mercoledì 14 luglio 2010

Un luogo del calcio

I negozi non si trovano più dove erano prima. Alcune strade sono diventate sensi unici, mentre altre sono apparse dal nulla, andando ad asfaltare prati dove da bambini andavamo a giocare. Il primo campo da calcio, quello più vicino casa, nel quale ho iniziato a tirare calci ad un pallone e a riceverne sugli stinchi, è stato trasformato in un parcheggio e il giovedì e il sabato viene invaso dai banchi del mercato. All'altezza del cerchio di centrocampo c'è ora una grande aiuola leggermente rialzata, mentre in memoria delle aree di rigore ci sono due strisce di verde dove sono stati piantati un paio di piccoli alberi.
Ricordo le vecchie tribune in legno che costeggiavano tutta una fascia, la stessa dove in un angolo si trovavano gli spogliatoi. Su una di queste tribune mio fratello saltò festante di gioia la volta che mi vide fare il primo goal della mia carriera, in mischia. Tutt'oggi non so con precisione se fui davvero io a spingere quella palla dentro la porta, ma adesso credo ormai importi davvero poco. Vincemmo undici a zero, e il mio presunto goal fu l'undicesimo, quindi immagino che anche all'epoca importasse lo stesso poco.
Ricordo come noi ragazzi bistrattavamo quel campo, così duro, senza un ciuffo d'erba che fosse uno, completamente sterrato e delimitato in tutto il suo perimetro dai muri delle case intorno. Poco importava se poi tutti, tutti quanti, avevamo iniziato a giocare lì, a fare le nostre prime esperienza sportive in un luogo che era diventato un simbolo di tutto il paese per più di una generazione. Anche mio fratello, lo stesso mio fratello che saltava sulle tribune quando tutti dissero che avevo fatto goal, anche mio fratello, dicevo, ha iniziato a giocare proprio su quello stesso campo. Così come pure i fratelli maggiori di tutti i miei amici. Le storie, le partite epiche e fangose, si rincorrevano una dietro l'altra, sempre su quello stesso campo, sempre uguale, identico.
Mio fratello una volta non giocava, era in panchina insieme ad altri suoi amici, ma fuori pioveva talmente tanto forte che il loro allenatore gli aveva detto di andarsi a riparare negli spogliatoi, dalla parte opposta, lontano dalle panchine vere e proprie che altro non erano che delle piccole nicchie ricavate nel muro di una casa. Fuori pioveva e mio fratello avrà avuto non più di dieci anni. Per scherzo i suoi amici gli dissero che poteva andare a casa, perché l'allenatore aveva detto che non avrebbe fatto entrare nessuno. Casa nostra era molto vicina al campo. Ci si poteva arrivare a piedi senza troppa fatica. Così mio fratello si cambiò e tornò a casa. Cinque minuti dopo l'allenatore arrivò negli spogliatoi per dirgli che lo avrebbe fatto entrare, ma lui non c'era già più. Quell'allenatore è stato poi il motivo per cui mio fratello ha smesso di giocare a calcio. Adesso gioca a basket. Certamente trova meno fango, ma l'ultima volta che sono andato a vederlo partecipava ad un torneo tre contro tre, all'aperto, ed anche quella volta pioveva.
Di storie come queste penso ce ne siano infinite. Basterebbe chiedere un po' in giro e chiunque potrebbe tirare fuori dai ricordi un qualche aneddoto bizzarro. Tipo: d'estate, quando tutti i campionati erano finiti e nessuno andava più a giocare, quel campo veniva utilizzato per farci il luna park, e per poco più di un mese venivano parcheggiati lì, senza uno straccio di protezione, i camion delle giostre. Era buffo, perché per la prima volta da piccolo capii come le cose potessero davvero cambiare l'aspetto di un posto. Quel rettangolo di terra che quando ci correvamo dentro undici contro undici più l'arbitro sembrava immenso, con i calci in culo, gli ottovolanti, le varie bancarelle: sembrava così piccolo, che quando ci andavamo la sera dopo cena, con le luci euforiche accese di mille colori, eravamo sempre così stretti tra la folla da non poterci quasi girare. Incontravamo amici, amici di amici, parenti che non vedevamo da chissà quanto, e ci salutavamo stretti mentre l'altra gente ci passava accanto strusciandosi addosso a noi. Se poi pioveva a settembre trovavamo ancora impresse nel campo i segni dei grandi pneumatici dei camion delle giostre, come delle piste per le biglie. E quando qualcuno faceva un dribbling ben riuscito, o una serpentina tra gli avversari, dicevamo che non era merito suo, ma che la palla era semplicemente entrata dentro uno di quei canali e lui non aveva fatto altro che seguirla nel suo zigzagare.
Oppure: ieri sera ci sono ripassato, e mi sono tornati in mente tanti ricordi. Tipo il pomeriggio durante il quale capii davvero quale fosse il mio ruolo; la partita durante la quale entrai in scivolata e la palla si fermò in una pozza d'acqua facilitando il contropiede degli avversari che vinsero proprio uno a zero, grazie a me; la mattina che per saltare la scuola partecipai ad un torneo interscolastico e il pallone mi sembrava così piccolo; i giorni caldi durante i quali uscivamo dagli spogliatoi per andare a casa a piedi e durante il tragitto riprendevamo a sudare.
Tutti questi ricordi, uno ad uno, si raccontano un po' da sé, perché in fondo non c'è bisogno di raccontarli veramente: basta solo accennarli, poi ognuno li ha dentro e non è necessario attaccare una parola dietro l'altra, sono sufficienti le immagini. Raccontarli è proprio come fare un bel dribbling: basta iniziare, poi la storia entra dentro l’impronta di una ruota di un camion delle giostre e non tu devi fare altro che seguirla. Il merito sarà tutto suo.

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