venerdì 30 luglio 2010

Get me away from here I'm dying

Ooh! Get me away from here I'm dying
Play me a song to set me free
Nobody writes them like they used to
So it may as well be me
Here on my own now after hours
Here on my own now on a bus
Think of it this way
You could either be successful or be us
With our winning smiles, and us
With our catchy tunes and words
Now we're photogenic
You know, we don't stand a chance

Oh, I'll settle down with some old story
About a boy who's just like me
Thought there was love in everything and everyone
You're so naive!
They always reach a sorry ending
They always get it in the end
Still it was worth it as I turned the pages solemnly, and then
With a winning smile, the poor boy
With naivety succeeds
At the final moment, I cried
I always cry at endings

Oh, that wasn't what I meant to say at all
From where I'm sitting, rain
Falling against the lonely tenement
Has set my mind to wander
Into the windows of my lovers
They never know unless I write
"This is no declaration, I just thought I'd let you know goodbye"
Said the hero in the story
"It is mightier than swords
I could kill you sure
But I could only make you cry with these words"

Performed by Belle and Sebastian

giovedì 29 luglio 2010

Che ne è stato di te, Buzz Aldrin?

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La persona che ami è fatta per il 72,8% d’acqua e non piove da settimane.

Perché è capitato anche a te, di esserti innamorato di qualcuno della tua classe, il primo o il terzo giorno di scuola, e lo spazio diventa infinitamente ristretto, stare nel banco diventa imbarazzante, non c’è un punto su cui puoi fissare lo sguardo, perché se guardi lei, o lui, se ne accorgono tutti, e se guardi da un’altra parte, il muro, per esempio, al di là di chi ti interessa, verso la lavagna, come se lei o lui non esistesse, anche allora se ne accorgerebbero e penserebbero che non sei normale, a startene lì a far finta che non te ne importa niente. Perché non si può nascondere. Sei trasparente. Sei come cellofan. E altrettanto fragile.

Non avevo parlato con lei nemmeno quel giorno, non so come mai, non trovavo l’occasione, probabilmente avevo una fifa matta. Pensavo a cosa sarebbe potuto accadere. Al rischio di diventare un elemento di preoccupazione nella sua vita, di disordine nel mio mondo. Al pericolo che tutto deragliasse e l’acqua diventasse improvvisamente profonda.

Venerdì.
Bisogna stare attenti ai venerdì.
Promettono molto.
Come certi trailer dei film.
Ma è raro che siano all’altezza delle aspettative.
Quasi tutti i venerdì sono solo banali sequel.

Con passo rigido raggiunsi il retro del palco, scesi le scale e tornai nello spogliatoio delle ragazze, mi sedetti accanto ai miei vestiti, aprii la visiera, mi piegai in avanti e vomitai sul pavimento, il vomito usciva a fiotti, a conati violenti, mi inginocchia i e mi svuotai sulle piastrelle, il vomito scorreva verso le docce in onde vischiose di birra, vino e alcol scuro, tutto quello che avevo accumulato quell’autunno.

E la primavera del 1979 decisi: sarei scomparso là fuori nella folla, sarei stato il numero due, uno che si rendeva utile invece di cercare di farsi notare, che faceva quello che gli chiedevano di fare. Ma questa naturalmente è solo una riflessione a posteriori, il tentativo di inchiodare il vero punto di partenza di una vita. È solo nella finzione, nei film e nei romanzi, che si può stabilire l’istante esatto del cambiamento. Nella realtà la scelta arriva strisciando, il pensiero si forma a poco a poco

Più amici metti insieme, più saranno i funerali a cui finirai di dover andare.
Più persone da rimpiangere quando scompariranno.
Quanto più ti esoni, tante più pietre potranno tirarti.
Ma chi è solo delude solo se stesso.
Questo, pensavo.

A cosa pensava Buzz Aldrin, la notte prima del lancio? Domani sarò nello spazio. Sarò uno dei primi uomini là fuori, troveremo la luna

Certe notti dormire è impossibile. Impossibile convincere il cervello a rallentare.

Stai cercando te stesso? Pensa se quello che trovi non ti piace, e devi viverci per il resto della vita.

Ho trent’anni di vita da cancellare. Nessuno ha così tante gomme.

Era un’attività che oltretutto rendeva l’assurdità imbarazzante.

Dissi che non avevo intenzione di partire e quasi rimasi male quando vidi com’erano contenti di sentirlo, quanto in fretta le persone diventano dipendenti le une dalle altre.

Cominciammo a pensare che sentirsi in buona salute potesse rappresentare un sintomo di malattia in sé.

I tuoi contorni che diventano più sottili, il profilo più vago. Ma non sei ancora scomparso del tutto. Ci vuole tempo. Anni. Però scompari. Scompari a te stesso, diventi un altro ogni giorno che passa. Non sei più quello che eri un tempo. Le microscopiche cellule che compongono il tuo viso sulle fotografie che i tuoi genitori tengono appese in soggiorno non ci sono più, sostituite da nuove. Non sei più quello che sei. Eppure sono sempre qui, gli atomi si scambiano di posto, nessuno più controllare le acrobazie dei quark. Idem con quelli che ami . che a una velocità quasi insensibile ti si sbriciolano tra le braccia, e tu vorresti afferrare qualcosa di durevole in loro, stringere lo scheletro, aggrapparti ai denti, alle cellule cerebrali, ma non puoi, perché è quasi tutta acqua a cui è vano pensare di tenersi stretti.

Salì in macchina.
“Sofia è morta”, disse solo.
Non mi sorprese sentirlo. Probabilmente me l’aspettavo. Prima o poi. Ciò nonostante mi sentii affondare, e pensai che questo è il prezzo che si paga per voler bene alle persone.
E non c’è niente di più irrimediabile.
Assolutamente niente.

Pensai alle cose che avevo letto. Che i moribondi perdono tutti i sensi nei minuti che precedono la morte. Uno a uno. Prima il gusto, poi l’odorato. Poi scompare la vista. Il tatto. L’udito. La percezione del dolore. Come spegnere le luci uscendo dall’ufficio a fine giornata, chiudere la porta e perdere le chiavi sulla via di casa.

Johan Harstad

mercoledì 28 luglio 2010

Conquistare un territorio

c'è un confine piuttosto labile tra ciò che uno si aspetta e ciò che invece poi alla fine avviene. e per conquistare questo pezzo di terra instabile che si perde spesso nello stesso tempo durante il quale di notte ci si accorge di iniziare a dormire, l'essere ancora svegli ma cominciare lo stesso a sognare, non puoi immaginare quante guerre vengano combattute, quanto sangue venga versato, a volte inutilmente, per spostare la lancetta di ciò che accade da uno a dall'altra parte.
generali di varia natura passano ore e ore seduti dentro le proprie tende nell'accampamento sopra colline al riparo dalla battaglia vera e proprio, lontano da tutti gli spari e dalla confusione del fronte, per poter partorire in santa pace una strategia di attacco che sia degna della vittoria. spostano mentalmente i propri uomini, le proprie intenzioni, muovendo tutto quanto come pedine di un gioco a tratti più grande pure di loro, del loro mondo, delle terre da prendere. sparano all'impazzata quando sono presi dalla paura, perché a volte avviene, si, di sentirsi con le spalle al muro e di non avere più una via di uscita, di vedere la fine inevitabile distesa nell'erba fredda e priva di vita; e in questi momenti qualsiasi uomo si lascia prendere dal panico, una sensazione talmente incontrollabile da offuscare pure i pensieri, capace di far calare la nebbia non nelle valli dei teatri dei combattimenti quanto piuttosto nella testa di coloro che invece dovrebbero riuscire a vedere tutto quanto con nitidezza. invece: le figure si fanno sempre più indistinguibili, i loro contorni si perdono tra il paesaggio, ogni cosa diventa secondaria, non si riesce a mettere a fuoco niente, se non il terrore, quello si, che galoppa a grandi falcate verso il centro della tua testa, andandosi a tuffare alla base del naso, tra occhio destro e occhio sinistro, dove idealmente si incontrale le tue sopracciglia, e graffiando e ruggendo e sbranando la pelle per cercare di entrarti in testa; vedi questa belva feroce che ha come unico obbiettivo il tuo cervello, ed in questo preciso momento istante che il panico ti afferra per le spalle, ti volta per guardarti in faccia e ti bacia di un bacio bagnato cercando con la lingua quel tasto magico perso in bocca capace di bloccare del tutto la ragione. e quando ci riesce, quando ci riesce è il caos sparso in tutto il tuo corpo che fuoriesce in onde dirompenti: è una diga che rompe gli argini e devasta tutti i paesi ai suoi piedi; è il diluvio, è l'alluvione, è il cataclisma finale di confusione totale.
si inizia a sparare alla rinfusa, senza un minimo di criterio, come a voler trivellare il cielo con le pallottole; si dà ordine di aprire il fuoco con i cannoni per poter devastare, sconfiggere; si ordinerebbe all'aviazione di sorvolare il campo di battaglia e sganciare bombe h a ripetizione, se solo si potesse disporre di aerei e bombe h e possibilità di viaggiare nel tempo per rubare progressi tecnologici e portarli dove più ci servono.
ma così facendo si va ad ammazzare una massa indistinguibile di corpi che cadono via via al suolo. il conto dei nemici uccisi si confonde con il numero degli amici o alleati perduti per sempre e non è possibile dividere, fare una statistica o un censimento dettagliato; ordinare corone di fiori per le vedove, mandare cartoline di commiato, spargere lacrime a volti che il fuoco ha reso così irriconoscibili. il tutto per conquistare un confine che è in continuo movimento, e un giorno è qui, un giorno è là, e ogni giorno che passa ci sarebbe da conquistare una nuova collina, o un nuovo campo, o una nuova città: una nuova ragione, e non regione.

martedì 27 luglio 2010

Fantasia invisibile

è l'immagine che dai alle altre persone che conta. anche se poi i saggi ti diranno l'esatto contrario, che ciò che conta non è ciò che appare ma ciò che in fondo sei, questo è vero solo per te. gli altri si devono accontentare di quello che dai loro. non possono mettersi a scavare senza permesso, di loro spontanea volontà, rischiando magari di essere arrestati per violazione di proprietà privata. e quale altra proprietà privata ci potrebbe essere se non se stessi?
sei tu a decidere cosa lasciare passare al confine del tuo privato e il tuo pubblico. qualcuno potrebbe anche usare un po' la fantasia, cercare di decifrare alcuni atteggiamenti e forse anche capire davvero cosa significhino: svestire i gesti dell'apparenza per arrivare alla sostanza; ma la fantasia è sempre pericolosa quando viene applicata alla realtà, o per lo meno a quella parte di realtà che si cerca di celare o di nascondere. potrebbe benissimo indicare situazioni o luoghi distanti anni luce dai posti dove invece ti trovi.
per questo di solito la fantasia non viene utilizzata da sola, ma viene supportata da altri fatti, altri gesti. viene sorretta da quella che si chiama esperienza. la fantasia diventa una specie di capanna che per rimanere su si appoggia all'esperienza. il tutto per cercare di capire alcuni atteggiamenti o alcune situazioni. ma proprio come una capanna, come le due case costruite dai due porcellini sprovveduti della fiaba, basta poco per buttare giù tutte queste supposizioni. un colpo di vento, un soffio, un urlo gridato con più violenza.
anche se poi dici di no, se ripeti: non farci caso. no no, assicuri. è l'immagine che dai agli altri che conta. perché le rassicurazioni si basano sulla fiducia, ma le rassicurazioni hanno anche un valore commerciale che varia a seconda delle oscillazioni del mercato, e possono anche rasentare quasi lo zero, soprattutto quando la fiducia viene spesso rotta e quella sottile trama che è si assottiglia sempre di più, di più, rendendola quasi invisibile; la fiducia.
le persone possono esprimere giudizi solo in base a quello che vedono, che sentono, che provano (sulla propria pelle). hanno bisogno di elementi sui quali ragionare, su cui basare le loro opinioni, le loro argomentazioni. l'invisibile è qualcosa di vago, di non definito. tutto può essere invisibile. ogni cosa è invisibile e nella sua invisibilità può assumere qualsiasi forma: triangolo, quadrato, cerchio. l'invisibile è solo un falso nascondiglio dietro il quale potersi accucciare sperando di non esser visti. l'invisibile è una scusa e non puoi portarlo in tribunale per testimoniare, a differenza dello spettro visibile.
non puoi pretendere che le persone credano a ciò che non vedono. quella si chiama fede, e io non sono credente.

lunedì 26 luglio 2010

La differenza

lo scotto più grande da pagare non è la verità o la realtà, quanto piuttosto la differenza. da piccoli ci hanno insegnato la matematica con le pere o le mele, semplici similitudine: ho cinque mele e ne regalo due ad un amico, quante mele mi rimangono? solo dopo, molto dopo, sono arrivati i calcoli da fare in modo astratto, sostituendo le mele con nomi di variabili; ma la sostanza in fondo non è mai cambiata. con il passare del tempo le funzioni, i numeri, le operazioni con le quali andavamo a trasformare tutte queste cifre, è diventato via via tutto quanto più difficile, ma è anche vero che allo stesso tempo proprio noi stessi con il passare degli anni diventavamo sempre più difficili.
da bambini quando cadevamo e ci sbucciavamo le ginocchia vedevamo uscire il sangue. pensavamo in modo molto sereno e chiaro sotto la pelle ci fosse solo sangue, che in fondo non fossimo altro che enormi sacche di liquido rosso e quando noi, questi grandi sacchetti della spesa, ci rompevamo in un punto ciò che avevamo dentro gioco forza dovesse uscire fuori fino a quando non avremmo sistemato la ferita, o lo strappo. poi però c'è stato qualcuno che è caduto con più violenza, o è andato a sbattere con più forza contro un palo, un mobile, il terreno stesso, e di punto in bianco abbiamo scoperto le ossa. vedevi questo tuo amico a giro per il parco con il braccio avvolto in un gesso bianco, sul quale di solito lui ti chiedeva di scriverci qualcosa, disegnarci, o porci la tua firma. un mese di gesso perché si era rotto un osso del braccio.
un osso? chiedevamo stizziti noi. cosa diavolo è un osso? e da lì i nostri genitori o le maestre iniziavano a spiegarci tutto l'apparato osseo, dando così un senso a quegli scheletri che vedevamo nei film dell'orrore e facendoci capire che non si trattavo di animali particolari senza pelle, ma eravamo in fondo noi, dentro.
poi è arrivato il turno dei muscoli, i tendini, il sistema cardiocircolatorio, con il quale abbiamo scoperto che il sangue non era buttato là a riempire i vuoti che avevamo dentro, ma che procedeva seguendo determinate strade, incolonnato nel traffico arterioso o venoso; anche perché, ora che ci penso, a trenta anni passati, so bene che dentro non abbiamo nessuno spazio vuoto.
ci siamo riempiti bene bene, stando attenti a non lasciare neppure un millimetro quadrato di niente. ci siamo colmati con quanta più roba possibile, e non è che abbiamo utilizzato gomma piuma o quel simpatico materiale da imballaggio con il quale ci divertivamo a far scoppiare tutti quei piccoli palloncini. no. abbiamo utilizzato via via materiale sempre più strano e vario, andando a scavare tra tutto quanto imparavamo ogni giorno: ci abbiamo messo dentro legamenti, menischi, pleure, membrane più o meno spesse. e adesso non c'è più solo sangue, c'è tutto quanto un bel casino in più. così come in matematica: non ci sono più solo sottrazioni o addizioni.
la sostanza però non cambia. può essere più o meno difficile, ma alla fine ciò che si cerca è sempre una soluzione, un risultato da mettere con abbastanza sicurezza a destra dell'uguale. c'è poi chi è più ferrato in matematica e certe equazioni se le mangia a colazione, come ripeteva spesso una mia professoressa delle superiori, e chi invece si deve dannare l'anima per cercare di sopravvivere in mezzo a tutti questi numeri, di riuscire in qualche modo di rimanerci a galla. la difficoltà, quella vera, pesante più della gravità o di certi pensieri che puoi fare, è quando una volta che ti sei convinto che la matematica non è una opinione ti ritrovi davanti alle prove di quanto invece in fondo lo sia. perché la differenza è quella che brucia più di qualsiasi altra cosa, quando sottrai mele e ti ritrovi con delle pere, quando capisci che il tuo risultato non è lo stesso delle altre persone con le quali hai condiviso il test, quando ti accorgi magari di aver fatto degli errori qua e là, in uno o due passaggi; quando ti rendi conto che il valore che hai assegnato ad una variabile, x, non è quello che gli altri gli hanno assegnato, e questo a portato te a proseguire in una strada mentre gli altri ad andare avanti lungo un'altra. x maggiore di dieci, x minore di dieci. alla fine puoi arrivare ad un risultato positivo, o a uno negativo. basta una virgola per sbagliare e dare la risposta errata, figuriamoci dieci, dico dieci numeri di differenza.
per questo è la differenza ciò di cui bisogna aver più paura. sarà sempre quella con cui dovrei fare i conti e sempre più spesso i conti non torneranno. non avrai mai problemi con la realtà, che in fondo è una costante, o con la verità, che altro non è che il risultato; i veri problemi li avrai sempre e comunque, anche se poi paradossalmente arriverai alla soluzione giusta, con le variabili, con l'assegnazione dei valori a queste variabili. saranno loro a determinare la differenza tra quello che poteva essere se avessi usato un determinato numero e quello che poteva essere se avessi invece usato un numero diverso, anche se diverso di poco. è la differenza tra il risultato a cui sei giunto e quello a cui saresti potuto giungere.
puoi sembrare strano, ma in fondo è proprio così. so di essermi spiegato a cazzo, ma è così.

venerdì 23 luglio 2010

Expectations

Monday morning wake up knowing that you’ve got to go to school
Tell your mum what to expect, she said it's right out of the blue
Do you want to work in Debenhams, because that’s what they expect
Start in lingerie, and Doris is your supervisor

And the head said that you always were a queer one from the start
For careers you say you want to be remembered for your art
Your obsessions get you known throughout the school for being strange
Making life-size models of The Velvet Underground in clay

In the queue for lunch they take the piss, you’ve got no appetite
And the rumor is you never go with boys and you are tight
So they jab you with a fork, you drop the tray and go berserk
While your cleaning up the mess the teacher is looking up your skirt

Hey, you’ve been used
Are you calm? settle down
Write a song, Ill sing along
Soon you will know that you are sane
You’re on top of the world again

Monday morning wake up knowing that you’ve got to go to school
Tell your mum what to expect, she said it's right out of the blue
Do you want to work in C&A, cause that’s what they expect
Move to lingerie and take a feel off Joe the store man

Tell Veronica the secrets of the boy you never kissed
She’s got everything to gain cause she’s a fat girl with a lisp
She sticks up for you when you get aggravation from the snobs
cause you cant afford a blazer, girl you’re always wearing clogs

At the interval you lock yourself away inside a room
Head of English gets you, asks you, what the hell do you think you’re doing?
Do you think you’re better then the other kids? well get outside.
You’ve got permission, but you’ve got to make the bastard think he’s right

Hey, you’ve been used
Write a song, Ill sing along
Are you calm? settle down
Soon you will know that you are sane
You’re on top of the world again

Are you cool, and you know
You’re a star and you’ll go far
Think of me as a friend
Not just a boy who’s playing guitar
You’re on top of the world again

Performed by Belle and Sebastian

giovedì 22 luglio 2010

Meduse e Tappeti

Le meduse arrivano con il caldo. Hai mai visto un mare popolarsi di meduse d'inverno? No, perché loro sono attirate dal calore delle acque estive. Vorrei esserne così sicuro anche io, come lo sei te, tanto che hai annuito con la testa, magari hai pure pensato: già, è vero; ma io mi pongo dei dubbi e mentre tu ti domandi se per caso non abbia ragione facendoti quella domanda, mettendoti un po' con le spalle al muro, io invece mi chiedo: mi sono mai messo a guardare il mare d'inverno? Si, ti risponderei o mi risponderei. Io amo il mare d'inverno, forse anche più di quello d'estate; ma quando lo guardo a novembre o a gennaio lo guardo sempre da lontano, non da dentro, e mi fermo a meravigliarmi delle onde tempestose che il mare scaglia contro gli scogli o della furia con la quale bagna la spiaggia priva di ombrelloni; non ci sono mai stato d'entro di novembre o di gennaio. Magari pure in quei mesi freddi ci sono le meduse, è solo che noi non ce ne accorgiamo perché non le vediamo, o perché non le andiamo a cercare.
Lei aveva una paura fottuta delle meduse. Non era come I. che si metteva a guardarle con la maschera sott'acqua, che le indicava ad un palmo dal naso. No. Lei era proprio terrorizzata da questi…animali? Si possono chiamare animali? O c'è un termine migliore per definirli? In fondo sono composti per la maggior parte solo d'acqua, ma è anche vero che pure noi per il settanta per cento siamo fatti d'acqua.
In qualsiasi caso: lei aveva paura delle meduse, e quando cominciavano a invadere il mare, come i carrarmatini del risiko iniziavano a ogni partita a invadere il Kamchatka, non c'era verso di convincerla di fare il bagno: potevi trascinarla in acqua, tirarla come si potrebbe tirare un mulo per le redini, facendole strisciare i piedi sulla sabbia - e non appena passavi c'erano i bambini che utilizzavano i solchi scavati dai suoi talloni per farci correre le loro biglie. Un tempo dentro le biglie c'erano le foto dei ciclisti, adesso magari ci sono i modellini delle macchine di formula uno, oppure: non lo so proprio cosa ci possa essere ora dentro le biglie, e neppure so più se i bambini di questi tempi ci giochino ancora con le biglie in spiaggia. - ma era tutto quanto inutile. Se riuscivi a buttarla in mare lei riprendeva l'equilibrio, si sistemava il costume e poi con passo deciso usciva dall'acqua senza più voltarsi indietro, dritta sicura verso le docce fredde dove andava a sciacquarsi via ogni pericolo.
Diceva che io la invitavo ogni anno a venire al mare solo per poterla guardare in costume, vederle la pancia o poterle appoggiare di tanto in tanto la mano su una coscia nuda. Non ho mai avuto il coraggio di dirle che in fondo aveva ragione solo per metà, che era vero: la invitavo ogni anno al mare solo per poterla guardare, ma solo questo, punto. Non certo per guardarla nuda, o semi vestita. A me bastava guardarla, poterla osservare, solo questo. Che fosse poi in bikini, con una gonna, o con una tutta da meccanico completamente imbrattata d'olio, per me poco importava. Il sorriso, bastava quello per rendermela importante, o gli occhi, la bocca che più di ogni altra cosa avrei voluto baciare fino a perdermici il fiato. Non so se mai lo abbia capito questo, o se abbia fatto solo finta di stare al gioco, di dire qualcosa per poter ridere e ridere insieme a me che un po' mi vergognavo di questa cosa perché allo stesso tempo mi scocciava mi vedesse come tutti gli altri sbavanti ubriaconi di scopate in giro, quando invece io davvero bramavo ed avevo sete più della sua compagnia che non tanto della sua fisicità, o almeno non solo.
Non voglio essere bugiardo, più di quanto non lo sia di solito. Non posso dire non mi piacesse abbracciarla, stringerla o accarezzarla; anzi, era una goduria, una vera e propria goduria adolescenziale, qualcosa che mi portava ad un passo dal precipizio e non mi faceva saltare, non mi faceva cadere.
Ma poi vengono le meduse, con il caldo, ed insieme a loro i ricordi. Ci sono alcuni ricordi che sussurrano all'orecchio destro, altri invece all'orecchio sinistro. E' difficile prestare attenzione a tutti quanti. C'è sempre il rischio di stare a sentire nel momento sbagliato, ascoltare quelli della parte destra nel momento in cui sarebbe meglio, molto meglio, ascoltare invece quelli che ti parlano dalla parte sinistra, o viceversa. Così non sai mai come muoverti, dove muoverti, in che direzione, con quali gesti. Perché ci sono ricordi che ti parlano in positivo, che ti dicono che certe cosa devono pure avere un significato, che ad ogni effetto corrisponde una causa, e dietro ad ogni causa c'è un motivo; mentre altri invece ti raccontano della casualità, di come certe azioni vengono fatte soltanto per tenersi su, o per il semplice passare del tempo; perché il tempo passa e non ci può mai essere un minuto uguale a quello precedente o a quello passato magari un anno prima. E allora, allora i ricordi sono un po' come le meduse: sono fatti quasi del tutto d'acqua, non hanno una consistenza vera e propria, e allo stesso tempo possono esserci sempre, in mare, solo che noi a volte non li cerchiamo e per questo non li vediamo.

mercoledì 21 luglio 2010

C'è confusione

e scriveremo in modo confuso lettere anonime che mai spediremo, alternando gli sprazzi, gli strazi, solari di emozioni sempre più vere sempre più genuine agli sbagli di umori neri come la pece ed il cielo d'inverno. ce ne fregheremo degli errori della punteggiatura della sintassi della grammatica tutta, privilegiando l'urgenza di dire fare baciare lettera testamento, perché se sono qui, ora adesso oggi e nell'ora della nostra morte, è solo perché mi son preso del tempo, un ritaglio affettato con le forbici da tutto un telo da mare steso nella giornata, per vomitare - si hai capito bene: vomitare, rigetto - tutto quello che ho dentro che frulla in modo pazzesco per uscire fuori, per far capire qualcosa: cazzo!
lasciamo da parte i rimorsi i morsi le ferite le scatole di chi si pensa migliore e si veste o si sveste per rendere al meglio, turchese nelle proprie fate e ignorante nei propri atteggiamenti; chi cade da un pulpito e chi da un piedistallo, chi si costruisce uno scalino, basso per carità per non farsi troppo male dopo. dio! liberaci da questo male, estirpalo fuori, fallo sanguinare; ma fai qualcosa, ti prego ti scongiuro. ti prometto porterò in dono ogni mio più bel dono possibile ed immaginabile, sfornerò ave Maria di preghiere degne di nota, biscotti da consegnare ai buoni samaritani, a chi si presenta alla mia porta vestito solo di stracci e di elemosina. vivrò di questo, di tutto e di più.
scioglimi le parole dalla bocca perché rischio di annegare in questo modo, anche perché più frasi vado scrivendo pensando dicendo maledicendo tanto più stretto si fa quel nodo al collo che altri chiamano cappio, mentre a me pare solo eterna confusione: questa.

lunedì 19 luglio 2010

Diamanti

ho steso gli abiti da respirare, quelli fatti e andati a male; gli orologi e i momenti, ne ho fatto un fascio e li ho spenti. così come il cielo fatto di cobalto, l'ho accartocciato ma non l'ho pianto. e le sirene come animali, distese in gabbia a sanguinare; gli uccelli chiusi in voliere, sempre più grandi, sempre più nere. i giorni i mari, tutti quanti interi, che a raccontarli ci metteremmo mesi. i fiori e l'erba, i doni e i papaveri; le bucce marce, le camminate stanche. gli occhi chiusi, gli occhi aperti; i sogni attesi, i sogni dispersi. passiamo le notti a cercarli, questi battiti di passi fatti bianchi. li ricordiamo solo a pezzi, le parti belle, le parti struggenti. e quando poi finiamo male, allacciamo le braccia al posto degli stivali. gridiamo al mondo guardando fuori, sputiamo in aria desideri e cuori. ci bruciamo mani, gambe peni e seni, sforzandoci di rimanere seri. ingoiamo merda, sangue, dolore e pene, convinti poi che lo facciamo in fondo per il nostro bene.
ho incontrato gente, persone stanche, che mi domandavano quanto fosse importante affilare i coltelli per accoltellare il tempo; quanto senso avesse perdersi nel mentre; se fosse più bella l'azione stessa, o invece la preparazione ad essa. le ho guardate fisse, dritte negli occhi. le avrei volute prendere per mano, farle fare un tour, accompagnarle lontano. lasciarci dietro pensieri e ombre, dirle che in fondo non so affatto quanto sia profondo questo mare, che nel fondale vivono animali strani e fatti male, sbrilluccianti al buio, luminosi quanto il sole intero. avrei voluto riuscire a dire tutto, spiegargli il bene, spigargli il brutto. saper rispondere ad ogni domanda, fare la figura di persona colta; quando invece il primo ad essere ignorante sono proprio io e mi ritrovo sempre qui davanti.
ho detto a tutti, a tutti quanti, di non pensarci, di andare avanti. che non importa quel che si crede importante, perché in fondo tutto non è altro che un diamante. un diamante bello, di gran valore; un diamante che scompone i colori in arcobaleno; ma se lo guardi bene, senza farti illudere o raggirare, si tratta pur sempre in fondo di una pietra qualsiasi attraversata dalla luce. quindi non fatevi domande, ho risposto loro, perché noi tutti quanti siamo dei bellissimi diamanti.

venerdì 16 luglio 2010

Little Pieces

There's a piece of me you can't have
And I know it's driving you mad
There's a part inside you can't reach
I'm afraid that's the way its gonna be
There's a part of you that wants to fight
But I never really had the appetite
I fear my feelings wont speak
words are already taken upon the breeze
wind is always blowing

pieces falling from me
you can have them for free
now it felt so complete
pieces falling from me

though you try your best you never find
there are pieces that are left behind
last piece of the jigsaw
while the others are scattered across the floor
so you try to get them all up
there are pieces falling in the dust

there's a pile of ash we don't need
leave it to be taken upon the breeze
wind is always blowing

pieces falling from me
you can have them for free
now it felt so complete
pieces falling from me

all this background noise
its crowded
never tell
its half the reason why they're there
its hard to make another plan

theres a fine line what you want and what you need
standing right there in between
never been there
never

pieces falling from me
you can have them for free
never felt so complete
never be what you need
something missing from me
that i'll never complete
there the last ones complete
pieces falling from me

Performed by Gomez

giovedì 15 luglio 2010

Mi manca

mi manca tornare a casa e trovare tutte le stanze piene fino all'orlo dell'odore dell'acetone. le tue unghie cambiavano colore vestendo sempre la stessa tonalità. e quella volta che uscimmo lasciando il gas aperto e quando tornammo accendemmo un fiammifero per vedere meglio la serratura dove infilare la chiave ed esplodemmo tutti per aria in brandelli di braccia di gambe di petti e teste e cuori? l'intero quartiere scoppiò in una nuvola di fumo color cenere, e noi in mezzo a tutte quelle lacrime eravamo contenti perché almeno avremmo colto l'occasione per rimontarci meglio, prendendo le parti che più ci piacevano per collezionarle e scartare via quelle che invece proprio non sopportavamo. di cuori, dicevi, di cuori è sempre meglio averne due tre quattro cinque, uno per ogni occasione, perché non si sa mai quando ti si può rompere, o quando lo lasci da qualche parte, magari solo dieci minuti su una panchina, oppure quando lo presti a qualcuno e questo qualcuno lo fa suo come se niente fosse e non te lo rende più. gli stomaci, gli stomaci, dicevo io: quanti più stomaci ti porti dietro e quante più farfalle potrai catturare. vorrei avere una voliera di stomaci, desideravo a volte. ma te dicevi che di stomaci ne volevi solo uno, uno basta e avanza, perché quando ti si stringe e non riesci a mangiare, quando sei così eccitata da non avere più appetito, proprio per niente, allora in quel momento tutti gli altri stomaci diventano inutili, e alla fine, se ci pensi bene, dicevi, non fanno che occupare spazio, spazio prezioso. strane cose sono gli stomaci, mi facevo serio allora io.
gli intestini, ad esempio. gli intestini, sia i crassi che i tenui, nessuno dei due li voleva. erano tutto un attorcigliarsi confuso, pieno di merda poi alla fine, che non faceva altro che confonderti ancora di più, come se non lo fossimo già di nostro, confusi.
quando arrivarono i pompieri quella volta dell’esplosione noi eravamo seduti a gambe incrociate, ne avevamo trovate tre paia che ci piacevano davvero molto, poco lontano dalla porta di casa. c'era tutta questa fuliggine, che ci pioveva addosso, e le autopompe arrivarono a sirene spiegate, facendosi largo tra la nebbia di cenere, mentre noi non facevamo altro che chiedere ai pompieri dove fosse grisù. dov'è grisù, urlavamo. ma loro non ci prendevano in considerazione, tutti intenti a giocare lì con l'acqua, quando ormai il fuoco non si era spento del tutto ma sembrava ormai innocuo, quando non poteva più fare male a nessuno.
mi mancano poi le sere che passavamo seduti una sull'altro sul divano in salotto, con la televisione accesa solo per fare da sottofondo al nostro parlare. tu mi dicevi: raccontami, ed io iniziavo a raccontare; ma non una storia, una storia qualsiasi, bensì cominciavo a raccontare te, mescolando i ricordi, rimodellandoli con le immagini più strane, spostandoli da un posto all'altro senza stare troppo a filosofeggiare sulla congruenza o sull'esattezza di ciò che dicevo. d'altronde, tu insistevi sempre nel dire che io rendevo meglio quando ero sotto sforzo, che quando ero in affanno non stavo troppo a pensare e le parole, le frasi, i periodi, tutto quanto mi scendeva veloce così spontaneo dalla testa fino alla bocca per poi straripare senza filtro oltre le labbra.
per questo a volte mi domando se mai passando da queste parti, anche solo per caso non certo per cercarmi, ti accorgerai che io non faccio altro, altro se non continuare a raccontarti, raccontarti di continuo, quasi ti stessi respirando. ogni giorno una storia, ogni giorno una parte di te: uno ad uno ogni singolo cuore. e tutte sera vado a correre, convinto magari che una volta o l'altra riuscirò pure a raggiungerti, prima o poi.

mercoledì 14 luglio 2010

Un luogo del calcio

I negozi non si trovano più dove erano prima. Alcune strade sono diventate sensi unici, mentre altre sono apparse dal nulla, andando ad asfaltare prati dove da bambini andavamo a giocare. Il primo campo da calcio, quello più vicino casa, nel quale ho iniziato a tirare calci ad un pallone e a riceverne sugli stinchi, è stato trasformato in un parcheggio e il giovedì e il sabato viene invaso dai banchi del mercato. All'altezza del cerchio di centrocampo c'è ora una grande aiuola leggermente rialzata, mentre in memoria delle aree di rigore ci sono due strisce di verde dove sono stati piantati un paio di piccoli alberi.
Ricordo le vecchie tribune in legno che costeggiavano tutta una fascia, la stessa dove in un angolo si trovavano gli spogliatoi. Su una di queste tribune mio fratello saltò festante di gioia la volta che mi vide fare il primo goal della mia carriera, in mischia. Tutt'oggi non so con precisione se fui davvero io a spingere quella palla dentro la porta, ma adesso credo ormai importi davvero poco. Vincemmo undici a zero, e il mio presunto goal fu l'undicesimo, quindi immagino che anche all'epoca importasse lo stesso poco.
Ricordo come noi ragazzi bistrattavamo quel campo, così duro, senza un ciuffo d'erba che fosse uno, completamente sterrato e delimitato in tutto il suo perimetro dai muri delle case intorno. Poco importava se poi tutti, tutti quanti, avevamo iniziato a giocare lì, a fare le nostre prime esperienza sportive in un luogo che era diventato un simbolo di tutto il paese per più di una generazione. Anche mio fratello, lo stesso mio fratello che saltava sulle tribune quando tutti dissero che avevo fatto goal, anche mio fratello, dicevo, ha iniziato a giocare proprio su quello stesso campo. Così come pure i fratelli maggiori di tutti i miei amici. Le storie, le partite epiche e fangose, si rincorrevano una dietro l'altra, sempre su quello stesso campo, sempre uguale, identico.
Mio fratello una volta non giocava, era in panchina insieme ad altri suoi amici, ma fuori pioveva talmente tanto forte che il loro allenatore gli aveva detto di andarsi a riparare negli spogliatoi, dalla parte opposta, lontano dalle panchine vere e proprie che altro non erano che delle piccole nicchie ricavate nel muro di una casa. Fuori pioveva e mio fratello avrà avuto non più di dieci anni. Per scherzo i suoi amici gli dissero che poteva andare a casa, perché l'allenatore aveva detto che non avrebbe fatto entrare nessuno. Casa nostra era molto vicina al campo. Ci si poteva arrivare a piedi senza troppa fatica. Così mio fratello si cambiò e tornò a casa. Cinque minuti dopo l'allenatore arrivò negli spogliatoi per dirgli che lo avrebbe fatto entrare, ma lui non c'era già più. Quell'allenatore è stato poi il motivo per cui mio fratello ha smesso di giocare a calcio. Adesso gioca a basket. Certamente trova meno fango, ma l'ultima volta che sono andato a vederlo partecipava ad un torneo tre contro tre, all'aperto, ed anche quella volta pioveva.
Di storie come queste penso ce ne siano infinite. Basterebbe chiedere un po' in giro e chiunque potrebbe tirare fuori dai ricordi un qualche aneddoto bizzarro. Tipo: d'estate, quando tutti i campionati erano finiti e nessuno andava più a giocare, quel campo veniva utilizzato per farci il luna park, e per poco più di un mese venivano parcheggiati lì, senza uno straccio di protezione, i camion delle giostre. Era buffo, perché per la prima volta da piccolo capii come le cose potessero davvero cambiare l'aspetto di un posto. Quel rettangolo di terra che quando ci correvamo dentro undici contro undici più l'arbitro sembrava immenso, con i calci in culo, gli ottovolanti, le varie bancarelle: sembrava così piccolo, che quando ci andavamo la sera dopo cena, con le luci euforiche accese di mille colori, eravamo sempre così stretti tra la folla da non poterci quasi girare. Incontravamo amici, amici di amici, parenti che non vedevamo da chissà quanto, e ci salutavamo stretti mentre l'altra gente ci passava accanto strusciandosi addosso a noi. Se poi pioveva a settembre trovavamo ancora impresse nel campo i segni dei grandi pneumatici dei camion delle giostre, come delle piste per le biglie. E quando qualcuno faceva un dribbling ben riuscito, o una serpentina tra gli avversari, dicevamo che non era merito suo, ma che la palla era semplicemente entrata dentro uno di quei canali e lui non aveva fatto altro che seguirla nel suo zigzagare.
Oppure: ieri sera ci sono ripassato, e mi sono tornati in mente tanti ricordi. Tipo il pomeriggio durante il quale capii davvero quale fosse il mio ruolo; la partita durante la quale entrai in scivolata e la palla si fermò in una pozza d'acqua facilitando il contropiede degli avversari che vinsero proprio uno a zero, grazie a me; la mattina che per saltare la scuola partecipai ad un torneo interscolastico e il pallone mi sembrava così piccolo; i giorni caldi durante i quali uscivamo dagli spogliatoi per andare a casa a piedi e durante il tragitto riprendevamo a sudare.
Tutti questi ricordi, uno ad uno, si raccontano un po' da sé, perché in fondo non c'è bisogno di raccontarli veramente: basta solo accennarli, poi ognuno li ha dentro e non è necessario attaccare una parola dietro l'altra, sono sufficienti le immagini. Raccontarli è proprio come fare un bel dribbling: basta iniziare, poi la storia entra dentro l’impronta di una ruota di un camion delle giostre e non tu devi fare altro che seguirla. Il merito sarà tutto suo.

martedì 13 luglio 2010

Lettere moderne

- Ho bisogno di un cambio d'immagine - dice la ragazza - sono stufa di passare solo per un'oca pompinara.
Il premier sbuffa.
- Mi dispiace, ma per questa settimana ho finito i ministeri nuovi, devi accontentarti dell'incarico che hai.
- Voglio un restyling! - insiste lei.
- Ti sei rifatta le chiappe il mese scorso! Hai voluto le nuove protesi americane, perché hai detto che quelle svizzere si schiacciavano...
- Voglio essere credibile! - piagnucola lei.
Il premier sbotta.
- Ti faccio scrivere un libro.
- Ma scherzi? Non sono capace!
- Non lo faccio scrivere a te, lo faccio scrivere per te, tu dovrai solo firmarlo.
- E leggerlo?...
- No, presentarlo in TV, e apparire sulla copertina.
- Con gli occhiali?
Il premier sospira.
- Perché fai sempre tante storie per metterli? Ti stanno così bene!
- Sembro una secchiona.
- Ok, niente occhiali. - sorride - Allora, cosa ordiniamo al ghost writer?
Silenzio.
- Cosa gli facciamo scrivere?.. Di che ti piacerebbe che parlasse il tuo libro?
Silenzio.
- Roba tecnica, correlata al tuo incarico?
La ragazza scuote la testa.
- No, troppo da secchiona.
Il premier sbuffa.
- Memorie? Richiamiamo il tizio che ha inventato la tua biografia ufficiale, e gliela facciamo ampliare?
- Quella che ho dovuto imparare a memoria? Che palle!
- Erano sei righe...
- Ma c'erano un sacco di date - protesta la ragazza - io per le date non ho memoria, e quando le sbaglio dicono che m'abbasso l'età!
Il premier si passa il fazzoletto sulla fronte. Il sudore scioglie il fard.
- Allora ci buttiamo sulla letteratura - conclude.
- In che senso?
- Affittiamo uno di quegli sfigati che scrivono roba di cui non si capisce un cazzo. Roba culturale.
- E come faccio a presentare in TV un libro così?
- Fai un po' di supercazzola.
Silenzio.
- Spari due frasi contorte con dei paroloni a minchia!
Silenzio.
- Ti faccio scrivere anche quelle, dovrai solo impararle a memoria...senza date. Ti faccio frequentare un po' l'ambiente letterario italiano.
- Che schifo!
Il premier butta il fazzoletto zuppo di fard.
- Senti, m'hai rotto i coglioni! Io ho cose più importanti da fare! Decidi subito che cazzo di libro vuoi firmare, o ti tieni l'immagine di quell'oca pompinara che sei!
La ragazza fa il broncio. Poi sospira, guardandosi i piedi. Poi sorride.
- Una storia d'amore!
- Benissimo. Ci penso io a ordinarla al ghost writer.
- ''Per me l'amore è più importante della carriera'' - ripete a memoria la ragazza.
- Perfetto. Adesso fuori dalle palle, che devo lavorare - conclude il premier.

Alessandra Daniele

trovato qua: Carmilla on line

lunedì 12 luglio 2010

Quando non si ha niente da dire ma lo si vuole dire comunque a qualcuno

"quando non si ha niente da dire ma lo si vuole dire comunque a qualcuno, è come un ritornello stonato che ti balla tra le labbra ma che dentro la tua testa, dio!, quanto suona bene. e più lo pensi, lo ripensi, lo sussurri tra i respiri, credi sempre che non sarà mai così perfetto quanto invece rimarrà nel non dirlo. resta sempre impregnato di quelle non note che lo accompagnano, della corde della chitarra che non vibrano, del ritmo prima soffice e poi calzante; del tutto spoglio magari pur di significato, del senso, estrapolando frasi e riutilizzandole fuori dal loro contesto."
"allora per quale motivo lo fai? non sarebbe meglio tacere? restarsene muti, non turbare l'aria e non infrangere le onde con inutili corrugamenti del suono?"
"non esiste il meglio o il peggio." rispondo io. "i concetti di migliore e peggiore prevedono una specie di valutazione, una graduatoria, dove da una parte c'è il giusto e dall'altra c'è l'errore. ma questi due estremi non esistono, non nelle dimensioni con cui costruiamo il tempo e lo spazio di questa nostra realtà. non c'è modo di sbagliare perché non c'è affatto una risposta giusta. ognuno fa quel che si sente più incline a fare, in un determinato momento, in un intervallo ben preciso che può protrarsi per un battito d'ali per un sospiro o per decenni interi."
"quindi? perché lo dici?"
"perché se non si dicono le parole muoiono in bocca, aggrappate alla gola per non cadere giù. rimangono come campanacci a rintoccare ore morte. meglio lanciarle, pure scagliarle a volte, anche contro vento o contro voglia o contro il desiderio o la capacità di ricezione di qualcuno. il dire e l'ascoltare sono simbionti, proprio come lo sono lo scrivere ed il leggere. non c'è modo di parlare o di scrivere se dall'altra parte non c'è nessuno che ascolta o che legge."
"ma tu, tu non sai se poi alla fine tutto questo verrà ascoltato o se verrà letto, o se verrà caso mai ignorato."
"incrocio le dita." dico. "spero. tutto qui. è come essere un naufrago in una stupenda isola deserta, con una spiaggia incontaminata, mare cristallino, tempo sempre perfetto: un paradiso. posso prendere un foglio e una penna recuperati chissà dove - lascia perdere questi dettagli, non sono rilevanti - e iniziare a scrivere per poi mettere tutto quanto dentro una bottiglia e buttarla in mare, per farla portare via dalla corrente e farla arrivare chissà dove. ho lanciato un messaggio. non so se mai verrà letto o chi mai lo leggerà, ma non è detto che in questo messaggio ci sia una mia richiesta di soccorso."
"questo non significa niente. tu adesso parli del contenuto, non tanto del motivo. non c'entra assolutamente niente con ciò di cui stiamo parlando. stai semplicemente vaneggiando."
"può darsi. magari sto solo parlando a vanvera; ma tu mi stai ascoltando. e forse è proprio questo ciò che voglio più di ogni altra cosa, a prescindere dal senso, dal significato, dal motivo: voglio che tu mi ascolti. tutto qui."

Monday morning wake up knowing that you've gotta go to school
Tell your mum what to expect, she says it's right out of the blue

venerdì 9 luglio 2010

Morning Rain



Unscrew your face from your laptop screen
See the people, the places in your magazines
They're a big headed bunch, you know what I mean
Someone made them out of plasticine.

I'm the morning rain, it's me again, I won't go away
I'm the morning rain, it's me again, I won't go away.

Come down off your barbed wire fence
What you're saying sounds stupid, it makes no sense
It may be used later in your defence
It may be used later as evidence for the

Morning rain, it's me agian, I won't go away
I' the morning rain, it's me again, I won't go away.

Undo your head from the sink plug chain
Unscrew the cheap wine and drink like a drain
You may never want to waltz again
You may never want to walk away from

The morning rain, it's me again, I won't go away
I'm the morning rain, it's me again, I won't go away.

Pack your bags your room's for let
They're putting up the barricades
And laying off all bets
I've never seen so many people smoke
So many cigarettes
Pack your bags now your room's for rent

I'm the morning rain, it's me again, I won't go away
I'm the morning rain, it's me again, I won't go away
I'm the morning rain, don't you know my name,
Don't you know my name
I'm the morning rain, don't you know my name?

Performed by I Am Kloot

giovedì 8 luglio 2010

La Verità (ti fa male, lo sai)

francamente me ne frego. a dire la verità: la verità è una palla di chiodi, arrugginiti ed incandescenti, che potrebbe esplodere da un momento all'altro. è inutile rigirarsela tra le mani, facendosi mille ferite, tagliare via dalla carne la pelle; quanto pure lanciarla improvvisamente troppo in fretta in braccio a qualcuno: potrebbe ritornarti per le mani in un batter d'occhio.
ingoiarla, questa cazzo di palla, sarebbe alquanto controproducente: vomitare sangue a fiumi non significa proprio stare bene, quando poi nel vomito ci riversi bile e rabbia, repressa non repressa e pure ossidata; anche se l'idea di cercare di digerirla, la verità, non sarebbe affatto male. dovrebbe esserci un metodo diverso, però. ed anche se lo trovassimo, tu io loro, tutti quanti insieme per il bene comune, non servirebbe poi a molto. mangiare la verità non è così facile quanto si possa credere. di mangiare la verità non si finisce mai: ne prendi un boccone, quello che hai più a portata di mano, e te la metti in bocca, la mastichi amara, la verità, sentendo gli scricchiolii che fanno i denti nel chiudersi contro le sue pareti; e non appena la butti giù, sentendola pesante scivolare tra le braccia di quei succhi gastrici che già sai non saranno in grado di scomporla in modo comprensibile - la verità è soggettiva e proprio per questo la rimastichi ogni volta che cambi punto di vista - non appena ingoi ne vedi un altro pezzo poco più lontano, di verità; un pezzo che non avevi notato fino a poco prima e che invece è lì che ti aspetta.
non moriremo mai certo di fame di verità. ce n'è sempre in abbondanza, ed i fatti, il mondo, a volte sembra volerci imboccare a forza, con la verità, a cucchiaiate capienti straboccanti di pezzi spigolosi e ruvidi, di pappa che non vorresti mai sentire con le papille gustative e che ingoi tappandoti il naso nella speranza di non sentirne il gusto, di poterla soltanto ricacare via non appena avrai finito di provare con tutte le tue forza ad assimilarla, di farla tua per quel poco che credi di poter fare, di capirla la verità anche quando non riusciresti a farlo neppure avendo a disposizioni milioni di miliardi di trilioni di triliardi di anni a disposizione, con la vita dei dinosauri e la morte causata da una cometa che si è schiantata sulla terra provocando l’alzarsi di una nube di polvere talmente fitta da oscurare il cielo e da non far filtrare il sole, spazzando via ogni possibilità di vita: senza aria, senza ossigeno, un buio eterno per giorni giorni e giorni e mesi e anni, uno ad uno questi giganti di rettili si schiantano al suolo esanimi, con la gola secca prosciugata dalle particelle di ossigeno, con la lingua penzoloni fuori; e tu seduto in un cantuccio, rannicchiato dentro una cazzo di grotta dove il pericolo non può raggiungerti, con la tua riserva di ossigeno conservata in una collezione pressoché infinita di bombole rubate dal futuro; tu seduto a cogitare, a pensare, a tentare di capire la verità. passerebbero gli anni, le glaciazioni, le ere, i secoli, e pure i millenni; vedresti generazioni su generazioni susseguirsi nel calpestare la terra intesa come pianeta, senza mai riuscire a venirne a capo di questa cazzo di verità. arriveresti fino ai giorni nostri, alla tua vita: ti vedresti prima bambino, adolescente, sciocco, poi grande, adulto, vecchio, esperto, maturo, poi morto; ed andresti oltre, seduto in una caverna un poco più moderna, arredata di tutto punto, con il tuo pensiero fisso, di capire la verità.
la verità è che non siamo né globuli bianchi né globuli rossi, ma ne siamo formati tutti insieme, e sarebbe sciocco vergognarsi di questo.

lunedì 5 luglio 2010

Una mattina

Esco in terrazza e l'aria è grigia. Non c'è neppure un timido accenno di arancione, di un qualcosa di caldo e acceso che di solito il tramonto si porta dietro. All'orizzonte ci sono i palazzi con le passatoie tirate fin sotto il tetto, per una ristrutturazione ormai fuori dal tempo. Poco più in là c'è il capannone della vecchia Coop, con tanto di ampio parcheggio per l'epoca in cui fu costruito, e che ora è solo un fatiscente capannone in disuso e lasciato a se stesso, spoglio dell'insegna luminosa rossa ma con ancora addosso le bande verticali con le sfumature verdi.
Se avessi una sigaretta, e se fumassi sul serio e non solo quando me lo dici tu, ora mi appoggerei alla ringhiera e inspirerei ed espirerei. Invece sono ad un passo dalla porta di casa e guardo il gatto dei vicini che come al solito è scappato, e loro ancora non se ne sono accorti.

giovedì 1 luglio 2010

Giugno 2010


Ho sempre tentato. Ho sempre fallito.
Non discutere. Prova ancora.
Fallisci ancora. Fallisci meglio.

Samuel Beckett