lunedì 11 marzo 2013

E come sempre mi spiego male e non è facile capire cosa voglio dire

Sto leggendo V. di Thomas Pynchon. Non è il suo primo libro che leggo, sapevo a cosa andavo incontro quando l’ho iniziato. Pynchon è così: non proprio facile, a volte ostico, a tratti straniante, spesso ubriacante con nomi e situazioni inverosimili. Ma non è la difficoltà della prosa, né tantomeno la complessità della struttura narrativa, della storia, l’intreccio, o anche solo le singole parole scelte e usate, che mi fissano qui su questa pagina ora. Sono arrivato a pensare, con l’aiuto di qualcuno (è ovvio) (grazie a una cena, meno ovvio, ma più vero) quanto sia difficile non tanto Pynchon o qualsiasi altro autore, grande o piccolo. Mi sono soffermato sull’importanza piccola, a tratti microscopica, delle parole, di quelle anche più semplici, tipo: questo, o anche: tipo, o: anche. O: o. Tutte le parole, dalla prima all’ultima, da quella più impossibile a quella più impensabile. E allo stesso tempo, mentre pensavo a questo (proprio questo), pensavo anche a quanto fossero, tutte insieme o prese singolarmente, di una difficoltà quasi incalcolabile. Non nel dirle, a parlare, quanto piuttosto da capire nel leggerle.
E anche se qui ora mi sto spiegando male, e le parole sembrano rigirarsi tutte quante contro, attorcigliandosi le une sulle altre in un groviglio indistricabile di lettere dove non si riesce a capire dove inizi una frase e dove invece ne finisca un’altra (quasi a volere sottolineare loro stesse, le parole, la loro forza e la loro difficoltà), voglio dire, qui, le stesse parole usate magari in un discorso diretto, a voce, tra due persone, sono assai più difficili da capire, qui, in questa pagina scritta. I segni usati per definirle, i disegni che compongono in grafia la scrittura.
Leggere è un’attività talmente naturale, ora. Tendo a dimenticarne l’importanza. Come respirare. È diventato talmente automatico da non rendersene neppure conto. Apro un libro, apro V., leggo Pynchon, e nel frattempo respiro, tra una parole e un’altra. Inspiro, espiro. Leggo: “Meditava con aria impenetrabile lungo le rive di quel placido fiume del pessimismo italiano, dove tutti gli uomini erano corrotti: la storia avrebbe continuato a svilupparsi secondo una ricapitolazione degli stessi schemi.” (non è molto di buon auspicio). Se mi devo fermare per grattare un poco la testa (forse devo fare spazio dentro, dentro la testa, per le parole e le idee che sto leggendo), o togliere un ciuffo di capelli dagli occhi, spostarli dietro le orecchie, tutto questo ha bisogno di più attenzione nei movimenti di quanto invece non ne abbia bisogno leggere. Se devo spostare la mano, portarla alla nuca, grattarmi, etc, devo mettermi a pensare di farlo, di spostare la mano, di portarla alla nuca, di grattarmi; mentre se leggo, leggo e basta: le parole mi entrano in testa passando dagli occhi come se non fossi io a leggerle, a fare un’operazione attiva, quanto piuttosto fossero loro a venirmi dentro passando sempre dagli occhi, in un’operazione nella quale io sono semplicemente passivo. Le accolgo e le capisco, ma non faccio niente per prenderle. Almeno non me ne rendo conto. Invece sposto di poco un poco gli occhi, li faccio scorrere sull’inchiostro, e traduco ciò che vedo in parole effettive che capisco: trasformo i disegni della scrittura in significato.
Tutto questo in un processo automatico, tanto automatico che adesso, proprio ora, mi domando: come ho fatto a impararlo? È una cosa incredibile di cui in effetti non mi ricordo assolutamente, perché ho una vaga memoria di quando non sapevo leggere, quando i libri erano solo un mucchio di pagine con degli scarabocchi sopra; e ho memoria di quando invece sapevo leggere (quando mi sono intestardito a leggere i tre moschettieri o la storia infinita) ma non ho memoria di quando questi due momenti si sono accavallati, quel confine nel quale stato imparando a leggere: ancora non sapevo del tutto, ma qualcosa sapevo. E in questo non posso fare nessun confronto con il respirare, perché non ho proprio mai nessun ricordo di quando ancora non respiravo. Questo perché respirare è naturale, è in qualche modo implicito nell’essere.
Sono arrivato a un punto in cui anche leggere è diventato implicito, e se voglio ricordarmi di quando non leggevo (non per le possibilità di tempo o di voglia, quanto piuttosto proprio di impossibilità intesa come incapacità) devo fare uno sforzo nel guardarmi indietro, e anche facendolo non ho che un ricordo sfocato, del tipo: non ho la visione precisa di un giorno in cui magari non ho mai letto perché non sapevo, ho visioni di giorni in cui non leggevo perché troppo piccolo per interessarmi alla lettura, giorni durante i quali non facevo che giocare e giocare e giocare ancora: giorni troppo corti per contenere tutta quanta la mia esuberanza nel correre e nello scoprire cose nuove.
Se dovessi imparare ora a leggere, da dove inizierei? Se per caso dimenticassi tutto a un tratto come si fa, riuscirei a reimparare a farlo? O se dovessi insegnarlo io a qualcun altro: riuscirei a insegnarlo come è stato insegnato a me?
L’insegnamento della lettura, del leggere e non di cosa leggere o dello scegliere cosa leggere, è questo il difficile, più del leggere in sé. Nel farlo apri un mondo e ne apri mille allo stesso tempo. Se leggere ora per me è così facile è perché tutte le difficoltà si sono rifugiate dentro quella difficoltà, la difficoltà dell’insegnarmelo, talmente profonda, questa difficoltà, che io non riesco a vederne la fine (è per questo che io non riuscirei a farlo, a insegnare a leggere). È a chi ha tutta questa capacità, e soprattutto in modo molto egoistico a chi ha avuto tutta questa capacità nell’insegnarlo a me, che va tutta la mia gratitudine.
Grazie.
Grazie mille.
Davvero.

Nessun commento: