Nell’aprile del 1992, racconta il suo biografo D.T. Max, David Foster
 Wallace venne invitato dall’amico Jonathan Franzen a tenere una 
conferenza nel college dove insegnava. Wallace — che stava lavorando con
 fatica a quello che sarebbe diventato Infinite Jest — si 
presentò in aula e prima di cominciare a parlare scrisse un lungo elenco
 di vocaboli sulla lavagna, con a fianco il loro significato. Era 
un’altra versione delle maniacali note a pié pagina che l’avrebbero reso
 famoso. L’ennesimo tic del ragazzo che si definiva «un nazista della 
grammatica», lo scrittore che aveva capito ancora prima di completare il
 suo capolavoro che l’unica possibilità di descrivere il mondo come lo 
vedeva lui, in tutta la sua infinita complessità, era fare del 
linguaggio un uso ai limiti dell’umano — maneggiare la lingua inglese 
come Roger Federer fa con la racchetta da tennis.
È un omaggio appropriato, dunque, che i 15 capitoli di Both Flesh And Not
 — raccolta di recensioni e articoli giornalistici diWallace che è stata
 appena pubblicata negli Stati Uniti da Little, Brown & C. — siano 
divisi da un agile prontuario di parole inconsuete (da «abattoir», 
mattatoio, a «ylang-ylang», olio asiatico usato nella confezione di 
alcuni profumi) trovato nel suo computer. Il volume pubblicato dalla 
casa editrice che, meritoriamente, non si spaventò davanti a Infinite Jest
 («sfilato» alla Norton in quel 1992) si apre con uno dei pezzi più 
famosi dell’opera diWallace, il profilo del tennista Roger Federer 
uscito per la prima volta sul «New York Times» nel 2006 (in Italia due 
anni fa con il titolo Roger Federer come esperienza religiosa da Casagrande e in settembre da Einaudi nella raccolta Il tennis come esperienza religiosa).
 È il capitolo più famoso del libro perché Wallace applica al suo sport 
preferito e al suo campione preferito gli strumenti — mostruosi — di 
analisi che gli fanno descrivere Federer come «mai di fretta, o 
sbilanciato. La pallina in avvicinamento resta sospesa in aria, per lui,
 una frazione di secondo in più di quel che dovrebbe. I suoi movimenti 
sono leggeri più che atletici. Come Alì, Jordan, Maradona e Gretzky, 
sembra essere allo stesso tempo più e meno corporeo degli avversari. 
Particolarmente nella divisa tutta bianca che Wimbledon si diverte 
tuttora a richiedere agli atleti, appare come quello che (penso) 
potrebbe davvero essere: una creatura il cui corpo è fatto di carne e, 
allo stesso tempo, in qualche modo, di luce».
È uno degli articoli più famosi della storia del giornalismo 
sportivo, la vetrina — anche per chi non abbiamai letto una riga della 
sua narrativa — di un talento abbagliante: e, se come ha detto di 
recente Franzen in un’intervista con «La Stampa», non bisogna cedere 
alla tentazione di trasformare Wallace dopo il suicidio del settembre 
2008 in un Kurt Cobain con l’aureola, è giusto che non tutti gli altri 
14 capitoli della raccolta siano all’altezza della sua bravura. Ci sono 
delle pepite d’oro: come l’analisi di uno dei suoi romanzi preferiti, Wittgenstein’s Mistress
 di David Markson (capolavoro bizzarramente non pubblicato in Italia) o 
la recensione della biografia di Borges scritta dal professor Williamson
 nella quale Wallace colpisce e affonda la tendenza dei biografi di 
andare a caccia di indizi nelle opere dei grandi scrittori come cani da 
tartufo: i racconti di Borges, scrive Wallace, «trascendono 
completamente i motivi che hanno spinto l’autore a scriverli. Al punto 
che i fatti biografici diventano, nel senso più profondo e letterale, 
irrilevanti».
Wallace, ex ragazzino prodigio, filosofo, divoratore di classici, 
ossessionato dalla grammatica e dall’etimologia delle parole, era un 
consumatore senza complessi di musica pop e cinema hollywoodiano. 
Purtroppo però quando scrive di tv o di kolossal di fantascienza (Terminator 2) i risultati sono normali, cioè largamente al di sotto del suo talento, come dimostrano alcuni capitoli di Both Flesh And Not. Più complicato il caso di un articolo del 1996, Back In New Fire:
 era stato scartato in passato su consiglio del suo editor, e mai 
incluso nelle due raccolte di giornalismo pubblicate in vita da Wallace.
 Qui sostiene pericolosamente — previa rassicurazione che, ovviamente, 
l’epidemia di Aids resta una tragedia — il paradosso che il pericolo 
mortale del Hiv abbia restituito significato al sesso: che dalla 
rivoluzione anni Sessanta fino all’esplosione dell’epidemia negli anni 
Ottanta era stato, per la prima volta nella storia, un’attività del 
tutto priva di rischio. La tesi, così paradossale, è però anche debole, e
 poco conta che ora via social media Bret Easton Ellis attacchi Wallace 
proprio per questo articolo: il tiro a segno su coloro che non possono 
rispondere è un classico di Twitter. Conta poco perché non c’è bisogno 
di trasformare il genio con la bandana nel Cobain con l’aureola: basta 
leggere la sua prosa, fatta di carne e anche di tanta luce.
di Matteo Persivale
Trovato sul Corriere della Sera  
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