia, me l'asciugo e poi mi guardo. tutte le sante mattine. è normale non notare quei microcambiamenti che alla lunga portano a trasformare la mia faccia. così, quando per strada incontri un amico di vecchia data, non ti stupisci neppure più appena lui dice: cavolo, sei cambiato davvero molto, sei quasi un'altra persona.
balle. se fossi davvero un'altra persona, pensi, allora per quale motivo ti saresti fermato a salutarmi? vuoi forse raccontarmi la stronzata di avere un altro amico che per caso somiglia così tanto così poco a me da farti confondere su quale dei due tu possa incrociare per strada? non credo. è più probabile che, si, io sia cambiato, non lo metto in dubbio, ma qualcosa sia rimasto in superficie a suggerirti chi io sia veramente. ricordi? quello che alle superiori ti stava dietro di banco, quello che ti chiedeva sempre gli appunti di storia. fosse cambiato tutto soltanto sotto, non te ne saresti accorto. magari mi avresti visto ingrassato, o ingrossato, scegli tu, perché tutti i cambiamenti li avrei nascosti sotto la pelle, scavando buche dentro di me e nascondendoci ogni cambiamento che mi sarebbe corso incontro nell'arco di tutti gli anni durante i quali non ci siamo visti. una specie di tesoro dei pirati. se tu avessi una mappa potresti anche scavare nel punto esatto dove è disegnata la x.
allo stesso modo se fossi cambiato soltanto all'esterno, sopra la pelle, di sicuro sarei diventato talmente diverso da non farmi più riconoscere. saresti passato a due passi da me senza accorgerti che un tuo ex compagno di scuola ti camminava accanto. io al contempo avrei dovuto vivere con il fardello di essere un'altra persona pur essendo sempre la stessa identica di quando andavamo a scuola, visto che non cambiando dentro sarei diventato poco più maturo, se non immaturo, i miei interessi sarebbero rimasti uguali, i miei piaceri, pure, immutati. una visione piuttosto triste, non trovi?
invece sono cambiato sia in superficie che in profondità, da entrambi i lati della pelle: fuori dove c'è l'aria, ma anche dentro dove c'è il sangue. a volte ho cercato di mescolare i due sistemi, portare ciò che era dentro fuori e portare dentro ciò che era fuori, ma non mai avuto dei buoni risultati. quasi sempre ho finito per sanguinare. quello si, il sangue, è uscito per varcare la soglia della pelle, ma mai con esiti positivi. il più delle volte mi faceva un male cane, e quando non mi procurava dolore mi lasciava enormi cicatrici a ricordarmi del suo passaggio. oltretutto il sangue si rigenera, quindi è inutile svenarsi per portarlo fuori, farlo sanguinare via, tanto poi ritorna, se non lo stesso, dentro.
bisogna sapere trovare un equilibrio, tra quali cambiamenti inscatolare dentro e quali invece portare fuori. di solito è un'abilità spontanea, un di quei tratti ereditari che ogni generazione si porta dietro dalla precedente, a volte pure migliorandoli.
questo è quello che pensi mentre per strada stringi la mano a un tuo amico che non rivedevi da molto tempo. sono tante cose, eppure ti passano per il cervello in un micromillesimo di secondo, velocissime. non te ne accorgi neppure. perché alcuni pensieri li fai senza starci troppo a riflettere, li fai d'istinto. così come le decisioni. bjork non si sarà neppure resa conto di cambiare, proprio come non ce ne accorgiamo noi, ma in un attimo senza accorgersene ogni giorno decideva quali cambiamenti porre fuori dalla sua pelle, in modo da farli vedere anche agli altri, e quali invece tenere dentro.
non è mai troppo prudente mostrare i cambiamenti più importanti all'esterno. ci sono un sacco di sconosciuti in giro curiosi di potere sbirciare qualcosa. per questo quasi tutti nascondiamo ciò che ci cambia davvero, alle fondamenta, alle viscere, proprio nelle viscere stesse: dentro. tutti vedranno i cambiamenti che avrai deciso di tenere in superficie, quelli della pelle: le rughe, i tagli, le ferite. poche saranno le persone che vedranno, o capiranno, o intuiranno, i cambiamenti lasciati dentro, sotto la pelle: gli amori, le passioni, gli interessi, ciò che ti piace, che ti eccita, che ti elettrizza.
il te che avanza nel tempo, che viaggia nel tempo, ogni giorno, alla velocità di un giorno al giorno, è la commistione di questi cambiamenti, quelli esterni e quelli interni. una pozione magica da mescolare, un intruglio fatto dei peggiori acidi trovati e le migliori felicità provate. chi nota solo i cambiamenti esteriori, fuori dalla pelle, non ti conosce: ti riconosce. è ben diverso. e questo bjork, per esempio, lo sa.

venerdì 17 settembre 2010

Whatever Happened To My Rock 'N' Roll (Punk Song)

You want a part of me
You want the whole thing
You want to feel something more than I could ever bring
You want it badly
You want it tangled
I want to feel something more than I was strangled

I fell in love with the sweet sensation
I gave my heart to a simple chord
I gave my soul to a new religion
Whatever happened to you?
Whatever happened to our rock'n'roll?
Whatever happened to my rock'n'roll?

She wants it hallow
She wants it tainted
She wants to feel something more than she was naked
You want to hide away
You can't touch it
I want to feel something more than I care to take

I fell in love with the sweet sensation
I gave my heart to a simple chord
I gave my soul to a new religion
Whatever happened to you, rock'nroll?
Whatever happened to our rock'n'roll?
Whatever happened to my rock'n'roll?

She wants your image
She wants your kiss
She wants to get inside your head and tell it like it is
You want it badly
You want it so completele
I want to feel something more cos I can't f***in' breathe

I fell in love with the sweet sensation
I gave my heart to a simple chord
I gave my soul to a new religion (rock'n'roll)
Whatever happened to you, rock'n'roll?
Whatever happened to our rock'n'roll?
Whatever happened to my rock'n'roll?

Performed by Black Rebel Motorcycle Club

mercoledì 15 settembre 2010

Vestiti

quando c'era lei lui non aveva bisogno di fare niente. non doveva usare frasi, descrivere la stanza, le sensazioni. troppe parole rischiavano sempre di soffocare, e lui non riusciva mai a capire quando queste iniziavano a essere abbastanza. andava a finire che lui continuava a versare parole, come acqua dentro un bicchiere, fino a quando le parole non arrivavano al bordo e poi traboccavano, andando a bagnare il tavolo, scivolando per terra. allora dovevano armarsi di uno straccio, cominciare ad asciugare il pavimento, altrimenti si sarebbero portati dietro le impronte per tutta la casa. era inutile chiedere scusa, lui lo sapeva. non mi importa delle scuse, diceva un suo amico, basta che tu faccia di tutto perché non accada di nuovo, altrimenti delle scusa non me ne faccio niente.
quando c'era pensava a tutto lei. tornava a casa di fretta, quasi tutti i giorni, senza mai chiedere di essere aiutata. lui la guardava prepararsi da mangiare, due penne al sugo, e poi mettersi a scrivere.
avrebbe voluto alzare la mano, chiederle il permesso di intervenire, aveva un'idea. più che un'idea però era una visione. lei che mangiava le penne, ma non la pasta, quanto piuttosto delle vere e proprie penne, delle bic, rosse quando le condiva con il sugo di pomodoro, nere con il nero di seppia, blu. blu? se prendeva questa sua visione e l'applicava alla realtà, sovrapponendo un foglio di carta trasparente a una fotografia di lei, poteva in qualche modo capire i meccanismi che le permettevano di scrivere. fantasticava, lui, su questa sua idea, molto bislacca, se ne rendeva conto, ma allo stesso tempo in un certo modo molto da favola moderna. dentro un sogno sarebbe stata perfetta, tutto quanto avrebbe funzionato. così chiudeva gli occhi, mentre lei era seduta accanto a lui sul divano, e ascoltando il rumore delle sue dita sui tasti del portatile si immaginava immerso in questo sogno.
lei tornava a casa, mangiava un piatto di penne, il tanto necessario per permetterle poi di sedersi e vomitare, ma nel senso buono senza sentire alcun fastidio o dolore, una lunga gettata di inchiostro sotto forma di parole. era bello perché la vedeva prima rifornirsi, fare il pieno di quello che era il suo carburante, e poi restituire il tutto sotto una forma diversa, più bella. era una specie di pianta, nel sogno, era verde, la pelle dello stesso colore delle foglie. respirava inchiostro, dalle penne, e rilasciava anziché anidride carbonica tutta una serie di storie con le quali poi la gente si rispecchiava, oppure ci si addormentava abbracciandosi dentro, come lui faceva di notte quando era ancora troppo presto per mettere le coperte pesanti, ma allo stesso tempo iniziava a venire freddo, così lui si raggomitolava dentro le lenzuola, avvolgendosi tutto, diventando una specie di crisalide: questo facevano le altre persone con le storie di lei.
aveva un'abilità particolare: quella di capire le persone. le bastava passare un po' di tempo con loro, oppure scambiarci giusto due parole, per riuscirle a comprendere tanto quanto una vita intera forse a lui non sarebbe stata sufficiente. era una specie di superpotere, come quelli che avevano i supereroi dei fumetti. c'era chi poteva volare, chi respirava nello spazio, chi aveva una forza inumana. lei riusciva a indossare le persone. le conosceva e le apriva, quasi queste persone, tutte le persone, avessero una cerniera lampo cucita dietro la schiena, da sotto la nuca fin poco sopra il culo: una specie di salopette. prendeva il vero io della persona, lo trattava con cura, lo estraeva dal suo vestito, riponendolo magari davanti a se, tutto rosso sanguinolento, un fascio di muscoli e nervi e tendini e organi tenuti assieme dal plasma vischioso che ricopriva qualsiasi cosa, e diceva: guardami. prendeva il vestito di queste persone, la loro pelle, e ci entrava dentro. sistemava le mani in modo da farle aderire alle sue, tirandole come si fa con i guanti di lattice, si alzava le gambe per non farsi cadere alle caviglie i pantaloni, poi quando era pronta, tutto sistemato, ogni cosa al suo posto, prendeva a parlare. parlava come se fosse davvero lei quella persona. parlava dei suoi problemi, dei problemi di se stessa, ma sembrava comunque stesse parlando dei problemi della persona che indossava. vedeva il mondo, e per questo anche i suoi problemi, sempre con i suoi occhi, ma attraverso le lenti degli occhi della persona.
era favoloso vederla all'opera. a lui faceva lo stesso effetto di quando andava a guardare uno spettacolo teatrale ben riuscito, oppure quando entrava in un museo per visitare una mostra. lui sapeva disegnare, non dico proprio bene, forse in modo molto infantile, ma in fondo tutti riescono a disegnare, lo sa fare chi più chi meno chiunque, ma alle mostre ci sono sempre dei quadri stupendi attaccati alle pareti, esposti nelle sale, lui quasi ci cadeva dentro, immerso nei colori, seduto tra le pennellate un poco in rilievo. vedeva una cosa che poteva fare anche lui, dipingere, ma la vedeva fatta in un modo incredibilmente migliore. era un sollievo, sapere che comunque le sui idee, ciò che avrebbe voluto fare, non si fermavano davanti alla sua incapacità o al suo dilettantismo, ma venivano svolte, sviscerate, sviluppate da chi era più capace di lui. questo gli piaceva quando la vedeva scrivere.
quando la leggeva invece percorreva il tragitto al contrario, partendo dalle parole per arrivare fino a ciò che le aveva fatte scaturire. risaliva la corrente, era un salmone. si immaginava una volta in cima, alla sorgente, ci fosse lei ad aspettarlo. gli orsi di solito pescano i pesci con grandi zampate nell'acqua per poi mangiarseli, invece lei lo avrebbe preso con cura e cullato tra le braccia, almeno questo sperava lui.
pure le persone che erano state svestite sembravano contente. anche se tutto il processo poteva apparire in qualche modo molto cruento, con le viscere rovesciate fuori, i muscoli, il sangue, e tutto quanto il resto, non lo era affatto. erano sotto anestesia, pensava lui. le persone che lei indossava, di volta in volta, erano ben felici di prestare il loro abito, perché spesso dentro si ha tutta una serie di cose da dire ma non si trovano mai le parole giuste da usare, ci si spiega male, non si riesce a farsi capire, così poi pare dentro si abbia solo tanta tanta confusione. non è così, tutti lo sappiamo. lei forse lo sapeva più di chiunque altro. per questo aiutava tutti, si metteva a raccontare se stessa raccontando allo stesso tempo il vestito che al momento stava indossando. lei sapeva quali parole usare, quante usarne. sapeva quando fermarsi prima di far traboccare l'acqua fuori dal bicchiere e bagnare tutta la casa.

martedì 14 settembre 2010

Il nostro primo

è sera. siamo seduti su un muricciolo, uno accanto all'altra, in una piazza affollata. c'è gente a passeggio, con bicchieri di plastica riempiti di birra, si muovono in gruppo, altri invece restano fermi a capannello, formano un agglomerato disomogeneo di gesta risa e scherzi. ce ne sono di grandi, di questi gruppi, alcuni contano pure dieci o più componenti. altri invece, come noi, sono solo in due, e li si vede guardarsi intorno per trovare magari un altro piccolo gruppetto con cui unirsi, una specie di mitosi al contrario. non c'è nessuno da solo, sperduto fra la folla, in cerca di amicizia. chiunque pare avere almeno un appoggio, un'arma contro la solitudine. l'unione fa la forza.
il muricciolo sul quale siamo seduti è circolare, non troppo grande, contiene una piccola porzione di terra sulla quale sono state seminate alcune piante. l'intenzione iniziale magari era quella di fornire alla piazza un occhio di verde, tenuto con cura; ma poi la natura deve aver fatto il suo corso. al posto di alberi dritti eretti su per la schiena sono venuti fuori arbusti contorti, non sviluppati verso l'alto quanto piuttosto verso la casualità, in diagonale, con rami sporgenti all'infuori. alcune foglie ci abbracciano la schiena, creano ombra sicura dietro di noi.
la luce è diffusa da dei lampioni in ferro battuto, alti non molto più di noi, arrivano a mala pena a sfiorare il primo piano delle case attorno alla piazza. sono scuri, quasi neri, di quelli in stile antico con in cima quattro braccia, una per punto cardinale, a sorreggere delle buffe imitazioni di lanterne senza olio. calati nel contesto i lampioni classici, quelli dei viali, lunghi grigi e dalla forma spoglia, un semplice cilindro allampanato, stonerebbero con il resto del paesaggio. questi invece, pur nel loro ridicolo tentativo di imitare un tempo che fu, si mimetizzano perfetti nell'ambiente, ci sono ma non si vedono se non si vogliono notare, evitano il pugno nell'occhio. anche la luce ha un tono più caldo, arancione, non è invadente, tenue quanto basta per far vedere senza per questo accecare.
parliamo, si. e ridiamo, è vero.
"perché divaghi?" mi chiedi.
non so il motivo per cui lo faccio. forse per il desiderio di allungare questi momenti fino all'infinito, oppure per fermare questi attimi in modo talmente perfetto da potermici calare poi quando ne avrò più voglia o ne avrò più bisogno, oppure perché cerco di rimandare il tempo in cui dovrò prendermi la briga di descrivere te invece del paesaggio, oppure per via della tua bellezza, di quella luce che emani e per la quale non ho più parole da spendere per riuscire a fartela capire, quanto sia interessante e piacevole e apprezzabile e diverte e profonda e luminosa e raggiante e sfaccettata, questa luce qua. mi trovo sempre in difficoltà quando devo farti uscire dalle mani, spingerti giù dalla testa, il cervello, incanalandoti dentro il collo e deviandoti, prima che tu arrivi all'incrocio del petto, sulla spalla per farti poi finire lungo le braccia fino alle dita, dalle quali infine esci. mi sento impacciato, come se sapessi già in partenza che qualsiasi cosa facessi sbaglierei comunque.
"perché divaghi?"
non lo so, sono tutte quante delle supposizioni. la verità è che stiamo parlando, è vero, stiamo ridendo, è vero, ma più in profondità stiamo in realtà giocando, con il fuoco, e lo sappiamo entrambi. siamo curiosi forse di sapere quanto ci possiamo avvicinare prima di far scattare gli allarmi, prima di sentire la sirena della polizia avvicinarsi per venirci ad arrestare. ci divertiamo a far nascere scintille dalle nostre guancie che danzano lente nello sfiorarsi. siamo due pietre focaie da sfregare fino a quando non scatta il fuoco.
e il fuoco infine scatta. quando le nostre labbra sono attratte le une alle altre in modo naturale, senza rendercene conto, quasi fosse la forza di gravità a spingerle nei movimenti. si uniscono chiuse in un bacio che sa di bagnato, poi con passi lenti si aprano un poco, fanno filtrare la lingua che timida entra furtiva ad occhi chiusi. è un procedere a tentoni, morbido, senza andare in profondità, rimanendo in superficie, galleggiare sull'acqua, fare il morto respirando appena, le braccia allargate, le gambe leggermente divaricate, formare una croce, la faccia verso il cielo, il sole a pioverti sulle palpebre abbassate, il rumore costante del mare in onde appena accennate.
dura un soffio, un battito d'ali. difficile dire se si possa anche solo definire come un bacio, magari è solo un semplice toccarsi, un assaggio di ciò che potrebbe essere davvero un bacio, ma se lo è, è il nostro primo.
quando riapriamo gli occhi siamo già lontani, distaccati. forse è stato solo un sogno, come tutto questo, o forse non lo è stato. la gente continua a camminarci accanto, con le birre in mano. alcuni rami ci sfiorano ancora le spalle. tutto quanto pare essere rimasto uguale identico a come era prima, prima che chiudessimo gli occhi e ci tuffassimo uno dentro l'altra. il mondo non sembra essere stato rivoluzionato da questo nostro gesto. ti guardo mentre tu mi guardi. non so te, ma ne vorrei ancora.

lunedì 13 settembre 2010

September Fest

e tutto il lavoro che fai è tutto il lavoro che voglio, e tutto il lavoro che fai sono tutti fuochi d'artificio pronti a esplodere neppure fossero stelle in fin di vita, stelle filanti, di quelle che si perdono per strada, come i portafogli o la memoria o i sensi di colpa, e il resto della vita, se mai si può parlare di vita in questa vita qua perché è tutto quanto un gran bordello dove non ci si capisce un cazzo e la sola unica cosa di cui sé sicuri è il respirare, neppure un posto a sedere, una panca, una trave, una mascella slogata, dove poggiare il culo mentre gli altri in mezzo ballano a suon di musica orchestrata alla perfezione tra un brindisi e l'altro la gente sale sui tavoli per alzare le maglie facendo vedere i ventri gonfi di birra e livido splendore, andandosi a cambiare i vestiti più ubriachi di loro stessi sporchi delle bevute andate fuori sbagliando mira, slabbrando di quei pochi centimetri necessari per colare dalle guance lungo il collo e poi giù sul petto, la vita poi si passa seduta su di un guardrail arrugginito a domandarsi dove sia iniziato e dove sia finito. come mai abbiamo fatto questo, come mai abbiamo fatto quello. come mai. quasi i nostri gesti fossero sgorgati fuori dalle mani prive di azioni, mossi non tanto da sistemi nervosi ad impulsi ordinati quanto piuttosto dalla casualità cieca della fortuna o della sfortuna, il tiro di un dado, punto tutto su di un colore, il rosso, sangue stesso del gioco, perdo vinco con la facilità con la quale ci si può arricchire e morire, intriso di quel vino biondo scuro dal sapore deciso che non riesci a trattenere, pisci via con sospiri, mentre con la mano appoggiata alla parete cerchi di fermare il mondo dalla sua rincorsa folle dietro il tuo divertimento. torni e pensi: chissà quando avrò di nuovo questa opportunità, il privilegio raro unico di starmene seduto qua, in mezzo a chi non mi conosce, di spiare i suoi sguardi rossi, affilarne i denti nei sorrisi mentre svesto e mi faccio svestire dalle rapine a mano disarmate delle nostre disarmanti fantasie. ci vediamo già sudati, spettinati, spogli intenti a darci noia, solleticarci di frenetica passione di spalle disegnate esili, le bretelle nere su camice bianche buttate a terra, sfilate sui fianchi a occhi chiusi. ritagliamo momenti su momenti per spezzare il tempo, bucherellandolo qua e là facendone un origami imperfetto, senza senso, senza capo o coda o bellezza. fra poche ore non sapremmo neppure più come diavolo abbiamo fatto a costruire questa forma talmente priva di portamento. non ci guardiamo neppure in faccia da quanto ce ne vergogniamo. i tuoi capelli, già per primi, erano ancor prima rossi, ma mi guardavi con uno sguardo diverso, meglio peggio, non lo so. adesso guardi la parete di fronte a te, strizzi le palpebre per serrarle quanto i denti, un sorriso che sa di gioia da rivolgermi con ardore, mentre io penso ad altro, guardo i tuoi pantaloni gessati appallottolati scesi alle caviglie, le mutande a elastico per non farti divaricare troppo le gambe. la fila fuori si fa più lunga, sento il brusio delle voci altrui mentre si entra ed esce, l'accostarsi delle porte, lo scattare secco delle serrature. guardo i tuoi gesti dimenticandomi dei miei, fermo, a un tratto immobile e in movimento nel tratto scheggiato successivo, dimeni la testa aprendo un poco la bocca e mordendoti un labbro, uno a caso dici, non pensarci: tira dritto, pensa ad altro, mi ripeto. penso al gesto anatomico, allo sfregarsi interno delle pareti non del bagno, al ritmo con il quale le parole escono dalla tua bocca, e i vagiti prodotti dal nostro movimento privo di lucidità. cadiamo, ci rialziamo, ci vestiamo l'un l'altra dei ricordi arruffati uno sopra, uno sotto, ammassati gli uni sugli altri a formare un tendone sotto il quale ci ritroviamo seduti, accanto ma non troppo da poterci toccare, se non con lo sguardo e con l'immaginazione.
ci alziamo per chiederne ancora. rendiamo i vuoti per farci restituire i boccali ondeggianti prima tra la fretta di chi ce li serve e poi dal nostro passo incerto fatto di tentoni a destra a sinistra, scontrandosi con le spalle di altre persone, per andare alla ricerca ad occhi chiusi privi di memoria, del posto dove eravamo seduti. ci sono così tante sedie adesso vuote, stand liberi e ballerini vestiti in modo strano. c'è chi ti guarda sorridente, chi invece ti insulta mentre ebete sorridi per chiedere scusa, mi perdoni signore, signorina, ha visto per caso una stella. filante? chiedono loro, quelli che mi stanno alle spalle e sogghignano mentre ti cerco tra la folla. aguzzo la vista per trovare i tuoi capelli, il tuo vestito, il tuo abbigliamento. ti ho vista alzarti e dirigerti dalla parte opposta alla mia, forse in bagno, dove mi stai aspettando. avrei dovuto lasciarmi alle spalle delle molliche di pane da seguire per il ritorno, sperando a dita incrociate non arrivassero i gabbiani a mangiarsele planando verso il terreno. invece ora sono perso, senza bussola ho l'orientamento di un procione. cerco la stella polare, il cielo è nuvoloso, ci sono troppe luci a nascondere quella più importante. quando finisco sotto un tendone guardo in alto ma il soffitto è bianco, bianco sporco. chissà chi ci ha vomitato lassù: qualcuno capace di sfidare la forza che ci spinge a terra, ci schiaccia, noi e il vomito liquido in questo caso.
arrivato in fondo alla strada quest'ultima si apre a lingua di serpente. non vedo segnali stradali capaci di indicarmi una via, neppure il senso, se giusto o contrario, divieti di accesso, parcheggi involontari su marciapiedi stirati. mi gratto gli occhi, stropiccio le palpebre. voglio vederci chiaro, anche se non ci riesco. mi sforzo, concentro tutte le energie nei bulbi oculari mandando a frotte gli zuccheri rimasti sinceri verso quella parte di cervello ancora lucida. ma non ce la faccio.
quando ti si appanna la vista di solito hai sempre un bivio davanti, scegliere è così difficile, soprattutto quando vengono a incasinarti pure i deja-vu e non ci capisci più nulla, è tutto un sovrapporsi di immagini e di scelte, i colori si perdono tra le vie di fuga, la prospettiva perde la gravità pesante del suo stesso senso, pure la bava che ti esce dalla bocca appiccicandosi sul mento pare iridescente, quasi bella, quando invece è solo schifezza che ti cola sulla faccia. non sai che fare e per questo non fai niente. rimani in attesa. ti immobilizzi quanto una statua, quanto una pigna, quanto una storia che non vuole andare avanti e di cui percepisci appena quel che basta per arrancare con l'intreccio, il susseguirsi degli eventi, il senso dell'azione e della causa.
mi risveglio sporco di sabbia su di un lettino in riva al mare, lo stabilimento chiuso e gli ombrelloni legati stretti. il traffico rumoreggia poco dietro di me, mentre il mare perdendosi nell'oscurità della notte cerca di scappare dalla sua fine in fondo all'orizzonte venendosi ad allungare sulla spiaggia.
il mare finisce all'orizzonte, e oltre quel punto c'è una grande cascata che si tuffa nell'infinito, vorrei dirti. ma tu non ci sei.
chiudo gli occhi e mi rimetto a dormire.
wake me up, when september fest.

venerdì 10 settembre 2010

Cosmic Love

A falling star fell from your heart and landed in my eyes
I screamed aloud, as it tore through them, and now it’s left me blind

The stars, the moon, they have all been blown out
You left me in the dark
No dawn, no day, I’m always in this twilight
In the shadow of your heart

And in the dark, I can hear your heartbeat
I tried to find the sound
But then it stopped, and I was in the darkness,
So darkness I became

The stars, the moon, they have all been blown out
You left me in the dark
No dawn, no day, I’m always in this twilight
In the shadow of your heart

I took the stars from our eyes, and then I made a map
And knew that somehow I could find my way back
Then I heard your heart beating, you were in the darkness too
So I stayed in the darkness with you


The stars, the moon, they have all been blown out
You left me in the dark
No dawn, no day, I’m always in this twilight
In the shadow of your heart

The stars, the moon, they have all been blown out
You left me in the dark
No dawn, no day, I’m always in this twilight
In the shadow of your heart

Performed by Florence + The Machine

giovedì 9 settembre 2010

Farfalle e gelati

la ricchezza della felicità sta nel non essere vista. sarebbe troppo banale se fosse un oggetto tangibile, dai contorni netti. poter dire: ho la felicità qui dentro, indicando il petto, oppure: ho raccolto un po' di felicità nel campo fuori città. fosse così facile, la felicità che cresce come dei fiori, ci sarebbe da pensare a quando questa dovrebbe sbocciare, ai tempi di maturazione dei suoi frutti, al sapore che potrebbe avere quando sarebbero ancora acerbi. dovremmo concordarne il colore, decidere sei i petali dei fiori dovrebbero essere blu verdi gialli oppure rosa. il polline poi, si spargerebbe al vento nello stesso modo del polline normale degli altri fiori, oppure avrebbe un sistema tutto suo per propagarsi? solo api ben precise, le api regine o delle nuove api, sarebbero in grado di prenderne il seme e trasportarlo via lontano dal suo punto di origine?
ci sarebbero talmente tanti dettagli da mettere a punto. anche quelli di cui non ci viene neppure in mente niente. quelli sono i più infimi, i più bastardi. quando crei una cosa, qualsiasi cosa, devi sempre stare attento a non farti trasportare da te stesso, devi riuscire ad estraniarti, ad abbandonare il tuo punto di vista per metterti nella prospettiva di chi, al contrario tuo che ne sei il creatore, questa cosa che sta nascendo non l'ha mai vista, e non l'ha neppure mai immaginata.
il sapore del miele della felicità. a me non piace il miele in generale, non saprei dirti se quello della felicità potrebbe essere altrettanto dolce o dolce in un modo migliore. io non sopporto la sensazione appiccicaticcia che il miele lascia nella mani, quando crea filamenti vischiosi tra le dita, mi riempie la bocca anche con un singolo cucchiaino, così tanto da farmi quasi vomitare. non riesco a tenerlo sulla lingua, e buttarlo giù mi dà una nausea profonda. l'istinto mi ordina di sputarlo. non riesco a prenderlo neppure quando sto male, quando ho il mal di gola e tutti mi dicono di prenderne un po' con il latte: giusto un filo, diceva sempre mia madre, prima di andare a letto, mi ripeteva. ma io proprio non ce la facevo. mi rifiutavo, impuntando i piedi, anche quando ero bambino e il miele forse mia madre avrebbe dovuto farmelo mangiare a forza, senza troppe storie da parte mia. mangia e zitto! ma il latte con il miele mi ha sempre dato una sensazione di sporcizia, quasi il miele sciupasse il sapore del latte, tanto quanto potrebbe fare un rametto di rosmarino o il cadavere zampettante per riflesso di uno scarafaggio.
avessi almeno una volta assaggiato il miele con un atteggiamento meno disgustato, potrei ora dirti se il miele della felicità sarebbe migliore o peggiore del miele vero. potrei fare paragoni, dire: il miele normale è così, mentre il miele della felicità ha un sapore leggermente diverso, giusto un soffio, una vaga sfumatura. invece non ne sopporto neppure l'idea, del miele. mi fa schifo quasi pure la parola.
per questo credo e ti dico che la felicità non farebbe miele, sarebbe proprio impossibile. avrebbe invece una gustosissima crema. la felicità, sempre se fosse reale, la potresti prendere in gelateria ordinando un cono da tre euro: nocciolo, stracciatella e felicità. ma è proprio questo il punto. se la felicità fosse un qualcosa che si vedi, qualcosa che si potesse toccare, assaggiare, gustare, sarebbe proprio come un gelato. la felicità devi consumarla in fretta, senza stare troppo a pensare a quanto sia buona, a come ti riempie la bocca di gustosa delizia; devi mangiarla il più veloce possibile, prima che ti si sciolga in mano, ti coli dal cono di cialda finendo ad imbrattarti le mani. la felicità è questo: un gelato buono consumato sotto il sole. devi sbrigarti, non guardarti indietro, continuare a parlare con i tuoi amici, camminare, ma leccarlo con avidità prima che faccia il suo tempo. è inutile tentare di conservare la felicità, ha una scarsa capacità di preservare i suoi pregi, anzi: se tenti di consumarla dopo neppure un giorno si è già fatta acida, ha cambiato del tutto il suo sapore, si è rivoltata come un calzino mostrando fuori il suo lato peggiore. nella felicità, se guardi bene, c'è un'etichetta: da consumarsi preferibilmente entro il.
si dice che le farfalle abbiano una vita breve. c'è chi afferma che vivono solo qualche giorno, chi una settimana o poco più, chi addirittura giura le più fortunate addirittura un mese. la farfalla della felicità potrebbe avere delle ali coloratissime, stupende tinte di blu, giallo, nero. vivrebbe giusto un giorno, il tempo necessario per vedere un'alba e un tramonto. al crepuscolo inizierebbe a sentirsi debole, segnata già dalla sua esistenza. ai primi raggi di buio già sarebbe immobile, priva di calore, quasi fosse stato il sole a riscaldarla o a spingere il sangue attraverso il suo corpo.
tutto questo per dire che è inutile affannarsi dietro alla felicità, cercare con le parole, i gesti, i ricordi, di darle un corpo, una forma. sarebbe come imprigionarla. la felicità è bella proprio perché è una nube, una di quelle che attraversi senza rendertene conto e che respiri a pieni polmoni. la felicità è un libro che non permette orecchie alla pagine, né sottolineature nelle parti migliori. non devi fissarti su di un tipi, su di un periodo, una frase, devi solo andare avanti. cercare di rivivere le vecchie felicità è una pratica insulsa, capace pure di ferirti in profondo, sotto pelle, segnandoti il corpo nel modo meno visibile ma più doloroso. i ricordi delle felicità passate andrebbero bruciati in roghi alti di fiamme affamate, perché quando ti fermi a ripensare a quanto sei stato felice quel giorno, quel determinato momento, magari quando ti ha preso per mano, o quando è successo qualcosa per quanto microscopico capace di aprirti il petto e di soffiarti dentro un respiro di ghiaccio elettrizzante, o un alito di fuoco; quando lo fai stai già sbagliando, ti stai torturando inutilmente. in cuor tuo sai già di non poter rivivere di nuovo quell'identico attimo, con la stessa intensità, o con le stesse persone, la sequenza esatta dei movimenti, dei gesti. il ghiaccio sarà solo freddo, il fuoco sarà solo un timido tepore. lo sai, ma lo fai soltanto perché pur di provare qualcosa sei disposto a sentire pure male, fosse anche un semplice eco.
non guardarti indietro. ci sono talmente tante felicità di fronte a te, è inutile perdere tempo con quelle già andate a male.

mercoledì 8 settembre 2010

Siamo parti mobili ma legate

ogni tanto mi soffermo a pensare su quanto tempo sia capace di perdere facendo cose del tutto inutili. rispondo a quella parte di me stesso che solleva questi pensieri che ciò che ci rende felici, che ci fa stare bene, alla fine non è affatto inutile, anzi: è l'esatto contrario.
Qual è il contrario di inutilità? chiedo al me seduto sempre in salotto a baloccarsi con i vocabolari.
Utilità, cretino. mi risponde lui.
no, no. protesto io. qualcosa di più pieno, qualcosa che renda l'idea non solo di essere utile ma di possedere un'enorme ricchezza di utilità.
lascia stare, dice il primo me con il quale stavo parlando. in qualsiasi modo tu la metta ciò che fai serve soltanto a farti prendere per il culo. un modo dozzinale di fare qualcosa di dilettantesco, così ridicolo nella tua convinzione da risultare comico. fai solo ridere, ma far ridere in modo involontario è solo triste. per questo è inutile. è un affannarsi privo di qualsiasi fine.
di solito a questo punto iniziamo a litigare, io e la parte di me stesso che mi dice queste cose. cominciamo a insultarci a vicenda, chiamandoci in malo modo. tiriamo in ballo le nostre mamme, che poi sarebbe sempre e solo una: la solita. a volte finiamo per tirarci dietro un vaso, dei piatti; ci buttiamo per terra montando uno sopra all'altro. giù cazzotti sul muso, nel tentativo di spaccare il naso, romperlo e poi ridurlo a poltiglia. quando arriviamo a questa fase la vista del sangue ci esalta, ci fa trovare nuove energie per sopraffare l'altro. potremmo anche ammazzarci a vicenda se non ci fosse qualcuno disposto a fermarci. peccato le volte in cui capitano queste maniache azzuffate siamo sempre soli, dobbiamo e possiamo contare solo sulle proprie forze. dobbiamo auto convincerci a smettere.
è inutile. dice l'altro me che studia la scienza del corpo ma soprattutto della mente. non quello dei vocabolari, perché lui si intrattiene solo con le parole, le studia le controlla, le spacca in due per analizzarne la composizione e il senso: non lui. a fermarci, grazie al cielo, è quello che cerca di capire i meccanismi di causa effetto, quelli che ci portano a fare qualcosa non tanto così per fare, quanto piuttosto perché dietro c'è un intero reticolo di motivazioni. per questo ci dice: è inutile. perché lui lo sa, lo sa benissimo. potete affannarvi quanto vi pare, continua, picchiarvi per giorni e giorni interi, dalla mattina alla sera, fino quasi ad ammazzarvi. non importa. voi volete convincere l'altro a darvi ragione, ma non ce la farete mai. fino a quando non firmerete una specie di armistizio tutta questa faccenda andrà avanti all'infinito. non c'è modo uno di voi due l'abbia vinta.
se sono io quello seduto sopra l'altro me e menar cazzotti, lui si avvicina e dice: puoi anche torturarlo o picchiarlo quanto vuoi, ma lui andrà avanti nel dire che è inutile quello che fai, fino a quando caso mai non si convincerà del contrario. se invece è l'altro me ad essere seduto sopra e a picchiarmi, allora si avvicina allo stesso modo ma dice: risparmia le energie. per quanto tu possa andare avanti lui non smetterà mai di fare quello che fa, perché lo ritiene giusto e smetterà solo e soltanto se e quando se ne stancherà, quando saranno i suoi occhi a non vederlo più come una cosa utile.
detto questo ci supera, camminando piano, ed esce dalla stanza. ci lascia fermi, uno seduto sopra l'altro, senza darci modo di andare avanti. ci pone sempre di fronte alla verità, davanti alla quale è difficile scappare e inutile usare la violenza. la verità è uno specchio, se lo picchi rischi di romperlo e di portarti dietro anni su anni di sfiga.
ci separiamo, per questo. ognuno prende la propria strada, tranquillizzando l'aria tutto attorno a noi. fino a quando non riparte: ti ridono dietro, dice. allora riprendiamo a litigare.

martedì 7 settembre 2010

Sulla confusione, nella confusione, della confusione

aveva talmente tanta confusione in testa da soffocare, quasi. non erano preoccupazioni quanto piuttosto pensieri, ricordi, promemoria, cose da fare, cose da non fare. aveva tracciato un percorso abbastanza dettagliato, capace di portarlo da un punto immaginario A ad un punto altrettanto immaginario B. per fare questo doveva camminare lungo una sottile riga senza mai poggiare un piede a destra o a sinistra di questa riga. lo spazio al di fuori della riga era un burrone, la riga invece era l'unico spazio in cui poteva essere al sicuro. se poggiava la pianta del piede poco fuori la riga, allora sgarrava, e sgarrare equivaleva a cadere nel baratro, perciò era molto più sicuro camminare diligente lungo la riga. si immaginava come un trapezista in equilibrio su di un filo teso sopra al niente.
in quel periodo aveva anche il raffreddore. si soffiava il naso in media due volte ogni cinque minuti: una volta per liberare la narice sinistra, l'altra per liberare la narice destra. arrivava a sera consumando ogni giorno almeno sette pacchetti di fazzoletti di carta. per lui era inevitabile pensare che tutti quegli umori appiccicosi colati fuori dal suo naso non fossero altro che i pensieri confusi intenti a cadergli giù dalla testa. il moccio, in pratica, come lo chiamava quando era bambino e sua madre gli diceva forte: soffia! soffia!, era la materializzazione di ciò che aveva in testa.
per guarire, si diceva, sia dal raffreddore che dal mal di testa di tutta quella confusione, doveva solo mettere un po' in ordine. per questo apriva cassetti, faceva posto, liberava gli armadi.
un giorno prese tutti i calzini ammassati in un cassetto del comò e li stese paia a paia sul letto. li guardò con attenzione, occhio critico, decidendo di quale ne avesse davvero bisogno e quali invece ormai non metteva più neppure per scherzo. fece una bella scrematura, rimanendo alla fine con sette paia di calzini, uno per ogni giorno della settimana. li avrebbe usati con una ferrea rotazione. poi fece la stessa cosa con le mutande, le camicie, i pantaloni, le maglie, le giacche, le cravatte. in questo modo guadagnò lo spazio necessario per prendere tutto quanto avesse in testa e dargli una ben precisa posizione. i sogni, per esempio, decise di metterli nel cassetto del comodino, dove prima teneva le mutande, almeno la notte quando andava a dormire li avrebbe avuti sempre a portata di mano, potendo così scegliere quale sognare di volta in volta a seconda del suo umore. per tutto quanto succedeva ogni giorno, gli altri li chiamavano "ricordi", aveva fatto posto nell'armadio dove teneva i vestiti. la sera quando tornava da lavoro andava in camera, si spogliava per fare una doccia, e dopo essersi lavato tornava in camera e metteva i ricordi rimasti dentro l'armadio.
quando si lavava, dentro il box della doccia, lo faceva usando una rigida successione: prima regolava la temperatura dell'acqua, andandola a testare via via con il dorso della mano (quasi sempre la destra), poi si lasciava bagnare dal getto violento lanciato dal miscelatore. chiudeva l'acqua e prendeva il sapone, strofinandoselo deciso sulle braccia il petto il ventre, il collo, lavandosi ben bene sotto le ascelle. riapriva l'acqua per sciacquarsi, poi passava a lavare la parte al di sotto della vita: le gambe, gli stinchi, i piedi, passando la saponetta con attenzione tra le dita per togliere via tutto lo sporco. alla fine riapriva di nuovo l'acqua, si bagnava, e solo allora si faceva uno shampoo e si dava sul corpo, tutto quanto senza intervalli, un bagnoschiuma al gusto di pesca.
uscito dalla doccia si avvolgeva nell'accappatoio. si abbracciava stretto, strofinandosi per asciugarsi, la frizione della stoffa contro la pelle. per prima cosa i piedi, almeno poteva camminare tranquillo senza lasciare le impronte bagnate ovunque andasse. andava in camera, dove lasciava cadere a terra l'accappatoio, e nudo, nudo, prendeva cosa gli era rimasto addosso e lo riponeva dentro l'armadio.
il bagnoschiuma era solo uno sfizio, non era proprio del tutto necessario. serviva per profumarsi, non per altro. il sapone invece, quello si: era necessario. con quello si lavava via di dosso tutto quanto non era importante, ciò che era successo ma poteva anche scordare senza troppi problemi. i ricordi della stessa vita di una farfalla, quelli che doveva ricordare solo per ventiquattro ore, dopo le quali potevano essere tranquillamente dimenticati. in questa categoria rientravano le telefonate del tipo:
"Cerco la signorina Y."
"Al momento non è in casa."
"Quando posso trovarla?"
"Dovrebbe tornare dopo pranzo."
"Bene, la richiamerò nel pomeriggio."
per tutto il giorno in un angolo della sua mente teneva un appunto per telefonare di nuovo alla signorina Y, ma dopo averla richiamata poteva prendere quel post-it mentale e buttarlo via.
dello stesso tipo erano: ricordati di prendere il pane, ho lasciato l'ombrello appeso all'attaccapanni dell'ufficio, il pasto è nel secondo scaffale dal basso del frigorifero, oggi devo mangiare pasta in quanto a cena mangerò carne. tutte queste cose venivano lavate via dal sapone, perché di posto ne aveva fatto, ma non era infinito. doveva stare attento a quello che voleva ricordare e ciò che invece poteva cestinare per non lasciarselo dentro la testa ad ammuffire nella confusione. dentro l'armadio finivano cose del tipo: la chiacchierata interessante fatta alla macchinetta del caffè con una sua collega, il suo sguardo interessato attratto dalle sue parole, la scintilla fredda scoccata dentro il petto quanto lei aveva chiesto se potevano vedersi una sera per bere qualcosa al di fuori dell'ufficio.
nel giro di qualche settimana, seguendo questa regola di archiviazione, trovando un luogo adeguato per qualsiasi pensiero, mettendo a posto ogni sera tutto quanto avesse sparso per la testa, il raffreddore guarì da solo, senza bisogno di medicine o di aerosol vari. era bastato prendere i pensieri e metterli a posto, non lasciare che questi si materializzassero prendendo la forma del moccio filamentoso dei suoi umori.
il suo medico invece gli aveva detto di prendere l'aspirina.

lunedì 6 settembre 2010

Parole gatti

ho un rapporto un po' conflittuale con le parole: a volte penso siano la più grande invenzione dell'uomo, che con loro si possa fare tutto, qualsiasi cosa; altre volte invece ne ho paura, le temo più del fuoco, della guerra, perché mi si rivoltano contro non appena usate, fanno capire agli altri e a tratti anche a me stesso cose che non volevo dire, si fanno fraintendere, mettono allo scoperto pensieri che dovrebbero invece essere nascosti.
ho un rapporto un po' conflittuale con le parole: alcuni giorni le coccolo, liscio loro il pelo come si fa ad un gatto, e loro rispondono con fusa rumorose, sdraiandosi sulla schiena e lasciandosi grattare la pancia; altri giorni invece mi ingannano, si lasciano toccare solo per poco, giusto il tempo per farmi abbandonare qualsiasi difesa, e poi attaccano con le unghie, andando a dare zampate micidiali sulle mani sulle braccia, facendomi a volte pure sanguinare.
ci sono momenti durante i quali vedo i discorsi trasformarsi in cascate, dove le parole prendono il posto dell'acqua e mi sento capace di scrivere di continuo, come un rullo, senza fermarsi mai, continuare a buttare già parole su parole, tutte quante, una dopo l'altra, e non sentirne mai il peso, la stanchezza; altri momenti invece mi si formano dei grumi solidi grandi quanto sassi, duri e spigolosi, e si fermano proprio all'altezza del pomo d'Adamo: non vanno né in giù né in su, non escono né spariscono, se ne stanno semplicemente lì fermi a pungere l'esofago e a non far passare nient'altro, ostruiscano il passaggio.
"Da dove vengono le parole?"
dipende, rispondo io. se sono di quelle a getto, che nascono così senza pensarci troppo, allora provengono dalla pancia, è da lì che partano per arrivare alla bocca e poi venire sputate fuori. se invece sono parole ragionate, scelte con precisione, allora quel tipo di parole vengono dal cervello, e ti posso assicurare che fanno un gran bel casino a districarsi tra tutti quei cunicoli contorti presenti in quella massa grigia, fanno a gara a chi arriva prima alla bocca, corrono a perdifiato, a volte provocano anche dei tremendi mal di testa, si fanno prima scegliere e poi scartare, sostituire da altre che tutto ad un tratto, ragionandoci un poco sopra, suonano migliori delle precedenti.
è vero questo: dovremmo vivere di mal di testa, farci venire grandi enormi sconfinate emicranie. perchè di parole ce ne sono un sacco, più di quante io te gli altri, tutti quanti messi insieme, potremmo anche solo immaginare. non credo esista nessuno qui, in questo mondo, che possa vantarsi di conoscere tutte quante le parole infinite, che ne sappia il significato o che le abbia utilizzate tutte almeno una volta nella vita. e ogni singola parola ha una precisa sfumatura che la rende unica, indispensabile per completare una frase o un discorso, per far suonare la propria voce o i propri pensieri in modo armonioso, non stonato. bisognerebbe pensare bene alle parole, usarle con attenzione, tenere presente di tutte le possibili scosse sismiche che potremmo causare usando una parola al posto di un'altra, un sinonimo spigoloso al posto di uno invece più arrotondato.
faccio una riflessione: non uso molte parole, non sono un amante di discorsi ricercati, troppo pomposi; non faccio uso di tecnicismi stretti, profondi, dentro i quali perdersi per capirne il significato, parole rischiose capaci di trasformare un semplice sfogo in un discorso ermetico e chiuso. ci sono milioni e milioni di parole che potrei usare e che invece tengo da parte: non voglio rischiare, sbagliare è così facile, usare fischi per fiaschi, preferisco conservarle per un momento migliore, sia di tempi che di conoscenza mia. magari oggi, ora, non sono capace di capirne il senso pieno, totale, preferisco usare parole più semplici, che conosco da tempo, dall'infanzia e che hanno passato con me gran parte della mia adolescenza, aiutandomi a descrivere i miei malumori, i miei sentimenti, oppure quelle cose misteriose che apparivano ogni giorno più nuove, strane, e che cercavo di disegnare ai miei occhi con parole che potevo capire. di queste parole mi fido, mi hanno visto crescere e mi hanno aiutato a crescere. mi sono appoggiato a loro più di una volta, usandole come stampelle per zoppicare via dai guai. non escludo tutte le altre, non le caccio via ad urli e calci, le metto solo in pausa. avrò tempo per approfondirle, conoscerli, stringere loro la mano e berci insieme un bel bicchiere di buon vino rosso. solo ora ho bisogno di parole capaci di farmi le fusa, che mi capiscano, che non mi tendano degli agguati. parole che mi permettano di rilassarmi, stare tranquillo, e non temere di essere graffiato.

giovedì 2 settembre 2010

Agosto 2010


"[...] secondo me divertirsi è sempre una gran bella cosa, non trovi?"
"Non mi sembra che qui attorno ci sia qualcuno che si diverte," disse Susan. "Penso piuttosto che abbiamo imparato a fare un mucchio di rumore e a chiamarlo divertimento."

Michael Cunningham

mercoledì 1 settembre 2010

Sogni

discutiamo spesso della sottile membrana che separa il giorno dalla notte, magari mentre fuori la sera si posa sulle strade e i lampioni iniziano a lampeggiare. o come questa mattina per esempio, quando stavamo ancora dormendo e tu, con i tuoi riccioli pettinati in modo perfetto da apparire quasi disordinati, gli occhi privi di alcun sonno, la stanchezza sgombra e il colore dei capelli che si faceva di un biondo sporco quasi castano chiaro, hai invertito l'orologio, lasciando scattare le lancette dei minuti, le ore, a passo lento verso la sera. di colpo per magia fuori è diventato buio, e non eravamo più intenti a svegliarci ma ci stavamo coricando per cadere in un sonno poco profondo e irto di aculei spine pungiglioni di piacere. ti ho vista mentre ancora un poco sveglia ti sei avvicinata a me, facendo scivolare una mano sotto le lenzuola, hai chiesto: stai dormendo? la tua voce era un respiro, trattenuto a forza, un suono appena percepibile costretto tra le mura di una preghiera recitata a bocca chiusa, dentro la tua testa, ripetevi: ti prego, ti prego. gli occhi mi dicevano ciò di cui non avevi il coraggio. mi parlavano delle spiagge al tramonto, della sabbia fredda quando il sole cala oltre l'orizzonte per tuffarsi nel mare o nell'oceano; i tuoi occhi mi sussurravano frasi al gusto di ciliegia, fragola, vaniglia. mi hai chiesto: dormi? stai dormendo? ed io ti ho risposto accarezzandoti la gamba nuda, dal basso del ginocchio verso l'alto dell'inguine, fino a quando la mia mano non ha incontrato la stoffa delle tue mutande. tu hai chiuso gli occhi, hai respirato attraverso i denti, inclinando la testa all'indietro e usando i tuoi capelli come cuscino con il quale appoggiarti al muro dietro il letto.
è così bello quando non abbiamo bisogno di parole, quando tutto esce e sgorga quasi fosse la più naturale delle sorgenti, acqua limpida che si insinua tra le rocce, crea torrenti, si trasforma in fiumi, acquisisce affluenti e poi si tuffa in un delta di piaceri. altre volte invece le parole sono così necessarie, per zavorrare questi sogni, queste visioni, questi attimi, e per non farli volare troppo in alto, lontano dalle nostre teste, altrimenti rischieremmo di dimenticarcene presto, di perdere il sentiero, smarrire l'orientamento. le parole sono come le molliche di pane lasciate da Hansel e Gretel, ci permettono di ritrovare sempre, ogni giorno quando più lo vogliamo, la strada. abbiamo bisogno delle parole per vestire questi sogni che facciamo, anche quelli ad occhi aperti, o socchiusi, perché i sogni sono trasparenti, sono invisibili, e ben presto, una volta finito il tenue tremore del loro sospiro è difficile riuscire a scorgerli intorno a noi. per questo usiamo le parole, disegniamo loro addosso abiti fatti di lettere: in modo da poterli vedere camminare per strada, o nascondersi dietro ad un lampione mentre sorridenti magari giocano a nascondino con la nostra memoria. i sogni ci escono dalle orecchie fuggendo via da noi stessi alla ricerca di una loro disperata e agognata libertà, e come palloncini gonfiati ad elio salgono su per l'atmosfera cercando di mettere quanto più spazio possibile tra noi e loro. ma le parole, le parole li ancorano a terra, non gli permettono di allontanarsi troppo da noi, lasciandoci la possibilità di riassaporarli quando lo vogliamo, come lo vogliamo. con le parole, anche queste per quanto ti possa sembrare strano, le immagini che il nostro subconscio crea mentre muoviamo frenetici gli occhi sotto le palpebre chiuse, si imprimono a forza, come fuoco sulla pelle, se non nel cervello cervelletto o midollo spinale, sinapsi tra sinapsi, fiocchi di collegamenti nervosi, almeno sulla carta, sull'etere; in un posto sicuro dove noi le possiamo sempre trovare.
per questo sono qui a parlare, scrivere: non per chissà quale motivo egocentrico nel quale mi vedo trasformato nel birillo rosso del tavolo da biliardo centrale del bar più famoso della piazza rossa di Mosca, ma solo per ricordo, puro e semplice. non voglio perdermi per strada la tua espressione, noi due avviluppati tra le lenzuola, io ad arrampicarmi su di te in passaggi striscianti come un serpente, su per le gambe, attorcigliato con lingua mani e bocca al tuo seno, tu che ti appoggi sulla testata del letto inarcando la schiena quasi a farmi più spazio, lasciando il passaggio, e rapita da un orgasmo che ti sfiora soltanto il ventre, invece di afferrarti violento le viscere come vorresti tu, come attendi con impaziente vibrazione di farti cogliere e cadere cosciente in una sindrome di Stoccolma così agognata da fare quasi piangere per il suo ritardo, quando speri e speri, guardi l'orologio di continuo e non pare mai passare il tempo, sempre sul punto di esplodere, esplodere in fuochi mille d'artificio, con la miccia danzante in bilico sul filo che non finisce mai di bruciare; e quando arriva, arriva in un suono di sterminata impazienza, dove le note più alte sono squilli di trombe e di urla e di soddisfazione e di arrivo, di felicità, di acqua dissetante dopo una corsa spossante, di riposo di piacere di tutto e di niente; sono una ballata tranquilla, sono schitarrate violente, sono leggeri arpeggi e pesanti martellamenti di batteria.
lascia stare le mie parole, che sono mie e mie soltanto. agghindo le mie visioni in modo beffardo, quasi pacchiano, per fare in modo da renderle buffe, pure incomprensibili - ne sono conscio, cosa credi? - per fare in modo che la gente, gli altri, le guardi passare e rivolga loro magari solo un sorriso, una risata trattenuta. le mie visioni le voglio spogliare solo io, e una volta svestite delle parole rimangono i ricordi, quelli si più precisi di quanto non riesca qui a descrivere. perché i sogni rischiano di evaporare, ma con le parole diventano più duraturi, e per quanto sappia che rileggendo tutto questo anche solo tra qualche settimana non sarà mai preciso e vivido come quando mi sono svegliato del tutto e tu non c'eri ma c'eri ancora a linee tratteggiate dentro la mia testa, in quella zona del mio cervello adibita ai sogni che si possono sognare solo alle sei del mattino, quando ti sei già un poco svegliato e ti lasci cadere di nuovo all'indietro tra le braccia di Orfeo; anche se so che non sarà mai come in quell'istante, che non potrò rivivere e risognare quello stesso preciso sogno, mi lascio sedurre da questa infantile convinzione, che con le parole un poco ci riuscirò: se non del tutto almeno in parte.