venerdì 29 ottobre 2010

Family Tree

though devotion is gone,
it lingers on, as you can't
break a bond so long;
and, in the meantime,
you get clean
as you take your time,
tracing the bloodline
through flesh on the vine

under the family tree,
beyond the leaves you can't see
(and how unwillingly)
you let your seeds grow-
there they go,
leaving you to sow
bereft are your leaves,
beset with weeds

and, in your descendancy,
define a picture of needs
that should never have been
no, they should not,
cos it was
not created for you
to empty your blood upon-
you got your own

and i feel empty,
as i see i'm not much farther.
you run for cover with the island daughter;
here in your mirror, we're getting smaller.
and it's healthy,
but it's killing me to bother
you run, full of the feathers of a father,
a sister, brother; now me, your mother

Performed by Sandro Perri

giovedì 28 ottobre 2010

I romantici

non voglio essere romantico. i romantici muoiono di diabete, ripetevamo sempre. ti ricordi quando mi dicesti: niente canzoni d'amore. pioveva, anche se era piena estate. eravamo fuori, in mezzo a un prato, e la prima cosa che ci venne in mente fu quella di ripararsi sotto un albero. i fulmini avrebbero potuto colpire il mio braccio, riflettemmo dopo, oppure prenderci in bocca per colpa delle otturazioni, scherzammo una volta finito il temporale. non eravamo molto diversi da ora, anche se qualcosa è sicuramente cambiato. l'atteggiamento, per esempio, lo stato d'animo. allora eravamo arrabbiati, sempre, per qualsiasi cosa. pensavamo fosse il modo giusto di affrontare il mondo, o una semplice giornata: incazzati. oggi invece riusciamo a gestire la nostra rabbia, a sfruttarla quando è possibile, a conservarla per momenti più neri o grigi - comunque scuri - e non sciupare giorni altrimenti felici.
quando sei triste, ora, dici di essere un po' infastidita da questo nostro atteggiamento. non credo sia giusto vivere a compartimenti stagni, come facciamo noi, mormori poco prima di dormire, inscatolare le giornate storte tutte quante in una singola porzione di noi stessi e tenerle separate da tutto il resto. noi, se siamo noi, siamo più liquidi di così. ci mescoliamo in continuazione, andando ad annacquare i nostri malumori, o macchiando in modo irrimediabile le giornate piene di sole.
quando sei così vorrei aprire il braccio sinistro come un ala, passartelo attorno alle spalle, da sotto la testa, e accudirti fino a quando non ti passa. è una chimica complicata da capire, il tuo umore.
e non venirmi a dire che tutto questo esercizio di separazione della felicità dalla tristezza, si chiama diventare grandi, o adulti.
metti il broncio, brontoli, non mi lasci controbattere.
mi pare di essere una massaia degli anni cinquanta, intenta a riporre la spesa ordinata dentro la credenza. la cioccolata in alto a sinistra, insieme alle risate; la pasta con gli scazzi vari; la verdura in frigorifero accanto ai momenti da congelare, quelli che ancora non so come prendere. non ti pare sia tutto troppo schematico? mi domandi. non ti prende lo sconforto quando ti rendi conto di esserti costruito attorno delle regole alle quali non riesci in nessun modo ad obbedire?
in certe occasioni, qualsiasi cosa rispondessi, sbaglierei, sempre. non c'è una risposta giusta o sbagliata, neppure tu lo sai mentre me lo domandi. forse vuoi soltanto trovare una diversità tra me e te, qualcosa che ci separi, che ci renda diversi. un pretesto per continuare a spiegarti.
una volta, forse proprio durante quel pomeriggio piovoso in mezzo al prato, mentre eravamo sotto l'albero ad aspettare smettesse di piovere, ti dissi che noi tendiamo sempre a cercare di spiegarci, agli altri ma anche a noi stessi. non è un caso, secondo me, l'uso di questo termine: spiegarsi. perché siamo un po' come dei panni appallottolati in un angolo, o almeno lo sono certi nostri pensieri. cerchiamo di spiegarci non solo nel senso di farci intendere, ma anche nel senso di toglierci le pieghe, stirare via le grinze che abbiamo dentro.
e cosa succederà quando ci saremo stirati tutti? mi domandasti con un mezzo sorriso, guardando in alto verso il cielo. ci aspetterà l'illuminazione?
non credo riusciremo mai a spiegarci tutti. siamo talmente vasti, pieni di insenature, parti che neppure conosciamo ma che ci sono lo stesso, tipo quegli alberi che cadono in un bosco anche se non c'è nessuno che ne ascolta il rumore. per spiegarci tutti, soprattutto a noi stessi, ci metteremmo un'eternità.
le regole sono fatte per essere infrante, ti rispondo. non so ancora se ci credo oppure no, a questa mia affermazione, ma voglio aiutarti. voglio che tu continui a diventare liscia, a distendere la tua personalità, se non tutta almeno il più possibile. farti capire a te stessa. farti capire quei lati che ancora non hai esplorato in modo conscio.
no, non è vero. almeno non per tutte. le regole sono regole, sono dei contorni obbligatori. sbaveremmo fuori se non ne rispettassimo almeno alcune.
quando eravamo sempre arrabbiati ci guardavamo spesso dritti negli occhi. giocavamo al gioco del silenzio. chi rideva per primo o parlava perdeva. io resistevo al massimo per una manciata di minuti. alla fine ti dicevo: mi sono perso negli occhi, e mi sono perso per sempre. non eravamo romantici allora. ci definivamo fuorilegge. se qualcuno ci imponeva una regola, noi ci divertivamo a disobbedirla, a maltrattarla, fare finta non ci fosse, questa regola.
ecco in cos’altro siamo cambiati da quando mi dicesti: niente canzoni d'amore.
pensi che finiremo come i rocker? - mi domandi. - che nascono piromani e muoiono pompieri?
non lo so. rispondo io. credo che di spiegarci non finiremo mai. soprattutto perché più che panni appallottolati o lenzuola disfatte, coperte sulle quali dormiamo ogni notte, siamo piuttosto fili attorcigliati. prima di iniziare ogni volta dobbiamo trovarci il capo. ma penso anche che mi fai stare bene, e che mentre cerchiamo insieme di districare tutti i nostri fili mi piace quando le mie dita si annodano alle tue senza rendermene conto.

venerdì 22 ottobre 2010

Futile Devices

It's been a long, long time since I've memorized your face
It's been four hours now since I've wandered through your place
And when I sleep on your couch I feel very safe
And when you bring the blankets I cover up my face
I do love you
I do love you

And when you play guitar I listen to the strings buzz
The metal vibrates underneath your fingers
And when you crochet I feel mesmerized and proud
And I would say I love you, but saying it out loud is hard
So I won't say it at all
And I won't stay very long
But you are the life I needed all along
I think of you as my brother
Although that sounds dumb
Words are futile devices

Performed by Sufjan Stevens

giovedì 21 ottobre 2010

Quando passano i treni: noi ci scansiamo

ho sempre i capelli unti quando dici di lavarmeli. shampoo balsamo e spazzola, ma i nodi non si sciolgono, rimangono nascosti sotto. allo specchio sembro un cane bastonato, occhiaie lunghe scure e brune. quante stizze ho per te? quanti ricci per ogni tuo singolo capriccio? ma cosa ne vuoi sapere te, mi rispondi guardando l'orologio, dei quadri appesi storti, dei soffitti di cemento, dei tetti con l'amianto che hanno tolto solo pochi giorni fa da casa mia. non sai risponderti neppure per te a tutti quanti gli interrogativi banali di cappelli, gli occhiali con la montatura fine, le lenti colorate, i fili scoperti che fanno contatto soltanto a vederli. cosa ne sai te degli uomini in tuta bianca che sembravano vestiti contro le radiazioni, delle mascherine che pensavo esistessero solo in giappone. cosa ne sai dei pensieri buttati già dalle finestre con i paracaduti difettati, anche se stiamo appena al terzo piano, non hanno tempo materiale per potersi aprire. non c'è tempo materiale da potere vendere, subaffittare.
e mentre lo dici appendi alla parete una nuova scatola di scarpe. la prima volta che entrasti in casa strappasti via dal muro la carta da parati, per poterne mettere una nuova diversa e tua. tutta colorata, fluorescente, tridimensionale che sporge in fuori, ci batti sempre contro, impossibile evitarlo, ci urti con i piedi, ci tiri calci involontari con i mignoli negli spigoli. è una torre di babele, una piramide di pisa. appena la tocchi crolla in modo impressionante, sparpagliando per terra tutto il contenuto delle scatole accatastate. i tuoi ricordi, i tuoi rimpianti, i tuoi pezzetti di passato. scontrini autostradali, ricevute di negozi, i menù rubati ai ristoranti, i biglietti da visita per le visite guidate per spiegarci i nostri stessi pensieri. ma noi scappiamo via non appena la guida tenta di illuminarci davanti a un quadro del tardo quattrocento, sui motivi nostri e soltanto per cui il pittore ha scelto determinati colori, anziché gli ori. corriamo via veloci per i corridoi degli uffizi, fino a romperci il fiato contro le vetrate, con il fiatone appanniamo i vetri e ci disegniamo sopra fiori margherite e cuori.
ti tremano le dita, dici con un sussurro. per questo le linee vengono tutte quante curve, piene di interruzioni, punto pausa pausa punto. sei così sensuale quando parli sottovoce. il problema è stato dirtelo appena ho potuto, invece di aspettare o ingoiare, ignorare.
per questo urli e te ne vai, sbattendo via la porta. lasciandomi da solo con tutti questi indizi insipidi, che non sanno di niente. mancano di sale, ma se ci fosse il sale ci sarebbe bisogno anche delle ferite. chi credi metterà di nuovo a posto, tutto questo gran casino. non ho davvero bisogno di te e di tutti i tuoi problemi, che scaraventi di nuova all'aria quelle cose che pensavo di aver ordinato e messo finalmente da parte. credi per caso ci stia bene, in mezzo a tutta questa confusione.
ma il problema non è questo, perché poi non riordinerà nessuno. noi amiamo più di ogni altra cosa il disordine, più dei litigi e dei pensieri. prendiamo lo scotch per appiccicare i pezzi stesi male di tutti quanti i tuoi passati. li attacchiamo per formare un tappeto elastico sul quale saltare felici come niente fosse, come non fosse successo niente. ignoriamo qualsiasi cosa, le urla le grida, le cicatrici risarcite con un corso di taglia e cuci fatto per corrispondenza. il nostro tappeto rosso dove camminiamo fingendo di essere vecchi e famosi attori, quando invece lavoriamo nelle toilette per cani, gatti e topi. noi che passiamo le serate a parlare e fumare sulle terrazze di appartamenti disossati, nella periferia di firenze sud. io che maledico la tecnologia, questa grande bugia ci salverà la vita. te che invece sbuffi e tremi. e finiamo come sempre a guardare i treni passare ma a non salirci mai.

mercoledì 20 ottobre 2010

India

quando ballavamo lontani perché più stretti c'erano le indigestioni di entrambi a ostacolarci, e scambiavi ciò che volevo dire ma non dicevo per rutti sputati tra i tuoi capelli. quando a due chilometri da prato est i cartelloni autostradali ci avvertivano di traffico intenso fino a firenze, dicevi che l'auto faceva scintille pazze contro il guardrail. non arriveremo mai in india ad aprire una pizzeria, ripetevi, di questo passo. sei sette otto. chissà quanto costa il casello, tra qui e nuova delhi, ci domandavamo. avremmo dovuto dare via tutti i nostri ricordi per pagare il pedaggio. tipo la volta che pensavo di aver capito qualcosa, e qualcos'altro, e invece in realtà non avevo capito un cazzo. perché prima devi capire te, ripetevi. oppure quando ci avevano tagliato la corrente a tutti e due e non sapevamo dove andare a passare la notte, c'era buio ovunque, sia da me che da te, centrare il divano era così difficile, rischiavamo ad ogni passo di cadere su dei materassi. e tu nel frattempo incurante non smettevi di preparare le valige, riempiendole di quante più cose possibili, porta ceneri, carillon, porta foto, fotografie, guide per riconoscere i propri santi, e i propri incubi, cartine per orientarsi nel momento del bisogno, dieci domande al buddah per cercare la via dell'illuminazione. ti preparavi ogni giorno per espatriare, india arrivo, come un mantra ripetuto appena prima di dormire. avevamo già comprato i biglietti del treno, perché in aereo non era bello, volare sopra i confini anziché correrci sopra. eravamo in autostrada verso la stazione, quando io ti dissi che non ce la facevo. non potevo privarmi dei ricordi, me lo impone la mia dieta. i robivecchi, i mercatini dell'usato, non fanno per me. cioè, lo fanno, ma solo per acquistare, non per vendere. non posso partire. anche questo, non potrei mai sopportare di vederlo su di un armadio stinto, in mostra a chi ci cammina accanto, con attaccato il prezzo al pubblico, le voci dei possibili compratori, è conveniente. vorrà dire, ti dissi, che avrò ricordi anche per te. ma tu avevi già dato via tutto, pure me. mi avevi già dimenticato.

martedì 19 ottobre 2010

Following


Following è un bozzolo, un seme dentro il quale oggi è possibile vedere tutto il cinema di Nolan, dai particolari minimi insignificanti, come i nomi dei personaggi (Cobb), a quelli involontari e impossibili da immaginare (l'adesivo di batman sulla porta dell'appartamento del protagonista). C'è lo stesso montaggio, frammentato, dove la storia non procede lineare da un inizio a una fine, ma viene portata avanti in base alle idee del regista. Idee che verranno sviluppate poi in modo diverso con Memento e successivamente con il recente Inception, dove l'intreccio delle vicende non è mai una strada dritta sulla quale correre in avanti, ma da percorrere a marcia indietro in Memento, e a sbalzi di memoria in Inception.
E se in quest'ultimo c'è la trottola, in batman ovviamente i pipistrelli, qui l'oggetto, l'emblema del film è la scatola. Tutti hanno una scatola. Nolan pensa già in slogan, e riempie l'oggetto scelto se non di tutto il senso della pellicola almeno di una parte significativa.
Oltre a un film godibile rimane impressa negli occhi la voglia presente in questo esordio di stupire, di quanto Nolan fremesse per esplodere, trattenuto però in questo caso dai mezzi. Con un pizzico di qualcosa in più a disposizione la deflagrazione è stata tremenda. E bella.

lunedì 18 ottobre 2010

Una preghiera

oh signore mio dio, sapevo di peccare, ma dovevo anche stare pur sempre sveglio in qualche modo stamattina. presto o tardi sarebbero arrivati i risvolti di un errore così grave, ed ero consapevole sarebbero pure arrivati presto, piombando affamati come falchi sulla propria preda, perché non c'è peggior sbaglio di sbagliare essendo coscienti di sbagliare.
mi ero detto di non caderci ancora e invece ci sono caduto ancora e ancora, di nuovo, sempre e comunque, al di là di qualsiasi promessa o tentativo. quanto cretino e stupido e maligno nel volersi far del male, demolendo paesaggi interiori spazzati via da un soffio alitato male.
sapevo di peccare, mio signore, eppure ho peccato ugualmente, e se non meno addirittura di più, spingendo forte su quello che non dovevo fare e invece ho fatto. stigmate a zigzag, ecco con cosa dovrebbe colpirmi, piaghe purulenti.
oh signore, cosa devo fare per purificarmi fino al midollo? come mai vi accanite così forte su di me, la mia persona fatta di carne e non solo di spirito? a volte pare facciate tutto per farvi odiare, mettete di fronte a un vostro fedele devoto uno specchio e gli disegnate addosso tutte quante linguacce possibili maligne affinché lui perda la fede. non vi siete reso conto che come umanità, l'essere umano è capace di appiccare fuochi ben più alti del paradiso? un solo unico vero cristiano c'è stato al mondo, frutto del seno vergine della nostra santissima madonna della chiarezza, e siamo stati capaci di crocifiggerlo.
ma se è questo ciò che vuole, se davvero agogna più dell'acqua santa alla parità dei sessi, delle situazioni, dei saluti inchini chini, chiedendo con queste impiccagioni alte su per l'albero una diversificazione al contrario, dove i buoni diventeranno i cattivi e i cattivi rimarranno cattivi, questo è ciò che avrà. mi raggrinzerò come un pezzo di carta stropicciata chiusa da un pugno duro, le unghie conficcate con forza contro il palmo. l'accartoccerò ben bene questo foglio di carta, tanto da non doverlo neppure più buttare via, gettare nell'immondizia, la raccolta differenziata dei prego, mi scusi, perdoni. batterò con sassi le porte e i vetri di chi con me non è stato. le colpe diventeranno talmente tutte uguali a loro stesse da non poterle neppure più distinguere, fare di tutta l'erba un fascio. l'ossigeno, al diavolo l'aria e l'inferno dove sicuramente brucerò, ma dovrò sintetizzare il litio per poterlo buttare già a boccate, unico mangime disponibile nella mia situazione, riempirmici i polmoni fino a farli scoppiare. e non sentire niente. anestesia completa con occhi aperti e opachi.
sono stanco di vomitare, signore mio iddio. stanco di far esplodere dentro una bomba dopo l'altra. sa cosa rimane quando la prima deflagrazione lascia il posto alla seconda? niente. e quando il niente viene ridotto ancora a più minimi termini da una terza esplosione? niente e più denso niente. se davvero voleva che lo seguissi, il mio credo, non credo che mi avrebbe dato così tante prove da superare, in cui cadere, con le quali ferirsi, morire. sono già resuscitato una volta e ho finito i miracoli a mia disposizione. finché non pescherò dal mazzo delle carte delle probabilità, mi sentirò spento e non mi sentirò più.

giovedì 14 ottobre 2010

L'estate dei miei vent'anni

‘fanculo l'estate dei miei vent'anni. pensavo di avere capito tutto quando invece non avevo capito un cazzo. come sarebbero cambiati i giorni, quegli stessi e quelli dopo, se solo avessi saputo di questa mia ignoranza. avrei affrontato le cose più o meno armato, invece di procedere nudo senza alcuna difesa su strade cosparse di sale. oppure avrei fatto gli stessi identici errori, nonostante sapessi a cosa mi avrebbero portato, perché magari avrei saputo quale fosse la scelta giusta e quale invece quella sbagliata, solo che scegliere una direzione davanti a un bivio non tira in ballo solo il giusto o lo sbagliato, il buono e il cattivo, il bene e il male, il lato chiaro contro il lato oscuro. sarebbe troppo facile. il diavolo sa di essere malvagio.
l'estate dei miei vent'anni è stata invece soleggiata, senza neppure un temporale estivo. sembrava essere la perfezione, il bel tempo steso sopra il bel paese. quanti problemi erano scavati in fondo tra le radici? quanti scheletri sono poi affiorati dal terreno a forza di camminarci sopra consumandolo? i problemi c'erano pure all'ora, come ci sono anche adesso per chi ha vent'anni oggi, ma sembravano di cartapesta a confronto con quelli di questi giorni. bastava piangerci un po' sopra per farli subito bagnare, renderli friabili, deboli; oppure prenderli a cazzotti con violenza, affrontarli decisi ad avere la meglio, con le buone o con le cattive, andarci a parlare di corsa con le forbici in mano, pronti a farli a brandelli tagliuzzando via via gli angoli. quelli di adesso invece sono più subdoli, hanno memoria storica di come mi sono comportato in passato, imparano loro stessi dai loro stessi errori. vincerli non è più così facile come era un tempo. se mi presento di fronte a loro con delle forbici in mano, otto volte su dieci loro mi rispondono con un sasso. e le due restanti volte si tratta solo di fortuna.
troppo spesso dimentichiamo che crescere non significa solo migliorare, maturare, cambiare, farsi delle idee proprie su argomenti sempre diversi, scegliere una strada che ti appassiona e condividerla con altre persone a te affini che ti influenzeranno e ti faranno inconsciamente cambiare in micro aspetti di tutto il tuo essere, contribuendo in questo modo, volenti o nolenti, alla tua personale crescita - cosa che magari farai pure tu nei loro confronti, intrecciandovi così in un rapporto di dare e avere che si perde nella trasformazione di un rapporto più profondo, dove la distinzione dei diversi gesti evapora lasciando posto alla naturalezza con la quale si abbattono le distanze, o le barriere che separano l'io dall'altro, unire i propri continenti, eliminare i confini politici-. crescere significa anche raffrontarsi con problemi che, incredibile ma vero, sono cresciuti insieme a te, sono maturati, sono cambiati. illudersi di dovere o potere affrontare gli stessi identici problemi di quell'estate soleggiata dei vent'anni di chiunque equivarrebbe a voler crescere in altezza mantenendo però le stesse braccia, mani e gambe di quando avevamo cinque anni. i problemi sono parte di noi, e chi dice il contrario è soltanto qualcuno pronto a mentire pur di tranquillizzare il prossimo. i problemi vanno trattati proprio come le braccia, le mani e le gambe. ritrovarsi a trenta quaranta cinquant'anni con le stesse mani di quando invece ne avevamo quindici, avere il busto grande e spesso di un uomo ma le braccia corte ed esili di un ragazzo, i pensieri di un adulto ma la faccia di un bambino, come ci fossimo divertiti a prendere i bambolotti della nostra infanzia smontandoli degli arti e rimontandoli gli uni sul corpo degli altri, creerebbe un certo imbarazzo: tutti noterebbero quel qualcosa di strano, di fuori posto, quel qualcosa che non andrebbe.
i problemi sono una parte di noi, inutile ignorarli. siamo noi stessi a crearli, sono una specie di secrezione spontanea che il nostro corpo produce di fronte alle varie situazioni. in natura , oltre l'uomo, i problemi non esistono. risolverli non vuol dire schiacciarli, pestarli, prenderli a pugni, ucciderli, quanto piuttosto parlarci, confrontarsi, scioglierli - i nodi alle scarpe li sciogli perché vuoi mantenere intatti i lacci, non li bruci, così come non puoi bruciare i problemi, altrimenti si perderebbero anche le situazioni - assorbirli come assorbi l'adrenalina, o l'acido lattico.
per capirlo devi passare per forza da molte estati, non solo dei vent'anni. prima lo capirai e prima riuscirai a goderti le estati al loro completo, comprese quelle brutte. comprese anche quelle con molti temporali.

mercoledì 13 ottobre 2010

Tu, io e Vasco Brondi

mi sono sempre chiesto come facesse a non piacerti vasco brondi, illuminato dalle sue luci della centrale elettrica, tra la musica, i suoi testi. dicevi di non sopportarne il modo di cantare, così urlato. no, ripetevi quando lo sentivi iniziare alla radio, di nuovo uno che urla. ma io non ti credevo. a me piaceva talmente tanto. pensavo bastassi solo io a farcelo piacere a entrambi. ti avrei prestato volentieri un po' del mio gradimento, tu in cambio mi avresti dato la sensazione che ti donavano alcuni gruppi strani di cui io non avevo mai sentito parlare. ragionavo così: il piacere o non piacere lo misuravo a livello di persone, con un numero. a me piace tizio, a me piace caio. il livello di piacere, così lo chiamavo nella mia testa, aumentava di una unità ogni volta che qualcuno, in modo conscio o inconscio, ripeteva dentro di se: mi piace tizio, mi piace caio. se qualcuno invece diceva: mi piace tizio, ma non mi piace caio, allora tizio si staccava, guadagnava punti, mentre caio rimaneva fermo al palo. tre a due per tizio, la corsa può riprendere. e così via.
in questo mio strano gioco non contavano i decimali, i numeri a destra della virgola, oppure le opinioni espresse sempre dopo la virgola. così se qualcuno diceva: mi piace tizio, ma mica poi tanto tanto, a referto andava soltanto il mi piace tizio, un punto, senza contare quello detto dopo la virgola, il ma mica poi tanto tanto, quelli erano i decimali. in questo gioco, ti dicevo, il punteggio è un numero intero, non c'è spazio per le frazioni. a tenere conto di certi giudizi si rischierebbe di complicare i calcoli, andando a lavorare con i tre quarti, i quattro quinti, dieci sedicesimi. bisognava velocizzare, essere concisi.
per questo era inutile che io mi dicessi: a me piace vasco brondi, ma talmente tanto tanto. per quanto potessi sforzarmi, o aggiungere parole numeri dopo la virgola nel tentativo di avvicinarmi il più possibile all'unità successiva, al due, io avrei contato solo per uno. avevo un solo voto e non potevo farlo valere il doppio. così pensavo bastasse tu dicessi a te stessa: a me non piace vasco brondi, anche se c'è gente molto peggio in giro. in termini di numeri questo giudizio non sarebbe stato poi tanto negativo, forse si poteva tradurre in uno zero virgola tre, virgola quattro. da solo, ignorando la parte dopo la virgola, il tuo voto sarebbe stato solo zero, nullo, ma se ti avessi prestato il mio virgola nove nove nove nove nove nove all'infinito, ovvero il resto del mio giudizio sottratto dall'unità che avevo già dato, insieme saremmo arrivati ad un abbondante uno, e a questo punto al diavolo quel che restava a destra della virgola.
poi l'altra sera, primi di addormentarmi, mi sono reso conto di come avrei potuto donarti tutto quanto il mio gradimento per vasco brondi senza però spostare di un millimetro la tua opinione su di lui. non si tratta di piacere o non piacere, di darti una mano a fartelo piacere, o di aiutarti nel cercare di farlo. a te molto probabilmente non piacerà mai vasco brondi, neppure se te lo dessi da mangiare imboccandoti, seduta al tavolo, con il bavaglino.
si dice spesso di un artista, di una persona: non ci sono vie di mezzo, o lo si ama o lo si odia. in questo caso io lo amo mentre tu invece lo odi, e sinceramente penso sia molto più facile per l'amore trasformarsi in odio, che non piuttosto il contrario, l'odio in amore. per questo mi sono messo a pensare al motivo per cui io lo amo, cercando di riflesso il motivo per cui tu lo odiassi. è come un continente, la reputazione che si ha di una persona, l'africa per esempio. alla fine ci sono arrivato. ci siamo entrambi su questo continente, sia tu che io, solo che io sono affacciato sulle coste che danno sull'oceano del piacere, mentre tu sei dall'altra parte, dalla parte opposta, sulle coste bagnate dall'oceano del non piacere. io in mauritania e tu in somalia, o viceversa. il motivo per cui io lo amo è lo stesso per cui tu lo odi: l'africa, ovvero i testi. vasco nelle sue canzoni racconta di vite proprio come quelle che vorrei vivere io, quelle sognate. quando lo ascolto sento il racconto dei giorni possibili peggiori migliori, disegnati con le parole che io non riesco a trovare. quando lo ascolti te invece senti il ripetersi di giorni che a differenza mia tu hai già vissuto. le sue canzoni parlano di amori stesi sui pavimenti, di case in affitto in cui sdraiarsi abbracciati, di letti condivisi, di sigarette su sigarette (e invidiamo le ciminiere perché hanno sempre da fumare), di tramonti a cui avete dato fuoco, di futuri inverosimili, di trip rincorsi su motorini elaborati, di carta stagnola, dei garage a milano nord. io guardo quei giorni con le lenti rosa, tu con le lenti normali.
forse c'è un codice di comportamento tra le persone come te e vasco, ovvero quello di non raccontare mai come sono i giorni che vivete, per non fare ubriacare gli altri, come me, di vite che non ci appartengono, di situazioni dentro le quali non possiamo entrare perché non ne abbiamo il passaporto. ci farebbero male, voi lo sapete, andremmo subito in overdose, forzando il fisico a raggiungere livelli per noi improponibili. forse è questo il motivo per cui odi vasco brondi, il motivo per cui non ti piace: perché lo vedi come un criminale, colpevole di aver infranto una delle poche regole che avete.
e lo so di essermi spiegato a cazzo, come sempre, ma avevo questa cosa qui e mi premeva di dirti quello che ho capito, anche se non me lo hai detto ci sono arrivato da solo, dopo tanto. mi sembra di essere stato così bravo, quando invece per te era tutto così semplice.

martedì 12 ottobre 2010

Verso Casa

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Shay sorrise e si incamminò verso l'ufficio, passando a elencarmi le regole d'oro per la sopravvivenza e per fare carriera: non fare nulla se non quando sei assolutamente obbligato a farlo; non prendere mai nessun tipo di decisione; scarica sempre la responsabilità su qualcun altro; ricorda sempre che anche se rimani in ufficio fino a mezzanotte, nessuno ti pagherà mai un minuto di straordinario; ricorda che soltanto i tuoi errori saranno accuratamente annotati e macchieranno il tuo curriculim in modo indelebile; ricorda sempre che i tuoi superiori considereranno ogni tuo tentativo di cambiare qualcosa una minaccia nei loro confronti. Soltanto chi fa meno degli altri ed evita ogni decisione, farà carriera: ecco perché Mooney, che passava la giornata a leggiucchiare l'Irish Times seduto a quella scrivania invasa dalle carte, era a capoi di un'intera sezione, mentre Carol, che si dava un gran daffare e mandava avanti l'ufficio da sola, addossandosi anche il lavoro che lui si rifiutava di fare, non sarebbe mai stata promossadalla sua mansione di tuttofare-aiuto in seconda. Aveva commesso l'errore fatale di rendersi indispensabile e avrebbe continuato a sgobbare per Mooney fino a quando lui non se ne sarebbe andato in pensione, e un giovane laureato incravattato sarebbe venuto a modernizzare l'ufficio, passandole davanti.

Pensavo alla cena che mia madre mi aveva preparato, ormai incollata al piatto, la carne rinsecchita, le verdure asciutte e raggrinzite. Poi Shay mi parcheggiava un'altra pinta davanti e scacciava quel pensiero dalla mia mente. Cominciavo a capire come Shay potesse sopravvivere all'ufficio senza rancori né amarezza: per lui si trattava di una parentesi, di otto ore di riposo prima di entrare nel suo vero mondo.

"Hai paura, Hano?" gli domandò improvvisamente.
"Si."
"Allora vengo con te. Perché anch'io sto morendo di paura."

Quel turco gli aveva detto che ovunque si vada si porta sempre la propria casa dentor di sé. Allora essa è più reale di quanto non apparirà quando vi si farà vivo ritorno, poiché non può cambiare e non si può essere trasformati vedendola.

Si inginocchiò e lentamente cominciò a muovere la lingua in mezzo alle sue cosce, prima in una direzione, poi nell'altra, descrivendo dei cerchi da cui sgorgavano cascate di caolre che la sommergevano, finché Katie incominciò a tremare dalla testa ai piedi.

"E' un errore lasciarsi prednere dal sentimentalismo. Il passato è fatto di momenti belli e di momenti brutti e, soprattutto, è passato."

"Sai una cosa, Hano?", disse Shay. "Mi mancava questo schifo di posto. E' strano, vero? Non è necessario che un posto ti piaccia, perché tu ne senta la mancanza. [...] Come si fa ad andarsene da un posto, se poi devi continuare a portartelo dietro?"

Dermot Bolger

lunedì 11 ottobre 2010

Settembre 2010


"Si conobbero. Lui conobbe lei e se stesso, perché in verità non s’era mai saputo. E lei conobbe lui e se stessa, perché pur essendosi saputa sempre, mai s’era potuta riconoscere così."

Italo Calvino

venerdì 8 ottobre 2010

Like Rock & Roll And Radio

Are you still in love with me
Like the way you used to be or is it changing?
Does it deepen over time like the river
That is winding through the Canyon?

Are you still in love with her?
Do you remember how you were before the sorrow?
Are you closer for the tears
Or has the weight of all the years left you hollow?

Are we strangers now?
Like the Ziegfeld Gal and the Vaudeville show?
Are we strangers now
Like rock and roll and the radio?
Like rock and roll and radio

I can see you lyin' there
Tying ribbons in your hair and pullin' faces
I can feel your hand in mine
Though were living separate lives in separate places

Are we strangers now?
Like the Ziegfeld Gal and the Vaudeville show?
Are we strangers now?
Like rock and roll and the radio?
Like rock and roll and radio

All these white lies hanging like flies on the wall
Hard wired, road tired
Counting curtain calls and waiting
Waiting for the axe to fall

Are you still in love with me
Like the way you used to be or is it changing?
Does it deepen over time, like the river
That is winding through the Canyon?

Are we strangers now?
Like the Ziegfeld Gal and the Vaudeville show?
Are we strangers now?
Like rock and roll and the radio?
Like rock and roll and radio

Performed by Ray LaMontagne and the Pariah Dogs