martedì 11 settembre 2012

Disturbo

Il disturbo iniziò molto tempo prima che lui cominciasse a chiamarlo disturbo. Definirlo come tale fu un processo abbastanza serio, così come ammettere a se stesso di soffrirne, qualsiasi cosa questo fosse. La natura del disturbo, soprattutto quando ancora non veniva chiamato in questo modo, non è mai stata chiara, forse proprio per il ritardo con il quale lui decise alla fine di recarsi da uno specialista. Quest’ultimo, a quel punto, non poté fare altro che constatare la situazione, senza scendere troppo nei dettagli né perdendo tempo a cercarne le cause: i sintomi, qualora si fossero mai manifestati, si perdevano ormai nelle ombre del passato e non avevano lasciato alcuna traccia percorribile per capirne i motivi.
Tutto ebbe inizio quando si rese conto di non capire alcune frasi ascoltate in ufficio. Interessante – si disse poi – quanto tutto possa avere inizio quando ci si rende conto della cosa in oggetto. Il disturbo infatti – si domandò – esisteva anche prime che lui se ne accorgesse? Il fatto che il disturbo lo avesse, diciamo, in qualche modo svegliato non significava che questo non esistesse già prima. Lui stesso poteva benissimo non andare a trovare una determinata persona, magari un parente o magari un amico, e poi di punto in bianco un giorno decidere di andare a bussare alla porta di questa persona. Lui non nasceva in quel momento, l’attimo durante il quale cominciava a bussare, ma esisteva già prima. Stessa cosa poteva essere per il disturbo. Lui se ne era reso conto solo quando quest’ultimo si era preso la briga di venire a bussare alla sua metaforica porta (e lui non gli aveva neppure aperto, lo aveva lasciato fuori).
Quando fece entrare il disturbo, quando si accorse di esso e si decise ad accoglierlo, accettando di avere un problema, lo fece perché capì finalmente quanto avesse mascherato il tutto. Si diceva: non capisco questa cosa perché non la capisco concettualmente, mi mancano gli elementi per comprenderla. Le parole mi sembrano insignificanti in quanto sono termini non miei, non mi appartengono. È come se la persona che mi sta parlando mi stesse parlando in una lingua straniera a me sconosciuta: non dubito sul fatto che stia dicendo frasi sensate e grammaticalmente corrette, solo che io, solo io, sono in difetto, non la capisco proprio tutta quella lingua lì che lui sta parlando.
Invece un giorno, mentre stava conversando con un suo collega, si rese conto di come lui non capiva proprio le parole, in generale, italiane. Stavano parlando del tempo, in senso atmosferico, e di cosa avevano fatto durante il fine settimana. Lui vedeva le labbra del suo interlocutore muoversi di continuo, sfornando ogni secondo vocali e consonanti, parole intere. Ma quelle parole lui proprio non riusciva ad afferrarle. Erano sfuggenti, oppure gli parevano dette a un volume troppo basso per essere percepite. Eppure il suo collega continuava a parlare in tutta tranquillità, interrompendo solo di tanto in tanto il suo discorso con un sorriso benevolo, il tempo forse per prendere un po’ di ossigeno, respirare. E lui non capiva nulla. Annuiva, sorrideva di rimando, ma non sapeva proprio per quale motivo lo faceva. Doveva fidarsi.
Ecco, quello fu il giorno durante il quale ammise a se stesso di avere un problema. Quel problema era l’anticamera del disturbo, perché spesso si tende a risolvere, o meglio a nascondere un problema coprendolo con un disturbo.
E mentre il suo collega parlava non faceva che chiedersi, dentro di sé: posso ancora chiamarlo interlocutore, anche se non capisco una parola di quello che sta dicendo?

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