giovedì 29 aprile 2010

Come quando fuori piove e non ci son più strade

fare ginnastica alle quattro del mattino: qualcuno lo chiama yoga, qualcuno invece insonnia. seduti per terra, con la schiena appoggiata alla parete di una camera in disordine, stendiamo le gambe in avanti e mi sento un po' fuori luogo, impacciato. mi dici di non preoccuparmi, mentre affondi verso il basso spingendo le mani ad afferrare la pianta del piede.
hai dei pantaloncini verde acceso che ti si sono arricciati tutti su intorno alla vita, come se tu fossi una podista, e una canottiera bianca che ti scopre quasi i seni. ti invidio la spensieratezza con cui ti vesti, così come quella, magari di natura diversa ma in fondo della stessa specie, che ti fa sorridere e scarrupare i capelli, come dici tu, mentre mi guardi in faccia e mi sorridi, mi saluti, mi spalanchi con noncuranza, quasi fosse niente e tutti quanti qui su questo pianeta terra ne fossero capaci, tutti quei tuoi occhi grandi, dietro quegli occhiali larghi, sotto quelle sopracciglia arcuate con precisione.
mi dici che ti piace, startene qui, in questa stanza, dici, di mattina quando però è ancora notte, con la porta chiusa, in solitaria. dalla finestra si può vedere entrare un po' di sole quando quest'ultimo si decide a sorgere dietro le colline. La chiaman alba questa cosa qua, mentre tu continui a guardarti intorno e a spiegarmi ciò che ti piace di questo tuo segreto rituale.
poi c'è lo specchio, dici, che riflette alcune cose che altrimenti passerebbero inosservate. tipo: il foglio arancione appeso vicino alla finestra; i calzini appesi come morti in bilico sui cassetti appena aperti; la stella disegnata sul muro vivo, senza troppo pensare al fatto che per cancellarla sarebbe necessaria una mano di vernice; la palla d'aria compressa sulla quale ogni tanto ti sdrai sopra, con la schiena arcuata, per far scrocchiare le vertebre una ad una e liberare spazio; e il tuo peluche gigante che rappresenta un ghepardo o un leopardo, non ho mai capito la differenza: ogni volta che lo vedo, che entro dentro questa camera, mi ringhia contro, mentre quando tu lo abbracci stringendotelo al petto comincia sempre a far le fusa.
mi torna in mente, non so perché, quella mattina di una domenica qualsiasi, con la luce affascinante che entrava dalla finestra aperta. il letto ancora fatto, con il piumone zebrato appiattito sul materasso; la lavagnetta appoggiata sul comodino con su scritti tutti i nostri scarabocchi di pensieri e riflessioni varie; il tuo cappello, quello con le orecchie, appoggiato su una mensola; il poster anatomico che ci indicava i nostri punti umani attaccato alla parete; l'abat-jour a forma di tour eiffel. e tu, seduta sul letto, con i piedi appoggiati al muro: i capelli rossi, la maglia fine bianca a farti anche da gonna, e le calze con i disegni ricamati fucsia che sembravano segnare il sistema cardiocircolatorio di un alieno sulle tue gambe.
sai, ti dico interrompendoti per un attimo, mi sa che in fondo in fondo noi due lo siamo per davvero, due extraterresti strani.

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