lunedì 14 ottobre 2013

Le vergini suicide

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Il dottor Armonson suturò le ferite dei polsi. Dopo cinque minuti di trasfusione dichiarò che la ragazza era fuori pericolo. Le diede un buffetto sotto il mento. “Che ci fai qui, piccola? Non puoi sapere quanto è brutta la vita, giovane come sei.”
Fu allora che Cecilia espresse verbalmente ciò che doveva rappresentare l’unica parvenza di una lettera d’addio, superflua, tra l’altro, dato che non era morta. “Dottore” disse, “è evidente che lei non è mai stato una ragazza di tredici anni.”

Intorno a noi, nei loro nascondigli, gli insetti diedero inizio a un coro vibrante nell’esatto momento in cui voltammo le spalle all’edificio. Tutti dicevano che erano grilli, ma non ne avevamo mai trovati, nei cespugli irrorati o nei praticelli livellati, e non avevamo la minima idea di che aspetto avessero. Erano una presenza di puro suono.

Non avevamo mai visto nessuno che come lei sembrasse nudo anche con i vestiti.

Trip non aveva mai avuto neanche bisogno di comporre un numero telefonico. Per lui era una novità assoluta: i discorsi strategici imparati a memoria, le possibili conversazioni provate e riprovate, la respirazione profonda dello yoga, tutto per prepararsi al tuffo cieco, a capofitto, nel mare crepitante delle linee telefoniche. Non conosceva l’agonia dello squillo interminabile che qualcuno avrebbe interrotto sollevando la cornetta, non sapeva cosa fosse il colpo al cuore nell’udire quella voce incomparabile che all’improvviso era collegata alla tua, la sensazione di essere troppo vicini persino per vederla, quella persona, di essere addirittura dentro il suo orecchio.

Provare dolore è naturale. Superarlo è una questione di scelta.

Per tutto il tragitto Lux non fece che girare la manopola della radio alla ricerca della sua canzone preferita. “È una cosa che mi fa diventare matta” disse. “Sei sicura che la stanno trasmettendo da qualche parte, solo che la devi trovare.”

A quel punto non le conoscevamo più, e le loro nuove abitudini, l'aprire una finestra, ad esempio, per gettare via un asciugamano di carta appallottolato, ci inducevano a chiederci se le avessimo mai conosciute davvero, o se invece la nostra vigilanza fosse stata una caccia alle impronte digitali dei fantasmi.

Aspettavamo che le ragazze ci inviassero un segnale, e intanto la nostra immaginazione lavorava a pieno ritmo.

Sapevamo che Cecilia si era uccisa perché era una disadattata, perché l’aldilà la chiamava, e sapevamo che le sorelle, una volta abbandonate, avevano percepito il suo richiamo. Ma appena tiriamo queste conclusioni ci viene un nodo alla gola, perché sono vere e ingannevoli al tempo stesso.

Non riuscivamo a immaginare il vuoto interiore di un essere umano che si accostava un rasoio al polso e si apriva le vene: il vuoto e la calma.

Jeffrey Eugenides

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