mercoledì 25 gennaio 2012

Il tempo è un bastardo

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“Sei felice”, disse Alex.
“Io sono sempre felice”, rispose Sasha. “È che a volte me ne dimentico.”

In verità tutta la casa, che sei anni prima a Sasha era sembrata una tappa intermedia verso una destinazione migliore, aveva finito per solidificarsi intorno a lei, accumulando massa e peso, tanto da farla sentire impantanata e insieme fortunata ad averla, come se non solo non potesse passare oltre, ma nemmeno lo volesse.

Non ho mai visto San Francisco così dall’alto: è di un nero-blu morbido, con le luci colorate e la nebbia che sembra fumo grigio.

Dean, al quale il successo continuerà a sfuggire fino alla mezz’età, momento in cui otterrà la parte di un idraulico panciuto e senza peli sulla lingua in una nota sitcom, andrà a bere un espresso con Louise (attualmente una dodicenne grassoccia della Fazione Phoenix), la quale l’avrà cercato su Google dopo il divorzio. Bevuto il caffè, finiranno in un Days Inn nei pressi di San Vincente a fare del sesso inaspettatamente toccante, quindi a Palm Springs per un weekend di golf, e infine sull’altare, accompagnati dai quattro figli adulti di Dean e dai tre adolescenti di Louise. Ma la loro sarà un’assoluta eccezione: per quasi tutti gli altri, quelle rimpatriate avranno come unica conseguenza la scoperta che aver fatto un safari insieme trentacinque anni prima non equivale ad avere granché in comune, e se ne andranno ciascuno per la sua strada, chiedendosi che cosa, esattamente, si fossero aspettati.

C’erano degli indizi, dettagli che facevano intuire l’esistenza di un’alternativa brutta all’essere vivi (li abbiamo ricordati insieme bevendo il caffè, io e Rhea, prima di venire a trovarlo, guardando le nostre rispettive nuove facce sedute a un tavolo di plastica: lineamenti famigliari risciacquati in una strana età adulta).

Sta diventando una brutta giornata, di quella in cui il sole sembra abbia i denti.

E quando poi successe, nella camera da letto minuscola di Rolph, con il sole che filtrava a strisce dalle veneziane, feci finta che fosse tutto nuovo.

Durante un viaggio a New York, a bordo del traghetto per Staten Island che avevano preso per puro piacere, perché nessuno dei due l’aveva mai fatto, Susan d’improvviso si era voltata e gli aveva detto: “Facciamo in modo che sia sempre così”. E all’epoca i loro pensieri erano talmente intrecciati che Ted aveva capito con esattezza perché l’aveva detto: non perché quel mattino avessero fatto l’amore, né perché a pranzo avessero bevuto una bottiglia di Pouilly-Fuissé, ma perché aveva avvertito il passare del tempo. E allora anche Ted l’aveva avvertito, nello sciabordio dell’acqua marrone, nello sfrecciare delle barche e della brezza – ovunque movimento, caos – e aveva preso la mano di Susan e le aveva detto: “Sempre. Sarà così sempre”.

“Se io credo in una cosa, ci credo. Chi sei tu per giudicare le mie motivazioni?”
“Se le motivazioni sono economiche, non è crederci davvero. È una stronzata.”

Jennifer Egan

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