mercoledì 17 dicembre 2014

Contro l’occhio. La scrittura del dolore vero

In un piccolo volume del 2006, La Letteratura dell’inesperienza, Antonio Scurati rifletteva su quanto la società di plastica in cui viviamo abbia sostituito l’esperienza diretta del mondo (com’è, per antonomasia, quella vissuta da chi ha fatto la guerra) con una sorta di cognizione del dolore indiretta, asettica, disinfettata e interrotta da assidui diaframmi che sono prima di tutto gli schermi attraverso i quali giunge a noi la realtà, a pillole, frammentata, amplificata e voltata in evento per far fronte all’insufficienza del nostro presente: in sostanza, cioè, esperiamo quotidianamente l’inesperienza; la quale non solo crea una letteratura incapace di poggiare i piedi per terra, ma genera un cortocircuito che impedisce di gettare ponti verso il passato e verso il futuro. L’uomo finisce così per mancare, nel campo delle cose narrabili, di quel copioso materiale che ebbero per la testa i nostri nonni. Ed è ovviamente un problema letterario, sì, ma prima di tutto psicologico e morale; è un buco nella coscienza, colmato talora, e tragicamente, dal piombare furioso dell’evento eccezionale: un terremoto, un’alluvione, un disastro della natura. E quando accade, gli scrittori aggrediscono il caso anomalo e terribile, lo accerchiano e se ne lasciano invadere come la terra riarsa accoglie il fortunale.
Così, se l’uomo d’oggi è questo, incapace di dire la sofferenza, il freddo e la paura, la letteratura percorre due vie soltanto: o rende manifesto, quando riesce, l’handicap e, nel tentativo di superarlo, forza la scrittura ad aprire il diaframma e a farsi denuncia e superamento dello iato che ci separa dall’esperienza; oppure, in altri rari casi e avvalendosi di un campo d’indagine inedito per le nostre coscienze sopite, essa s’immerge nei brividi dolorosi provocati dalla vita quando la vita si leva i guanti e ci tocca con le sue dita gelide e ossute.
Scrivere intorno alle tragedie significa sfidare se stessi e il proprio tempo. Lo hanno fatto, nell’ultimo lustro (quello dei terremoti dell’Aquila e dell’Emilia, per arrivare all’alluvione di Senigallia del 3 maggio scorso), diversi scrittori, più sovente attraverso volumi collettivi che non con opere ‘in solitaria’: è il caso di E lieve sia la terra (Textus edizioni, 2011), antologia di testi, a cura di Luca d’Ascanio, dedicati alle persone scomparse il 6 aprile 2009 in Abruzzo; o dei 14 racconti attorno alla tragedia emiliana del maggio 2012, nel volume a cura di Paolo Roversi, con introduzione di Loriano Macchiavelli, Scosse. Scrittori per il terremoto (Felici editore, 2012); o ancora, con un titolo che è un brivido onomatopeico, delle testimonianze raccolte in Tremaggio. L’alluvione di Senigallia nel racconto di otto scrittori (a cura di Antonio Maddamma, con un testo di Massimo Cirri, Ventura edizioni, 2014). E c’è anche chi, come Enrico Macioci, ha affrontato il tema della terra che trema, ancora in Abruzzo, all’Aquila, con una scrittura via via più sperimentale, da Terremoto (Terre di mezzo, 2010) al labirintico ed espressionistico La dissoluzione familiare (Indiana, 2012).
Sono testi che, provando uno spettro di soluzioni che va dall’approccio cronachistico a quello filosofico, dallo sguardo sociologico alla stratificazione e trasfigurazione postmoderna, riattivano tutti, in prima istanza, una sacra ispirazione che fu della letteratura d’ogni tempo, e che forse nell’epoca dell’inesperienza ha cessato di funzionare, o di funzionare bene: quella di dare forma all’informe o, per dirla con Calvino, di “scegliere una strategia per affrontare l’inaspettato senza essere distrutto”; o, ancora, di impartirci, con le sue storie immutabili, con l’impossibilità di cambiare il destino che ai personaggi letterari è riservato, la più grande e utile lezione di vita, che è lezione “repressiva” – scriveva pochi anni fa Umberto Eco –, di educazione al fato, alla sofferenza, alla morte. Tanto di più quando si applica direttamente, e non per via teorica, a quegli oggetti della coscienza.
Ma oltre a ciò, scrivere del dolore e della morte (allorché il dolore e la morte sono veri, e non esercizio, seppur onorevole, della fantasia) significa recuperare altre funzioni umane spesso atrofizzate dalla piattezza delle nostre esistenze. La scrittura del dolore non solo cerca di scardinare l’apatia, non solo dimostra la lacerazione tra l’esperienza tragica e l’inesperienza diffusa, ma porta a scoprire ancora il pudore, quello che c’era nelle sofferenze di una volta, nelle guerre di un tempo, e che, come scriveva cent’anni fa Antonio Baldini in Nostro Purgatorio, riduceva al confine delle zone d’operazione quelli che la guerra non la facevano e non la dovevano fare. Baldini sosteneva che non può esserci spazio per chi guarda, perché era nel giusto solo chi la guerra la combatteva. La nostra società – che ci sia o che non ci sia la guerra – è invece tutta edificata sulla visione: forse vediamo troppo, ci è concesso di vedere troppo, e il nostro sguardo morboso (quello che ha iniziato a esercitarsi sulla morte in diretta di Alfredino Rampi) ha perduto l’organica moralità che un tempo fu eccitata dagli ostacoli del pudore.
Un compito della letteratura potrebbe essere allora – e la scrittura attorno alle tragedie ne è un esempio – il rigetto della visione, e la riconquista delle parole che fanno vedere, anch’esse, ma con dignità. Senza clamori, senza spettacolo, in maniera nostalgica. Per ottenere, infine, di avere ancora paura, e rispetto, per la nostra vita.

di Giacomo Verri

Trovato qui: Nazione Indiana

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