giovedì 21 ottobre 2010

Quando passano i treni: noi ci scansiamo

ho sempre i capelli unti quando dici di lavarmeli. shampoo balsamo e spazzola, ma i nodi non si sciolgono, rimangono nascosti sotto. allo specchio sembro un cane bastonato, occhiaie lunghe scure e brune. quante stizze ho per te? quanti ricci per ogni tuo singolo capriccio? ma cosa ne vuoi sapere te, mi rispondi guardando l'orologio, dei quadri appesi storti, dei soffitti di cemento, dei tetti con l'amianto che hanno tolto solo pochi giorni fa da casa mia. non sai risponderti neppure per te a tutti quanti gli interrogativi banali di cappelli, gli occhiali con la montatura fine, le lenti colorate, i fili scoperti che fanno contatto soltanto a vederli. cosa ne sai te degli uomini in tuta bianca che sembravano vestiti contro le radiazioni, delle mascherine che pensavo esistessero solo in giappone. cosa ne sai dei pensieri buttati già dalle finestre con i paracaduti difettati, anche se stiamo appena al terzo piano, non hanno tempo materiale per potersi aprire. non c'è tempo materiale da potere vendere, subaffittare.
e mentre lo dici appendi alla parete una nuova scatola di scarpe. la prima volta che entrasti in casa strappasti via dal muro la carta da parati, per poterne mettere una nuova diversa e tua. tutta colorata, fluorescente, tridimensionale che sporge in fuori, ci batti sempre contro, impossibile evitarlo, ci urti con i piedi, ci tiri calci involontari con i mignoli negli spigoli. è una torre di babele, una piramide di pisa. appena la tocchi crolla in modo impressionante, sparpagliando per terra tutto il contenuto delle scatole accatastate. i tuoi ricordi, i tuoi rimpianti, i tuoi pezzetti di passato. scontrini autostradali, ricevute di negozi, i menù rubati ai ristoranti, i biglietti da visita per le visite guidate per spiegarci i nostri stessi pensieri. ma noi scappiamo via non appena la guida tenta di illuminarci davanti a un quadro del tardo quattrocento, sui motivi nostri e soltanto per cui il pittore ha scelto determinati colori, anziché gli ori. corriamo via veloci per i corridoi degli uffizi, fino a romperci il fiato contro le vetrate, con il fiatone appanniamo i vetri e ci disegniamo sopra fiori margherite e cuori.
ti tremano le dita, dici con un sussurro. per questo le linee vengono tutte quante curve, piene di interruzioni, punto pausa pausa punto. sei così sensuale quando parli sottovoce. il problema è stato dirtelo appena ho potuto, invece di aspettare o ingoiare, ignorare.
per questo urli e te ne vai, sbattendo via la porta. lasciandomi da solo con tutti questi indizi insipidi, che non sanno di niente. mancano di sale, ma se ci fosse il sale ci sarebbe bisogno anche delle ferite. chi credi metterà di nuovo a posto, tutto questo gran casino. non ho davvero bisogno di te e di tutti i tuoi problemi, che scaraventi di nuova all'aria quelle cose che pensavo di aver ordinato e messo finalmente da parte. credi per caso ci stia bene, in mezzo a tutta questa confusione.
ma il problema non è questo, perché poi non riordinerà nessuno. noi amiamo più di ogni altra cosa il disordine, più dei litigi e dei pensieri. prendiamo lo scotch per appiccicare i pezzi stesi male di tutti quanti i tuoi passati. li attacchiamo per formare un tappeto elastico sul quale saltare felici come niente fosse, come non fosse successo niente. ignoriamo qualsiasi cosa, le urla le grida, le cicatrici risarcite con un corso di taglia e cuci fatto per corrispondenza. il nostro tappeto rosso dove camminiamo fingendo di essere vecchi e famosi attori, quando invece lavoriamo nelle toilette per cani, gatti e topi. noi che passiamo le serate a parlare e fumare sulle terrazze di appartamenti disossati, nella periferia di firenze sud. io che maledico la tecnologia, questa grande bugia ci salverà la vita. te che invece sbuffi e tremi. e finiamo come sempre a guardare i treni passare ma a non salirci mai.

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