lunedì 25 maggio 2009

L'unica volta che hai avuto freddo

L'unica volta che hai avuto freddo è stata quella sera che ti portai alla rocca. Indossavi solo una sottile maglia bianca, con delle scritte evidenziate alcune si altre no, con sopra il tuo solito giacchetto marrone, ed anche se ti ci abbracciavi dentro, cercavi di coprirti il più possibile senza però aggancaire la cerniera e chiuderla del tutto fin sotto il mento, era proprio fisicamente impossibile che tu potessi stare al caldo. La primavera non aveva ancora deciso se fermarsi oppure no: di giorno il sole scaldava facendoci spogliare o vestire il meno possibile, e la notte al buio il freddo diventava pungente cogliendoti di sorpresa. Quella sera non dovevi neppure uscire, avevi deciso di rimanere a casa a guardarti un film, o uno di quei documentari storici sugli egizi, gli atzechi o i babilonesi. Quando arrivai a casa tua e ti convinsi a fare un giro, più per parlare che non per altro, afferrasti le prime cose che avevi lasciato sopra il letto e partimmo poi con la mia macchina.
Non ricordo di preciso come ci ritrovammo alla rocca. Forse tra una curva a destra, un semaforo rosso e alcuni nuovi sensi unici, c'eravamo così vicini che mi venne naturale andarci. Tu non c'eri mai stato e quando mi fermai al parcheggio poco dopo la piazza dicesti che era un bel posto: buio, illuminato quel tanto da non essere eccessivo, e con un bel prato davanti. In realtà la rocca non è altro due antiche torri rimaste più o meno miracolosamente in piedi, unite tra loro da un muro di mattoni bianchi che delimitano una specie di cortile interno. Detta così può sembrare chissà cosa, ma in realtà è tutto molto più decadente e abbattuto da renderlo non certo molto speciale. L'unica cosa di meraviglioso, quello si, è il paesaggio che dall'alto si può guardare illuminarsi delle luci della vallata, le macchine come formiche elettriche e fluorescenti che passano giù in basso sull'autostrada, mentre attorno la notte avvolge le case, nascondendole del tutto o solo in parte.
Scendemmo di macchina continuando a parlare, con te che ti sfogavi di quella ragazza con cui uscivi. Lasciavi andare avanti le parole, su parole e parole, e mentre dicevi questo o dicevi quello capivo sempre di più che avevi semplicemente bisogno di parlarne, che forse non avevi le idee chiare neppure te e dire le cose a voce, magari anche a nessuno o avendo l'impressione di dirle a qualcuno anche se poi le dicevi soprattutto a te stesso, le capivi meglio e te ne facevi un'idea, un'opinione. Oppure avevi voglia di stare con lei e non con me, e parlando di lei, di come stava l'ultima sera che l'hai sentita, di quanto tempo era passato dalla volta che le avevi telefonato e ti aveva risposto, dei vostri discorsi e dei vostri sguardi, dei significati che tu davi ai suoi occhi e ai significati che i tuoi occhi acquisivano ogni volta che guardavano lei; forse parlando di tutto questo, impregnando ogni frase di questa ragazza, magari non così speciale ma pur sempre speciale, era un po' come se ci fossi insieme a lei, ne sentivi certo meno la mancanza.
Così, quando arrivati sotto la torre ti ho detto di salire, di andare a guardare un po' il panorama dall'alto, tu hai detto ok, andiamo, per poi fermarti a metà percorso, dicendo di voler tornare indietro. Avevi paura: non sei mai stato uno abituato alle grandi, o anche medie, altezze. Abbiamo ridisceso le scale in silenzio, senza quasi neppure respirare. Poi, seduta su una panchina nascosta dalla strada, abbiamo visto una coppia di ragazza legati tra di loro. Non si sono accorti di noi, hanno continuato a baciarsi come se niente fosse, come se noi non esistessimo affatto. Allora hai ripreso a parlare: portami a casa, hai detto. Ho voglia di vedere un documentario. Su una antica civiltà? Ti ho chiesto. No, sull'impollinazione dei fiori, mi hai risposto.

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