martedì 31 marzo 2009

Un'oscura odontoiatria. Ovvero: quando uccidevamo la fatina dei dentini

La prossima volta ci toglieremo i denti da soli, a casa, anestetizzandoci con venti negroni, e andando a correre prima per rilassarci. Altro che trapanarci le gengive, e fare buchi dentro le ossa: scaveremo pozzi per trovare il petrolio, per diventare ricchi con l'oro nero. Faremo diventare sordi i nostri figli adottivi, per poi comunicare a gesti e con le mani spezzargli il cuore, quando da vecchi non ne potremo più, quando avremo ormai venduto tutte le nostre anime al diavolo, e quel che resterà sarà solo nero. Guarderemo il tramonto, o l'alba, al contrario, sudati e sporchi, con un fuoco che ci sovrasterà di metri e metri, ad inquinare il mondo ancor prima di capirne il vero significato. E le risa di cui rideremo saranno fatte di ben altro che stupidi impianti da quattro soldi: saranno il dolore che avremo sputato dopo esserci sciacquati la bocca con un bicchiere d'acqua; saranno il nostro disprezzo e i nostri sguardi storti nel bruciare con gli occhi i diplomi di odontoiatria appesi sui muri, incorniciati come trofei: anni e procedure, ripassati su denti estratti male, con radici spezzate, nervi lesi e lacerati, a piangere su sensibilità scadute, senza anestesia, senza ipocrisia, a trasformarci come uomini di legno, burattini con viti e chiodi, montati come i mobili di Ikea. Il pomeriggio a tessere ragnatele rilassanti, a scacciare pensieri e preoccupazioni davanti a file costrette ad aspettare. Le sale d'aspetto, le sedie scomode e la centralinista a cui chidere di entrare, di urlare, di toglierci la preoccupazione e via, voltare pagina, bruciare la pagina, ridere di nuovo e tranquilli senza ghiaccio. I pomeriggi a fare a gara a chi ha subito di più, chi ha sofferto fisicamente, chirurgicamente, e ossa rotte, piedi torti, piedi piatti, schiene curve, martellate su dita ormai appiattite, livellate con una lima, fischettando motivetti senza senso. Uomini e donne tecnologici e tecnologiche, robot futuristici che hanno visto cose: la pioggia che diluisce le lacrime, che le perde, che senga il tempo di morire. Di passare oltre. Perché noi, gli androidi, sogneremo mai pecore elettriche? O fare incubi ad alto voltaggio, incubi di roghi, con le fiamme di scuole di provincia, con unghie affilate e taglienti; le ustioni sparse per il corpo e per la mente, a vendicarci degli anni ottanta e di quello che ci hanno fatto, degli apparecchi mobili o fissi per i denti. Ci sveglieremo di colpo, nel cuore della notte, tu nel tuo letto e io nel mio, li avvicineremo forse per nasconderci insieme sotto le coperte, come da bambini al suono di un temporale, o all'avvicinarsi sempre più ossessivo di un lampo, di un fulmine, di un colpo di. A chiederci che senso abbia avere sempre le stesse paure oniriche e no: lingue tagliate via a morsi, quando i morsi non erano volontari e il sangue sgorgava a fiumi sul mento, sulla faccia, a disegnare la barba non ancora nata, e non togliersi mai quel sapore nauseante di punti; o gli occhi, toccati con dita, oggetti, o anche solo avvicinati.
E quando avremo finito, quando arrivati a questo punto ci guarderemo allo specchio, la nostra bocca ormai sarà già guarita, e se non lo sarà almeno non avremo più la preoccupazione di un'operazione che è piccola ma è pur sempre una cazzo di operazione. Perché bucare un osso può sembrare una stronzata, lo so, non è niente, ma diavolo io ho pur sempre paura, ed è una forse chiedere troppo di essere accudita, di essere distratta, di far cullare da qualcun altro questa paura, per poterla addormentare, e lasciarla a letto, mentre io me ne esco fuori la sera a festeggiare. Mangiando gelati al gusto di antibiotici, e pasteggiando con succhi di frutta, acqua, o birra rubata.

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