giovedì 9 luglio 2009

Le nostre corriere immaginarie

Venivi a svegliare tuo fratello e sussurravi parole corte a me: a due millimetri dalle mie orecchie, la tua bocca si muoveva al rallentatore con solo le tue labbra a riempire tutta la visuale. Era inverno, quello delle cioccolate calde nei rifugi sopra le piste da sci; quello degli occhiali scuri da pagliaccio e i cappelli avvolti attorno al collo. Poi era l'estate, quella dell'erba gialla sotto il sole fresco di montagna, quella delle partite a calcio con sconosciuti sudati e vocianti; quella del rinchiudersi nella sala giochi spenta, con i tuoi occhi a sfiorare il pavimento di legno, il sole che filtrava in quel seminterrato dalle finestre sottili appena sotto il soffitto. Era l'estate del nostro silenzio, dove la timidezza schiva che conoscevamo entrambi non ci faceva neppure toccare. Le notti insonni dentro la tenda costruita al posto del letto, passate a drogarci arrotolando le pagine del pasto nudo che stavamo mangiando con una lettura lenta e attenta; quei giorni che stiravo fino all'alba per cercare un modo nascosto per dirti tutto, senza la voce e con gli occhi chiusi. Disegnavo bottiglie di vino vuote con dentro ossa, passavo da una persona all'altra come se il fisico fosse un semplice vestito, e le vene, i muscoli, i tendini, le articolazioni, tutto quanto si potesse appendere ad una gruccia e aspettare il momento buono per indossare chi preferivi. E poi di nuovo inverno. Le nostre corriere immaginarie dove sedevamo accanto, guardando dai finestrini la neve iniziare ad accumularsi ai bordi della strada. Troppo presto per parlare, per immaginare parole da infilarci in bocca, anche se poi avevamo musica di sottofondo e nelle immagini ci vedevamo l'uno rivolto verso l'altra, intenti a discutere. Di tutte quelle chiacchierate io non mi ricordo che l'atmosfera, sognante e leggermente distaccata. E pensare che all'epoca non c'era neppure la nebbia a darci fastidio: era bel tempo e l'orizzonte bianco rimaneva saldo sotto di noi. Ci salutavamo con grazia senza farci male, senza dolore, senza alcun rito. Ci alzavamo da tavola andando via, mi alzavo da tavola e andavo verso un bosco dove ogni albero conduceva ad un mondo proprio. Mi alzavo da tavola ed un giorno ero in coma, mentre l'altro no, e tu venivi all'ospedale a trovarmi, un'ospedale bianco dove tutti i tubi che mi entravano in bocca e nel naso, dentro le braccia, non mi facevano male e non sentivo neppure. E tu piangevi, piangevi fino a ubriacarti gli occhi, seduta lì accanto, con la testa affondata sulle coperte del mio letto. E io disegnavo bottiglie di vino vuote. Ci mettevo dentro un osso come in quelle bottiglie dove si vedevano le navi antiche ricostruite dentro. Dipingevo cose strane per essere sicuro di non farti capire. E alla fine, alla fine non hai capito davvero.

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