martedì 2 aprile 2013

Thegiornalisti @Tender

Quando arriviamo al Tender, che non si trova in zona stazione come ci avevano detto bensì è esattamente a lato della stazione di Santa Maria Novella, da fuori si sente già qualcuno suonare. Sul palco c’è Caroline Keating, ovvero: musica per pianoforte e violino. Poco importa se sul palco non c’è un imponente pianoforte a coda (non ci sarebbe lo spazio fisico necessario a ospitare uno strumento così ingombrante), la musica ci rapisce all’istante con le sue note vellutate e per niente aggressive.  Al piano c’è questa ragazza dai capelli rossi e la carnagione chiara, occhi vivaci sempre a suggerire un sorriso in rampa di lancio; è accompagnata da un ragazzo asiatico dal fisico asciutto (tale Sebastian Chow degli Island, scopriremo poi), maglia aderente rossa con un profondo scollo a V e capelli ordinatamente pettinati da una parte. In due mettono in piedi uno spettacolo intimo e variegato che, a dispetto della poca strumentazione in scena, riesce a suonare sempre brillante, con canzoni di volta in volta mai uguali a se stesse, vibrando ognuna di una particolare ritmica che ne contraddistingue l’impronta sonora. Un’impronta sonora che si imprime dentro la testa come l’orma di un passo sulla neve: magari non sarà qualcosa di permanente, un segno destinato a durare per l’eternità all’interno della tua memoria, ma riuscirà lo stesso a regalare quel senso di fascinazione e piacere leggero del rumore che il tuo passo si lascia dietro sulla neve, e l’impronta, subito coperta da altra neve che cade giù dal cielo, quel fruscio dal vago sapore frivolo ma che ti fa socchiudere gli occhi e bearti per un attimo, sia questo pure effimero quanto basta, di un sorriso sincero.
L’acustica del Tender in questo caso è perfetta. Accoglie ogni singola nota nel suo ristretto spazio e la ripone con cura su chi si è accalcato al suo interno, sedendosi per terra o appoggiandosi alle pareti. È la musica ideale per una giornata uggiosa piena di pioggia, con la sera e la notte così sprofondate nel loro stringersi fino a diventare una cosa sola, senza farti rendere conto del passaggio dall’una all’altra. Sarebbero necessarie delle sedie sulle quali sedersi, e dei tavolini su cui appoggiare un bicchiere di whiskey da sorseggiare di tanto in tanto, magari tra un applauso e l’altro, mentre si guarda questo duo esibirsi educatamente sul palco a un metro di distanza: una specie di tributo a loro, per farli sentire più a casa, o farci sentire noi più in Canada.
Purtroppo l’acustica non risponde altrettanto bene quando sul palco salgono i Thegiornalisti, quartetto romano per i quali ci siamo presi la briga di scoprire dove si trovasse il Tender. Sarà per il numero maggiore di strumenti on stage, sarà per le sonorità più aggressive, sarà per il fatto che siamo letteralmente a due passi dall’impianto di amplificazione, in bocca al cantante, ma a tratti è davvero difficile distinguere il suono delle chitarre da quello del basso e della batteria, per non parlare della voce del cantante. Il gruppo però non si scompone e mette in scena un concerto dove alterna canzoni del primo e del secondo lavoro, proponendole al pubblico arrangiate un po’ più combattive di quanto non fossero su disco. Laddove la batteria era solo appena accennata, dal vivo acquista un maggiore spessore che contribuisce al ritmo più marcato dell’esibizione. Se ascoltandole a casa, o in auto, o nell’ipod mentre si corre, o dove diavolo volete voi, le canzoni dei Thegiornalisti ti mettevano voglia di canticchiarle tra te e te tanto da strapparti quasi i versi di bocca, in concerto le stesse canzoni ti prendono dentro e, oltre a canticchiarle, ti incitano al ballo, scuotendoti da dentro. Entrano dalle orecchie e scendono lungo il collo fino a metà schiena, a quel punto ti afferrano la colonna vertebrale e ti muovono come una bambola.
Ad aiutare la musica ci pensa anche la fisicità bislacca del cantante e frontman del gruppo, che si agita davanti al microfono come un ossesso, mantenendo una postura ricurva all’indietro che manderebbe nei pazzi qualsiasi pedagogo di vecchio stampo, come se volesse cantare e al contempo partecipare a una gara di limbo.
Visivamente i Thegiornalisti si presentano al proprio pubblico come se fossero l’incarnazione umana di un grafico sull’andamento della moda degli anni ’80, quando in realtà sono dei giovani ragazzi italiani che si divertono con la musica e riescono a conferire alle loro canzoni un misto di magia/romanticismo/umorismo/significato profondo che ultimamente in pochi nel panorama italiano sono in grado di miscelare con così tanta cura. È di questa opinione pure Federico Fiumani che durante il bis di rito accompagna il gruppo sulla conclusiva “Cose in disuso”, cantando con il solito aplomb di pura sincerità nello sviscerare il suo ruolo di rocker e mentore di un’intera generazione di musicisti: un po’ impacciato di fronte al microfono, alle prese con un testo non suo e imparato in fretta e furia, del quale conserva in mano la trascrizione da leggere senza troppo nascondersi quando ha dei dubbi su quale verso venga dopo una determinata parola.
Finisce così, con le parole di Federico rivolte al pubblico a esaltare il gruppo di Roma – e con il gruppo di Roma che si ferma per un attimo a inchinarsi di fronte alla persona che a Firenze viene subito dopo Giotto – un concerto che in canna avrebbe ancora un’altra canzone. Tutti quanti sembrano però già felici, già appagati, così tanto che anche i Thegiornalisti ringraziano Federico, il pubblico, il Tender, e fanno per smontare. Quando si ricordano di avere in scaletta un ultimo pezzo, ormai è tardi, il deejay ha già iniziato a suonare e non rimane far altro che uscire ridendo: loro per la piccola gaffe, noi per la splendida serata.

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