giovedì 4 giugno 2009

Cerniere, zip, al posto delle cicatrici (II)

Che bei tempi, quando ancora ero nutriente e sano. Salvo dalle peripezie di mille pepite d'oro, gioielli diamanti e rubini tra arterie e capillari troppo stretti per non urlare. Dolore che graffia con le punte, che lacera l'interno di ematomi e coauguli a formarsi, si gonfiano. Fumano zolfo per farmi passare, incollano l'inalare stanco e ormai sofferto per dimenticare. Ora che ho la pelle a scaglie, di perite, luccica al sole da come piego un braccio, apro una mano, stringo il pugno a conficcarmi le unghie nel palmo. Gratto via come se fosse formaggio, condisco piatti rotti e su cui servo i miei tendini stirati e strappati, zoppico tra i tavoli e cado sulle sedie. Sospiro. Avrei dovuto farmi impiantare un tubo nella spina dorsale, per l'epidurale; per non sentire sempre l'ago, e la preanestesia, la sensazione di solido che viene spinto dentro. Il lettino gelido che piegano secondo i bisogni del medico, e a me viene da vomitare, ma tengo duro. Sembro carne da macello, ogni volta, trasportato da un posto all'altro, messo sopra nastri di una catena di montaggio sterile. Flebile. Flebo. L'ittero con il quale torno ogni volta in camera, con il pigiama indossato al contrario, a pararmi il culo, a mostrare il petto. Dovrei pagare l'affitto, e farmi portare le colazioni sempre a letto, e i pranzi, le cene. Imbastire banchetti per tutte le persone che vengono a trovare me e gli altri, gli altri e me. Che la luce ha una limpidezza un po' spenta, attraverso le finestre e quelle tende che sembrano fatte di carta riciclata. Tanto, prima o poi, l'anestesia la devi pur sempre pisciare fuori, a meno di non scoppiare. Potrei lasciarla evaporare dagli occhi, e poi riciclarla nei momenti di bisogno, dopo averla conservata in sacche da un litro o mezzo litro. Per alleviare le stampelle che premono contro le mani, che cercano in uno slancio di evoluzione celeste di inglobarsi alle braccia, di fondersi nelle ossa; ma non sanno di andare contro anche a chiodi e viti e rotture già calcificate. L'errore non è stato quello di sanguinare, o di donare il sangue; l'errore vero è stato quello di credere. La prossima volta me la farò estirpare via, questa cazzo di parola, e la sua scia di pensieri che si porta appresso. Le illusioni, le elucubrazioni: sono tutte stronzate di cartone che non reggono l'acqua. Appena si bagnano appassiscono e si sfaldano. Gli strati si disperdono dove possono, appiccicandosi alle mani, ai pantaloni, all'asfalto se le lasci per troppo tempo fuori in strada. L'errore vero è stato quello di non tagliarsi con gli angoli, di non far stridere le punte contro il dorso delle mani, o in qualsiasi altro posto dove possa fare un male cane. L'errore vero, ecco, è stato quello di non puntarselo negli occhi, il credere, e poi spingere giù giù fino a toccare il cervello. Questo è stato l'errore vero.

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