lunedì 23 dicembre 2013

Un antidoto contro la solitudine

 
A nessuna domanda veramente interessante si può dare una risposta soddisfacente all’interno delle restrizioni formarli (ad es. la lunghezza di un articolo, la durata di un programma radiofonico, il pubblico decoro) imposte da un’intervista.

Credo che per quelli della mia generazione […] un certo tipo di sgangheratezza […] viene associata non tanto all’ingenuità o alla goffaggine, quanto alla sincerità […] essere genuino e fatto in casa invece che essere […] tale e quale a un prodotto industriale.

“Quando scrivete”, spiega nel dare il suo giudizio su un racconto che parla di una bambina, suo zio e il malocchio, “state raccontando una bugia. È un gioco, ma dovete presentare con precisione i fatti. Il lettore non vuole che gli si ricordi che è tutto finto. Il racconto dev’essere convincente, altrimenti nella testa del lettore non decollerà mai.”

È difficile provare a capire quali esperienze familiari sono universali e quali idiosincratiche.

Una delle cose che voi due scoprirete, una volta usciti dall’università, è che riuscire a vivere davvero come un essere umano, e contemporaneamente a produrre qualcosa di valido, con quel grado di ossessività che è necessario per farlo, è veramente complicato.

C’è qualcosa, quantomeno nei romanzi e nei racconti, che ti permette di entrare in intimità con il mondo, e con un’altra mente, e con certi personaggi, in un modo in cui non puoi proprio farlo nel mondo reale. Io non so cosa stai pensando. Non so molto di te, così come non so molto dei miei genitori, della mia ragazza o di mia sorella, però un brano di letteratura che sia davvero sincero ci permette di entrare in intimità con… non voglio dire che la gente, ma ci permette di entrare in intimità con un mondo che assomiglia al nostro quanto basta, a livello di dettagli emotivi, perché le varie sensazioni che proviamo possano poi reverberarsi anche nel mondo reale.

Per me, il cinquanta per cento delle cose che scrivo sono brutte, punto, e sarà sempre così, e se non son capace di accettarlo vuol dire che non sono tagliato per questo mestiere. Il trucco è capire quali sono i tuoi difetti e fare in modo che il lettore non li veda.

Uno dei miei insegnanti, che stimavo molto, diceva sempre che il compito della buona letteratura è tranquillizzare chi è turbato e turbare chi è tranquillo. Secondo me il compito della letteratura alta consiste in gran parte nel dare al lettore, che come tutti noi è un po’ impantanato dentro la propria testa, nel dargli accesso, dicevo, tramite l’immaginazione, alla vita interiore di altri individui. Dato che una parte ineluttabile dell’essere umano è la sofferenza, ciò che noi esseri umani cerchiamo nell’arte è anche un’esperienza di sofferenza: che sarà necessariamente un’esperienza mediata, o per meglio dire una generalizzazione della sofferenza. Capisci cosa intendo? Nel mondo reale tutti soffriamo da soli; la vera empatia è impossibile. Ma se un’opera letteraria ci permette, grazie all’immaginazione, di identificarci con il dolore dei personaggi, allora forse ci verrà più facile pensare che altri possano identificarsi con il nostro. Questo è un pensiero che nutre, che redime: ci fa sentire meno soli dentro. Magari è tutto qui, semplicemente. Però a questo punto tieni presente che la tv e il cinema commerciale  e tante forme di arte “bassa” – ossia arte il cui scopo principale è fare soldi – sono redditizi proprio perché capiscono che il pubblico preferisce un cento per cento di piacere alla realtà che tende a essere fatta per il 49 per cento di piacere e per il 51 per cento di dolore. Mentre l’arte “alta”, quella che non punta principalmente a farti sborsare dei soldi, è più probabile che ti causi malessere, o che ti costringa a faticare per arrivare ai suoi piaceri, proprio come nella vita reale il vero piacere è in genere un derivato della fatica e del disagio. Perciò è difficile per il pubblico dell’arte, specialmente quello più giovane, che è stato educato ad aspettarsi che l’arte susciti piacere al cento per cento, e senza nessuno sforzo, leggere e apprezzare la letteratura alta. E questo è un male. Il problema non è che i lettori di oggi sono stupidi, non penso che sia così. È solo che la tv e la cultura commerciale di massa li hanno addestrati a essere piuttosto pigri e infantili nelle loro aspettative. E questo rende più difficile che mai cercare di coinvolgere i lettori di oggi, sia a livello intellettuale che di immaginario.

Mi sembra che la grossa distinzione fra grande arte e arte mediocre stia nello scopo da cui è mosso il cuore dei quell’arte, nei fini che si è proposta la coscienza che sta dietro il testo.

Quasi tutti gli scrittori che conosco sono strani ibridi. C’è una forte vena di egomania accoppiata con una timidezza estrema. Scrivere è una specie di esibizionismo privato. E c’è pure una strana solitudine, e il desiderio di avere un qualche dialogo con la gente, ma senza la capacità vera di farlo di persona.

Ci vuole un enorme coraggio per mostrarsi deboli.

Alle elementari ci costringono a diventare platonici perché è il modo più semplice per capire i numeri. Nessuno vuole spiegare a un bambino di quarta elementare la metafisica del numero intero 3, così ci siamo convinti che il 3 è una cosa. Ma i numeri non sono cose. Anche se sei un platonico – e cioè, anche se credi che i numeri siano reali in un qualche senso metafisico, cioè allo stesso modo in cui lo sono gli alberi o come lo sei tu, Caleb, rispetto al matematicamente reale – la ragione per cui ne sei convinto è che in realtà non ci pensi mai. Insomma, se sono reali, dove sono? Che aspetto hanno? Cos’è il 3?

Penso che in un paese in cui la vita è così facile come da noi, uno dei veicoli più importanti della paura sia la noia.

Se riuscissimo a descrivere con sufficiente esattezza la sensazione provata da qualcuno per qualcosa, avremmo una chiave davvero straordinaria per capire come funziona il mondo.

Il trucco era far risultare quella roba sincera, ma anche interessante: perché la maggior parte dei nostri pensieri non sono poi tanto interessanti. Essere sinceri quando dietro c’è un motivo.

Penso che essere timidi significhi sostanzialmente essere talmente concentrati su se stessi che diventa difficile stare in compagnia della gente. Per esempio, se passo del tempo con te, non riesco neanche a capire se mi stai simpatico o antipatico, perché sono troppo occupato a chiedermi se io sto simpatico a te.

Penso che uno dei veri aspetti sotto cui sono diventato più intelligente sia che mi sono reso conto di non essere tanto più intelligenti degli altri.

David Foster Wallace

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